Lettere di
condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 - 25
aprile 1945), a cura
di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, Prefazione di Enzo Enriques Agnoletti,
Torino, Einaudi, 1952, 346 pp.
«Questi benedetti libri sono il mio vizio, e conoscendo che mi scomoda, non ostante non so disfarmene, perché qui la passione domina». Giuseppe Pelli, 10 gennaio 1764. Libido Legendi è l'angolo dei lettori di LIBRidO - Laboratorio di Studi e Servizi Culturali, uno spazio dedicato a tutti coloro che condividono con noi il piacere della lettura e l'amore per i libri.
Visualizzazioni totali
venerdì 25 aprile 2014
domenica 20 aprile 2014
sabato 19 aprile 2014
19 aprile 1869: L'uomo che ride di Victor Hugo (a cura di Piero Canale)
Il 19 aprile 1869 esce per i tipi dell'editore Libraire Internationale, L'homme qui rit, romanzo di Victor Hugo.
L'opera narra la storia d'un saltimbanco inglese sotto il regno di Anna Stuarda,
conosciuto con il nome di Gwynplaine, orribilmente mutilato che poi, scoperto discendente
d'una grande famiglia inglese, i Clancharlie, ed entrato in possesso dei suoi titoli
e beni, si fa carico del disagio del popolo oppresso con cui ha vissuto. Brutalmente
è questa la trama del libro, sebbene non sia un romanzo a lieto (non vi svelo il
finale, state tranquilli).
Il romanzo, iniziato nel 1866, terminato ufficialmente il 23 agosto 1868,
viene pubblicato l'anno dopo: è l'ultima grande opera di Hugo, scritta durante il
suo esilio nelle isole anglo-normanne nella Manica.
Victor Hugo nacque a Besançon, una città della Francia orientale, il 26 febbraio
del 1802. Era figlio di Léopold-Sigisbert, stipettaio di Nancy, divenuto generale
napoleonico. Non entro nel merito della biografia e della produzione letteraria
di Hugo[1] - non ne avrei le competenze e le forze -
ma mi piaceva condividere con i lettori di Libido
Legendi, alcune pagine di questo romanzo, forse poco conosciuto, o comunque
sovrastato per fama da I Miserabili e
Notre-Dame de Paris.
Il romanzo doveva intitolarsi Per ordine del re (che diventò poi il titolo
della seconda parte del libro), quasi un'analogia - seppur con le ovvie cautele
- con la vita dello scrittore, deputato all'Assemblea Nazionale, che fu esiliato
per le aspre critiche a Napoleone III.
Le pagine che voglio riportare, l'intervento di Gwynplaine alla Camera dei
Lord, sono molto vicine agli interventi di Hugo all'assemblea.[2] C'è la politica, ci sono gli ideali, c'è il
romanzo. Una differenza che per lo scrittore forse viene meno, si sfalda. In occasione
dell'anniversario della pubblicazione del romanzo, propongo un ampio stralcio estrapolato
dal romanzo:
«Milord Fermain Clancharlie, barone Clancharlie
e Hunkerville».
Gwynplaine si alzò:
«Non contento» disse.
Tutte le teste si voltarono.
«Chi siete? Da dove venite?».
Gwynplaine rispose:
«Dal baratro. Chi sono? Sono la miseria.
Milord, devo parlarvi.
Milord, voi siete in alto. Sta bene. Non
si può fare a meno di credere che Dio abbia le sue ragioni per volerlo. Voi avete
il potere, l'opulenza, la gioia, il sole immobile al vostro zenit, l'autorità illimitata,
il godimento esclusivo, l'immenso oblio degli altri. E sia. Ma sotto di voi c'è
qualcosa. E anche sopra, forse. Milord, vengo a portarvi una notizia. Il genere
umano esiste.
Io sono colui che viene dalle profondità.
Milord, voi siete i grandi e i ricchi. È pericoloso. Approfittate della notte. Ma
state in guardia, c'è una grande potenza, l'aurora. L'alba non può essere vinta.
Arriverà. Sta già arrivando. E ha in sé un irresistibile fiotto di luce. E chi impedirà
a questa fionda di scagliare il sole nel cielo? Il sole è il diritto. Voi, invece,
siete il privilegio. Abbiate paura. Il vero padrone di casa sta per bussare alla
porta. Chi è il padre del privilegio? Il caso. E chi è suo figlio? L'abuso. Né il
caso né l'abuso sono solidi. Hanno entrambi un pessimo domani. Io vengo ad avvertirvi.
Vengo a denunciarvi la vostra stessa felicità. È fatta dell'infelicità altrui. Voi
avete tutto, ma il vostro tutto è fatto nel nulla degli altri. Milord, io sono l'avvocato
senza speranza, difendo una causa persa. Questa causa, la vincerà Dio. Io non sono
niente, sono solo una voce. Il genere umano è una bocca e io sono il suo grido.
Voi mi ascolterete. Vengo ad aprire davanti a voi, pari d'Inghilterra, le grandi
assise del popolo, questo sovrano che è vittima, questo condannato che è giudice.
Mi piego sotto il peso di ciò che ho da dire. Da dove iniziare? Non so. Ho raccolto
nella vasta diffusione delle sofferenze, la mia sconfinata arringa sparsa. Che farne?
Mi opprime e io la riverso alla rinfusa qui davanti. Avevo previsto tutto questo?
No. Voi siete stupiti, anch'io. Ieri ero un guitto, oggi sono un lord. Giochi profondi.
Di chi? Dell'ignoto. Tutti dobbiamo tremare. Milord, tutto l'azzurro è dalla vostra
parte. Di quest'immenso universo voi vedete solo la festa; sappiate che c'è anche
l'ombra. Per voi io sono lord Fermain Clancharlie, ma il mio vero nome è un nome
da povero, Gwynplaine. Io sono un miserabile tagliato nella stoffa dei grandi da
un re, il cui capriccio volle così. Ecco la mia storia. Molti di voi hanno conosciuto
mio padre, io non l'ho conosciuto. Egli è prossimo a voi per il suo lato feudale,
mentre io gli sono vicino per il suo lato proscritto. Ciò che Dio ha fatto è un
bene. Sono stato gettato nel baratro. A che scopo? Perché ne vedessi il fondo. Sono
un sommozzatore che riporta a galla una perla, la verità. Parlo perché so. E voi
mi ascolterete, milord. Io ho provato. Ho visto. La sofferenza, no, non è una parola,
signori felici. La povertà? Ci sono cresciuto. L'inverno? Mi ha fatto battere i
denti. La fame? L'ho patita. Il disprezzo? L'ho subito. La peste? L'ho avuta. La
vergogna? L'ho trangugiata. E la rivomiterò davanti a voi e questo vomito d'ogni
miseria vi schizzerà sui piedi e divamperà. Ho esitato prima di lasciarmi condurre
in questo posto in cui sono, perché altrove ho altri doveri. È il mio cuore non
è qui. Ciò che è accaduto dentro di me non vi riguarda; quando l'uomo che voi chiamate
l'usciere della verga nera è venuto a prendermi da parte di colei che chiamate regina,
per un momento ho pensato di rifiutare. Ma mi è sembrato che l'oscura mano di Dio
mi spingesse in questa direzione e ho obbedito. Ho sentito che era necessario che
venissi tra voi. Perché? Per via dei miei stracci di ieri. Era per prendere la parola
tra i sazi che Dio mi aveva messo tra gli affamati. Oh! Abbiate pietà! Oh! Questo
mondo fatale in cui credete di vivere, voi non lo conoscete; siete così in alto
da starne fuori; vi dirò io com'è. Di esperienza ne ho. Arrivo da sotto. Posso dirvi
quanto pesate. Voi, i padroni, sapete cosa siete? Ciò che fate, lo vedete? No. Ah!
Com'è tutto terribile. Una notte, una notte di tempesta, piccolo, abbandonato, orfano,
solo nell'immenso creato, ho fatto il mio ingresso in quell'oscurità che chiamate
società. La prima cosa che ho visto è stata la legge, sotto forma di una forca;
la seconda è stata la ricchezza, la vostra ricchezza, sotto forma di una donna morta
di freddo e di fame; la terza è stata il futuro, sotto forma di una neonata agonizzante;
la quarta è stata il bene, il vero e il giusto, sotto le spoglie di un vagabondo
che aveva per unico compagno ed amico un lupo».
Osservò per un momento quegli uomini che
ridevano.
«Allora voi insultate la miseria. Silenzio,
pari d'Inghilterra! Giudici, ascoltate l'arringa. Oh! Vi scongiuro, abbiate pietà!
Pietà di chi? Pietà di voi stessi. Chi è in pericolo? Voi. Non vedete che siete
su una bilancia e che su un piatto c'è il vostro potere e sull'altro la vostra responsabilità?
Dio vi pesa. Oh! Non ridete. Meditate. L'oscillazione della bilancia divina è il
tremore della coscienza. Voi non siete cattivi. Siete uomini come gli altri, né
migliori, né peggiori. Vi credete dèi, ma se vi ammalaste domani, vedreste la vostra
divinità rabbrividire di febbre. Siamo tutti uguali. Mi rivolgo agli spiriti onesti
e ce ne sono; mi rivolgo alle menti elevate e ce ne sono; io mi rivolgo alle anime
generose e ce ne sono anche tra voi. Voi siete padri, figli e fratelli, dunque spesso
provate tenerezza. Chi tra voi stamattina ha guardato svegliarsi suo figlio è buono.
I cuori sono tutti uguali. L'umanità non è altro che un cuore. Tra chi opprime e
chi è oppresso non c'è differenza a parte il luogo che occupano. I vostri piedi
calpestano teste umane, non è colpa vostra. È colpa della Babele sociale. Costruzione
difettosa, tutta a sbalzi. Un piano opprime l'altro. Ascoltate ciò che vi dico.
Oh! Voi che siete potenti, siate fraterni; voi che siete grandi, siate dolci. Se
sapeste tutto quello che ho visto! Ahimè! Che tormento, giù in basso! Il genere
umano è in prigione. Quanti dannati innocenti! Manca la luce, manca l'aria, manca
la virtù; non c'è speranza; e, cosa temibile, si aspetta. Rendetevi conto di queste
miserie. Ci sono creature che vivono nella morte. Ci sono ragazzine che iniziano
a otto anni con la prostituzione e finiscono a venti con la vecchiaia. La severità
penale, poi, è spaventosa. Parlo un po' a caso, non seguo un ordine. Dico quello
che mi viene in mente. Non più tardi di ieri, io che sono qui, ho visto un uomo
nudo e incatenato, con un mucchio di pietre sul ventre, spirare sotto tortura. Lo
sapete voi? No. Se sapeste quello che accade, nessuno di voi oserebbe essere felice.
Chi di voi è stato a Newcastle-on-Tyne? Ci sono uomini nelle miniere che masticano
carbone per riempirsi lo stomaco e ingannare la fame. Nella contea di Lancaster,
Ribblechester, a forza d'indigenza, da città è diventata un villaggio. Non trovo
che il principe Giorgio di Danimarca abbia bisogno di centomila ghinee in più. Preferirei
far accogliere dall'ospedale l'indigente malato senza fargli pagare in anticipo
la sepoltura. Nel Caërnarvon, a Traith-maur come pure a Strafford, non si può prosciugare
la palude per mancanza di denaro. Le fabbriche tessili sono chiuse in tutto il Lancashire.
Disoccupazione ovunque. Lo sapete voi che i pescatori di aringhe di Harlech mangiano
l'erba quando la pesca va male? Lo sapete che a Burton-Lazers ci sono ancora lebbrosi
braccati, a cui si tirano fucilate se escono dalle loro tane? A Ailesbury, città
di cui uno di voi è lord, la carestia è permanente. A Penckridge nel Coventry, di
cui avete appena beneficato la cattedrale e arricchito il vescovo, non ci sono letti
nelle capanne e si scavano buche nella terra per farci dormire i bambini, che invece
di iniziare dalla culla, iniziano dalla tomba. Io ho visto queste cose. Milord,
le imposte che voi votate, sapete chi le paga? I moribondi. Ahimé! Voi sbagliate.
Siete sulla cattiva strada. Aumentate la povertà del povero per accrescere la ricchezza
del ricco. Bisognerebbe fare il contrario. Come, prendere a chi lavora per dare
allo sfaccendato, prendere al pezzente per dare a chi è sazio, prendere all'indigente
per dare al principe! Oh! Sì, ho un vecchio sangue repubblicano nelle vene. Tutto
questo mi fa orrore. I re, li detesto! E le donne, come sono sfrontate! Mi hanno
raccontato una triste storia. Oh! Odio Carlo II! Una donna che mio padre aveva amato
si è data a questo re, mentre mio padre moriva in esilio, prostituta! Carlo II,
Giacomo II; dopo un buono a nulla, uno scellerato! Cosa c'è in un re? Un uomo, un
essere debole e meschino, schiavo dei bisogni e delle infermità. A cosa serve un
re? Questo sovrano parassita, lo rimpinzate. Questo verme della terra, voi lo trasformate
in un boa. Questa tenia, la trasformate in un drago. Pietà per i poveri! Aggravate
le imposte a profitto del trono. State attenti alle leggi che decretate. State attenti
al formicaio dolente che schiacciate. Abbassate gli occhi. Guardate ai vostri piedi.
O grandi, ci sono anche i piccoli! Abbiate pietà. Sì! Pietà di voi! Perché le moltitudini
agonizzano e chi sta in basso, morendo, fa morire anche chi sta in alto. La morte
è venir meno che non risparmia nessun membro. Quando scende la notte, nessuno conserva
il suo raggio di luce. Siete egoisti? Salvate gli altri. La perdita della nave non
può lasciare indifferente nessun passeggero. Non c'è naufragio degli uni senza inabissamento
degli altri. Oh! Sappiatelo, l'abisso è per tutti.
È allegra questa turba di uomini! Bene.
L'ironia contrapposta all'agonia. Le risate che oltraggiano il rantolo. Sono onnipotenti!
Può darsi. Sia pure. Si vedrà. Ah! Io sono uno di loro. Ma sono anche uno dei vostri,
o poveri! Un re mi ha venduto, un povero mi ha raccolto. Chi mi ha mutilato? Un
principe. Chi mi ha guarito e nutrito? Un morto di fame. Sono lord Clancharlie,
ma rimango Gwynplaine. Sono uno dei grandi ma appartengo ai piccoli. Sono tra quelli
che se la godono e sono con quelli che soffrono. Ah! Questa società è falsa. Un
giorno verrà la società vera. Allora non ci saranno più signori, ci saranno creature
libere. Non ci saranno più padroni, ci saranno padri. Questo è l'avvenire. Niente
più genuflessioni, niente più bassezza, niente più ignoranza, niente più uomini
come bestie da soma niente più cortigiani, niente più servi, niente più re, solo
luce! Nel frattempo, eccomi. Ho un diritto, ne faccio uso. È un diritto? No, se
lo uso per me. Sì, se lo uso per tutti. Parlerò ai lord da lord. O fratelli miei
che state in basso, dirò loro la vostra miseria. Mi alzerò stringendo nel pugno
gli stracci del popolo e scuoterò sui padroni l'indigenza degli schiavi e loro,
i favoriti e gli arroganti, non potranno più sbarazzarsi del ricordo degli sventurati,
e liberarsi, loro che sono principi delle brucianti piaghe dei poveri e tanto peggio
se sono putrescenti e piene di parassiti e tanto meglio se piovono su dei leoni!
Chi è quella gente in ginocchio? Cosa
fate lì? Alzatevi, siete degli uomini.
Io predìco.
Che ci faccio qui? Vengo a essere terribile.
Sono un mostro, voi dite. No, sono il popolo. Sono un'eccezione? No, sono come chiunque.
L'eccezione siete voi. Voi siete la chimera, io sono la realtà. Io sono l'Uomo.
Sono lo spaventoso Uomo che Ride. Ride di cosa? Di voi. Di se stesso. Di tutto.
Cos'è il suo riso? Il vostro delitto e il suo supplizio ve lo sputa in viso. Io
rido, che vuol dire: Io piango.
Questo riso che ho sulla faccia, ce l'ha
messa un re. Questo riso esprime la desolazione universale. Questo riso significa
odio, silenzio forzato, rabbia, disperazione. Questo riso è il frutto delle torture.
Questo riso è un riso coatto. Se Satana ridesse in questo modo, il suo riso condannerebbe
Dio. Ma l'eterno non somiglia ai mortali; essendo l'assoluto è giusto; e Dio odia
ciò che fanno i re. Ah! Voi mi prendete per un'eccezione! Io sono un simbolo. O
stupidi onnipotenti, aprite gli occhi. Io incarno tutto. Io rappresento l'umanità
così come l'hanno fatta i suoi padroni. L'uomo è mutilato. Quello che hanno fatto
a me, l'hanno fatto al genere umano. Gli hanno deformato il diritto, la giustizia,
la verità, la ragione, l'intelligenza, come a me gli occhi, le narici e le orecchie;
come a me, gli hanno messo nelle cuore una cloaca di collera e di dolore, e sulla
faccia una maschera di allegria. Dove si era posato il dito di Dio, s'è appoggiato
l'artiglio del re. Mostruosa sovrapposizione. Vescovi, pari e principi, il popolo
è qualcuno che soffre intimamente e ride in superficie. Milord, vi dico che il popolo
sono io. Oggi, voi lo opprimete, oggi voi mi schermite. Ma l'avvenire è un cupo
disgelo. Ciò che era pietra diventa flutto. L'apparente solidità si tramuta in sommersione.
Uno scricchiolio ed è finita. Verrà un momento in cui una convulsione spezzerà la
vostra soppressione, in cui un ruggito risponderà ai vostri schiamazzi. Quel momento
è già venuto - e tu c'eri, padre mio! -, quel momento divino è venuto e si chiamava
Repubblica, l'hanno cacciato, ma tornerà. Nell'attesa, ricordatevi che la serie
dei re armati di spada è stata interrotta da Cromwell armato di scure. Tremate.
Si avvicinano soluzioni incorruttibili, le unghie tagliate ricrescono, le lingue
strappate prendono il volo e diventano lingue di fuoco sparse al vento nelle tenebre
e urlano nell'infinito; gli affamati mostrano i loro denti inattivi, i paradisi
costruiti sugli inferni vacillano, si soffre, si soffre, e ciò che è in alto tentenna
e ciò che è in basso si schiude, l'ombra vuole diventare luce, il dannato mette
in discussione l'eletto, è il popolo che viene vi dico, è l'uomo che sale, è l'inizio
della fine, è la rossa aurora della catastrofe, ecco che c'è in questo riso che
vi fa ridere! Londra è una festa perpetua. E va bene. L'Inghilterra è da un capo
all'altro un'acclamazione. Sì. Ma ascoltate: Tutto ciò che vedete sono io. Le vostre
feste sono il mio riso. I vostri pubblici divertimenti sono il mio. I vostri matrimoni,
sagre e incoronazioni sono il mio riso. Le vostre nascite principesche sono il mio
riso. Il tuono che avete sopra la testa è il mio riso». [Victor Hugo, L'uomo che ride,
prefazione di Jean Gaudon, traduzione di Donata Feroldi, con un saggio di Robert
Louis Stevenson, Milano, Mondadori, 1999, pp. 630-42].
[1] Rimando alla scheda Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/victor-marie-hugo/
(ultimo accesso: 19/04/2014).
[2] Victor Hugo,
Discours à l'Assemblée nationale (1848-1871),
http://www.assemblee-nationale.fr/histoire/victor_hugo/discours.asp
(ultimo accesso: 19/04/2014).
venerdì 18 aprile 2014
Addio a Gabriel Garcia Marquez. Un momento di solitudine lungo cent'anni
Giunge da Città del Messico la notizia della scomparsa di Gabo.[1] Così
lo chiamavano gli amici. Gli amici, che sono, invero, tutti coloro, che si sono
persi tra le pagine di Gabriel Garcia Marquez, che hanno pianto, che hanno sudato,
che hanno ricominciato più e più volte a leggere Cent'anni di solitudine. Nomi e paesi lontani, che oggi i critici chiamano
realismo magico, ma che in realtà è la solitudine dell'uomo di fronte a un'idea
di progresso che lascia l'individuo inerme di fronte a quei "giganti"
che brutalmente governano le vite, sradicano, spremono le ricchezze e le anime.
Macondo è il mondo.
Non è un caso che il romanzo più celebre e denso di Gabo (e forse anche del
XX secolo) esca nel 1967 (in Italia è pubblicato nel 1968 da Feltrinelli nella traduzione
di Enrico Cicogna). Non è un caso, poiché è difficile credere alle coincidenze,
quando nel mondo una generazione è pronta a fare una rivoluzione, e un mondo è descritto
con tutte le storture, le stranezze, le difficoltà, le "magie", i sentimenti
e le generazioni che passano e cuociono sotto il sole ardente e si piegano sotto
la pioggia e si inchinano alla morte. L'America Latina è soltanto un teatro, forse
quello più truce di una modernità altera che nega i popoli e la natura dell'uomo.
Soltanto l'istinto della sopravvivenza risulta - perdonatemi il gioco di parole
- sopravvivere. Rimane un uomo diverso, ma che nello stesso tempo è uomo perché
sopravvive nel seme e nell'amore. Amore, ricordi e una rivoluzione di Bolìvar non
compiuta. Sogni che sono già nostalgia. Oggi saranno più di cento gli anni che questo
momento di solitudine darà all'anima del mondo.
Piero Canale
A voi l'incipit di Cent'anni di solitudine.
Tutti gli anni, verso il mese di marzo,
una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande
frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono
la calamita.
Uno zingaro corpulento, con barba arruffata
e mani di passero, che si presentò col nome di Melquìades, diede una truculenta
manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l'ottava meraviglia dei
savi alchimisti della Macedonia. Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici,
e tutti sbigottirono vedendo che i paioli, le padelle, le molle del focolare e i
treppiedi cadevano dal loro posto, e i legni scricchiolavano per la disperazione
dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi, e perfino gli oggetti perduti
da molto tempo ricomparivano dove pur erano stati lungamente cercati, e si trascinavano
in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di Melquìades. "Le cose hanno
vita propria," proclamava lo zingaro con aspro accento, "si tratta soltanto
di risvegliargli l'anima." José Arcadio Buendìa, la cui smisurata immaginazione
andava sempre più lontano dell'ingegno della natura, e ancora più in là del miracolo
e della magia, pensò che era possibile servirsi di quella invenzione inutile per
sviscerare l'oro della terra. Melquìades, che era un uomo onesto, lo prevenne: "Per quello non serve." Ma a quel tempo
José Arcadio Buendìa non credeva nell'onestà degli zingari, e cos i' barattò il
suo mulo e una partita di capri coi due lingotti calamitati.
Ursula Iguaran, sua moglie, che faceva
conto su quegli animali per rimpinguare il deteriorato patrimonio domestico, non
riuscì a dissuaderlo. "Molto presto ci avanzerà tanto oro da lastricarne la
casa," ribatté suo marito. Per parecchi mesi si ostinò a dimostrare la veracità
delle sue congetture. Esplorò la regio ne a palmo a palmo, compreso il fondo del
fiume, trascinando i due lingotti di ferro e recitando ad alta voce l'esorcismo
di Melquíades. L'unica cosa che riuscì a dissotterrare fu una armatura del quindicesimo
secolo con tutte le sue parti saldate da una crostaccia di ruggine, la cui cavità
aveva la risonanza vacua di un'enorme zucca piena di sassi. Quando José Arcadio
Buendìa e i quattro uomini della sua spedizione riuscirono a disarticolare l'armatura,
vi trovarono dentro uno scheletro calcificato che portava appeso al collo un reliquiario
di rame con un ricciolo di donna.
A marzo tornarono gli zingari. Questa
volta traevano un cannocchiale e una lente grande come un tamburo, che esibirono
come l'ultima scoperta degli ebrei di Amsterdam. Misero a sedere una zingara a un'estremità
del villaggio e collocarono il cannocchiale sull'entrata della tenda. Per cinque
reales, la gente poteva chinarsi sul cannocchiale e vedere la zingara a portata
di mano. "La scienza ha eliminato le distanze," proclamava Melquìades.
"Tra poco, l'uomo potrà vedere quello che succede in qualsiasi luogo della
terra, senza muoversi da casa sua." In un mezzogiorno ardente fecero una mirabile
dimostrazione con la lente gigantesca: misero un mucchio di erba secca in mezzo
alla strada e le appiccarono il fuoco mediante la concentrazione dei raggi solari.
José Arcadia Buendìa, che ancora non era riuscito a consolarsi dell'insuccesso delle sue calamite, concepì l'idea di utilizzare quell'invenzione come arma di guerra. Melquìades, di nuovo, cercò di dissuaderlo. Ma finì per accettare i due lingotti calamitati e tre pezzi di denaro coloniale in cambio della lente. Ursula pianse di costernazione. Quel denaro faceva parte di un cofano di monete d'oro che suo padre aveva accumulato in tutta una vita di privazioni, e che lei aveva seppellito sotto il letto in attesa di una buona occasione per investirle.
José Arcadia Buendìa, che ancora non era riuscito a consolarsi dell'insuccesso delle sue calamite, concepì l'idea di utilizzare quell'invenzione come arma di guerra. Melquìades, di nuovo, cercò di dissuaderlo. Ma finì per accettare i due lingotti calamitati e tre pezzi di denaro coloniale in cambio della lente. Ursula pianse di costernazione. Quel denaro faceva parte di un cofano di monete d'oro che suo padre aveva accumulato in tutta una vita di privazioni, e che lei aveva seppellito sotto il letto in attesa di una buona occasione per investirle.
José Arcadio Buendìa non cercò nemmeno
di consolarla, completamente assorto nei suoi esperimenti tattici con l'abnegazione
di uno scienziato e perfino a rischio della propria vita. Mentre cercava di dimostrare
gli effetti della lente sulla truppa nemica, espose sé stesso alla concentrazione
dei raggi solari e patì scottature che si trasformarono in ulcere e guarirono solo
dopo parecchio tempo. Nonostante le proteste di sua moglie, messa in apprensione
da un'invenzione così pericolosa, poco mancò non incendiasse la casa.
Passava lunghe ore nella sua stanza, facendo
calcoli sulle possibilità strategiche di quella sua arma inusitata, finché riuscì
a comporre un manuale di una stupenda chiarezza didattica e di un irresistibile
potere di convinzione. Lo spedì alle autorità, allegandovi numerose testimonianze
sulle sue esperienze e vari fascicoli di disegni illustrativi, affidandolo a un
messaggero che attraversò la sierra, si perse tra pantani smisurati, risali fiumi
impetuosi e fu sul punto di perire sotto il flagello delle belve, del paludismo
e della disperazione, prima di riuscire a raggiungere una, strada di allacciamento
con le mule della posta. Nonostante il viaggio alla capitale fosse in quei tempi
poco meno che impossibile, José Arcadio Buendìa si riprometteva di intraprenderlo
non appena il governo glielo avesse ordinato, allo scopo di dare dimostrazioni pratiche
della sua invenzione alle autorità militari, e addestrarle personalmente nelle arti
complicate della guerra solare. Per molti anni attese una risposta.
Alla fine, stanco di aspettare, si lamentò
con Melquìades de l fallimento della sua iniziativa, e lo zingaro diede allora una
prova convincente di onestà: gli restituì i dobloni in cambio della lente, e gli
lasciò inoltre delle mappe portoghesi e diversi strumenti di navigazione. Scrisse
di suo pugno una succinta sintesi degli studi del monaco Hermann, che lasciò a sua
disposizione perché potesse servirsi dell'astrolabio, della bussola e del sestante.
José Arcadio Buendìa trascorse i lunghi mesi di pioggia chiu. so in uno stanzino
che aveva costruito in fondo alla casa perché nessuno turbasse i suoi esperimenti.
Tralasciò completamente i propri doveri domestici, rimase nel patio per notti intere
a sorvegliare il corso degli astri, e fu sul punto di contrarre un'insolazione mentre
cercava di stabilire un metodo esatto per trovare il mezzogiorno.
Quando fu esperto nell'uso e nel maneggio
dei suoi strumenti, ebbe una nozione dello spazio che gli permise di navigare per
mari incogniti, di visitare territori disabitati e di allacciare rapporti con esseri
splendidi, senza bisogno di lasciare il suo laboratorio. Fu in quel periodo che
prese l'abitudine di parlare da solo, vagando per la casa senza badare a nessuno,
mentre Ursula e i bambini si rompevano la schiena nell'orto per coltivare il banano
e la malanga, la manioca e l'igname, la ahuyama e la melanzana. Improvvisamente,
senza alcun preavviso, la sua febbrile attività si interruppe e fu sostituita da
una specie di allucinazione. Rimase come stregato per parecchi giorni, continuando
a ripetere a sé stesso a bassa voce una filza di sorprendenti congetture,incapace
egli stesso di dar credito al proprio raziocinio. Alla fine, un martedì di dicembre,
verso l'ora di pranzo, esplose in un colpo solo tutta la carica del suo tormento.
I bambini avrebbero ricordato per il resto della loro vita l'augusta solennità con
la quale il padre si sedette a capotavola, tremante di febbre, consunto dalla veglia
prolungata e dal fermento della sua immaginazione, e rivelò la sua scoperta: "La
terra è rotonda come un'arancia". [Gabriel Garcia Marquez,
Cent'anni di solitudine]
[1] Gabriel Garcia Marquez, http://www.treccani.it/enciclopedia/gabriel-garcia-marquez/
(ultimo accesso: 24/04/2014).
sabato 5 aprile 2014
La fabbrica degli abiti
Marina Comei, La fabbrica degli abiti. Cesare Contegiacomo
e la sua impresa 1905-1985, Roma-Bari, Laterza, 2012, 131 pp., ill., ISBN
978-88-420-9938-3.
Fare storia di impresa nel Mezzogiorno può sembrare ancora oggi,
nell'immaginario collettivo, un ossimoro o storia di folli cattedrali nel
deserto, quando invece bisognerebbe conoscere meglio il territorio meridionale,
ridotto troppo spesso a un unico grande blocco informe e connotato da marchi
come il clientelismo, il malaffare, la mancanza di un tessuto industriale, che
sono più il frutto di una comodità narrativa per il grande pubblico dei media e
della politica da talk-show.
Nell'Introduzione [pp. V-VIII]
al libro di Marina Comei, docente di storia economica presso l'Università di
Bari, è richiamata all'attenzione la "geografia dello sviluppo
economico", quale strumento per comprendere le specificità di una città o
di regioni che hanno storie di rilevante crescita economica oppure di
marginalità, affinché si possa capire quali siano i meccanismi di sviluppo e
crescita in un territorio.
La fabbrica degli abiti non è un manuale di geografia dello
sviluppo economico, bensì il risultato di una ricerca fatta negli archivi (da
quello di famiglia a quello dell'azienda Contegiacomo presso l'Archivio di
Stato di Bari, solo per citarne due tra i più importanti), che trova il suo
esito in questo libro e nel racconto della storia dell'azienda di Cesare
Contegiacomo, sorta a Putignano nel 1905. Una storia che parte proprio dalla
conoscenza del territorio e non da schemi polarizzati e definiti.
Cesare Contegiacomo crea un'azienda di confezioni in Puglia, territorio
vivace, volto al commercio e alla manifattura. Un'azienda, all'inizio a
conduzione familiare, che nella sua storia, lunga ben 80 anni (è, infatti, del
1985 la dichiarazione di fallimento), acquisisce un forte significato sociale
all'interno della comunità putignanese.
L'impresa vive momenti cruciali della storia italiana del XX secolo, come
le guerre mondiali, il colonialismo italiano e l'apertura di nuovi mercati, il
dopoguerra, il boom economico degli anni Sessanta e la crisi degli anni
Settanta, da cui l'azienda però non riesce più a risollevarsi.
È una storia d'impresa che non può non evidenziare gli effetti sociali
che un'attività produttiva ha sul territorio, soprattutto se si considerano
aspetti interessanti come gli alti livelli di occupazione in fabbrica in un
territorio in cui prevale l'industria a
domicilio nel settore tessile, o dell'indotto che si sviluppa.
Il libro fornisce, attraverso la narrazione di tutte le fasi della vita
dell'azienda di Cesare Contegiacomo, numerosi spunti di riflessione che possono
essere punto di partenza per ulteriori ricerche, considerata la mancanza di una
vera e propria "tradizione" di studi storici sull'impresa.
Il libro, corredato da una raffinata selezione di fotografie della storia
dell'impresa (e – a mio avviso – anche di un'Italia che fu), riporta delle
interessanti Appendici [pp. 94-128]
con l'Intervista a Cesare Contegiacomo [pp.
95-102], nipote del Cesare Contegiacomo fondatore dell'azienda, a cura di
Pietro Sisto, e la fotoriproduzione di alcuni Documenti [pp. 103-128] della storia della fabbrica degli abiti. A seguire una Bibliografia essenziale sull'argomento [pp. 129-132].
Piero Canale
La contea di Modica
Leonardo Sciascia
e Giuseppe Leone, La contea di Modica, Palermo, Edizioni di Passaggio, 2009, 152 pp.,
ISBN 978-88-903703-5-9.
Nel 1983 la casa editrice Electa pubblica un’opera che
narra del cuore della Sicilia, la contea di Modica del titolo appunto, per metà
facendola spiegare da Leonardo Sciascia, e per metà facendola fotografare da
Giuseppe Leone. Questo volume è la sua riedizione del 2009, in occasione del
ventennale della morte di Sciascia, con l’aggiunta di altre foto, una nuova
veste grafica e una nota di Vincenzo Consolo, altro grande intellettuale
siciliano amico di Sciascia.
L’opera che ne è risultata è un bel testo, perlopiù
illustrato, che mostra come di base l’essenza della contea è immutata (-bile) –
in una sfera quasi atemporale e astratta – nel trascorrere di più di mezzo
secolo, dagli anni Cinquanta del Novecento al Duemila. Gli scatti sono quasi
sempre in bianco e nero, alternano paesaggi, bambini in gioco, lavoratori nei
campi, ambulanti, processioni religiose di Modica, Ispica, Pozzallo, Ragusa,
Vittoria, Chiaramonte Gulfi. Non c’è una sequenza temporale o un raggruppamento
tematico, in un flusso di microstorie quotidiane raccontate discretamente,
senza giudicare, quasi in punta di piedi. Non vi sono didascalie: sotto ogni
foto solo un rigo con il paese ritratto e l’anno.
Sciascia nel suo breve saggio spiega come questa,
nella definizione siciliana, sia la cosiddetta ‘Sicilia babba’, notando la «curiosa contraddizione: di considerare
stupida, e particolarmente stupida, questa parte della Sicilia di cui
contemporaneamente si riconosce e si esalta la tranquillità del vivere, il
benessere, l’eccellenza dei prodotti. Evidentemente, una sorta di masochismo
presiede a un così contraddittorio giudizio» [p. 11].
Il volume si apre con lo scritto di Consolo La contea di Modica. Una nota [pp.
7-10], datato 2009; segue il saggio di Sciascia La contea di Modica [pp. 11-22] del 1983, e quindi le Tavole di Leone [pp. 23-138].
In chiusura sono tradotti in inglese i due testi di
Consolo [pp. 139-140] e Sciascia [pp. 141-149].
Si consiglia l’acquisto di questo libro non per il suo
valore esornativo, ma perché le fotografie, ancor più dei testi, raccontano
tante storie e forniscono spunti di riflessione.
Eloisia Tiziana Sparacino
Dono dell'editore |
Etichette:
2009,
aprile_2014,
Edizioni di passaggio,
Giuseppe_Leone,
Leonardo_Sciascia,
Palermo,
proposte_di_lettura,
storia_arte_cultura,
Tiziana_Sparacino
I Giorni della Parola
Salvatore Lo Bue, I Giorni della Parola. Il vangelo secondo
Giovanni e la Poetica, Milano, Franco Angeli, 2013, 127 pp., ISBN
978-88-204-5236-0.
L'ultima fatica di Salvatore Lo Bue, docente di Poetica della fu Facoltà di Lettere e Filosofia di
Palermo, si intitola I Giorni della
Parola. Il vangelo secondo Giovanni e la Poetica. Voglio precisare che non
si tratta in questo libro di questioni teologiche o di fede, ma di Poetica.
Poetica che Aristotele definisce scienza, rigorosa operazione creativa e che
indaga l'origine, il divenire e il manifestarsi dell'atto di poesia. Per Lo
Bue, infatti, la struttura della narrazione evangelica (in questo caso quella
del vangelo di Giovanni) ripropone i principi della poetica aristotelica.
Nel vangelo di Giovanni noi abbiamo la rappresentazione di un'azione
seria, complessa e compiuta in se stessa, che ha una certa estensione, con uno
stile opportuno in ogni sua parte e che racconta una storia che è principio e
anima dell'opera, la storia di Gesù di Nazareth.
I fondamenti dell'azione tragica canonizzati da Aristotele si riscontrano
nel nodo (δέσις), ossia «tutti questi casi che sono estranei all'azione
propriamente detta, e spesso anche taluni di quelli che fanno parte di essa
azione, costituiscono il nodo. In altre parole, chiamo nodo quella serie di
casi che vanno da ciò che si prende come principio della favola fino a quel
punto della tragedia da cui immediatamente si inizia la mutazione da uno stato
di infelicità a uno stato di felicità o viceversa»;[1]
e poi nello scioglimento del nodo (λύσις) che avviene attraverso
un'azione tragica complessa che comprende sia le peripezie sia il
riconoscimento.
Sembrerebbe una passeggiata il lavoro di Lo Bue, che si limita
semplicemente ad applicare le rigorose leggi della poetica aristotelica a uno
dei quattro vangeli. Tuttavia, il libro mostra un aspetto non secondario, che
si rivela invero il problema centrale della poetica del vangelo di Giovanni. E all'autore
va il merito di averlo esaminato in maniera attenta. Il "problema" si
chiama Prologo del vangelo di
Giovanni.
Che vuol dire? Sempre riferendoci all'Aristotele della Poetica, il
filosofo greco sostiene che la verità abbandona la ragione della poesia, è cade
ogni rapporto tra essenza e parola. L'unica scienza in grado di pensare
l'essere in quanto essere è la Metafisica. È tolto pertanto ogni orizzonte
celeste alla poesia. La poesia non è più dono del dio, ma soltanto una scienza,
un'operazione creativa.
Nel prologo del Vangelo di Giovanni è però scritto:
«In principio era il Logos, / e il Logos era presso Dio, / e il Logos era
Dio. / Il Logos era, in principio, presso Dio. / Tutte le cose, per lui, sono
venute alla luce / e niente, di tutto ciò che esiste, senza di lui / è venuto
alla luce. / La Vita era in lui, / e la Vita era la luce degli uomini: / e la
luce illuminò le tenebre, / e le tenebre la rifiutarono. / [...] E il Logos si
fece carne / e venne e abitò tra di noi. / Di lui abbiamo visto la gloria, / la
gloria di colui che è l'Unigenito, / pieno di grazia e di verità».[2]
È evidente che il Prologo non
lascia spazio ad altre interpretazioni: Gesù è la Parola, l'Opera che racconta
Dio, che racconta se stessa.
Non può essere la poesia analizzata da Aristotele, lontana dall'essere e
dalla verità.
Qual è dunque la libertà del poeta? La libertà dell'autore Giovanni sta
nell'essere autore di una cornice che racchiude il quadro che è già fatto, perché
è lo stesso Logos a essere racconto e
voce narrante.
Lo Bue introduce, quindi, Platone e i dialoghi di Socrate, per realizzare
quel paragone che è utile a farci comprendere il superamento della poetica
aristotelica, e nello stesso tempo la poetica platonica. Socrate è protagonista
delle opere di Platone, Gesù non è protagonista, bensì Opera e creatore.
A complicare ulteriormente la trama del libro è la teoria del «terzo
schema». Infatti, per Lo Bue, la poetica evangelica è il superamento della
tradizione poetica omerica dove la poesia è poesia dei moti del cuore, poesia
del presente, poesia fatta di gesti, di movimenti e di azioni. L'autore riporta
come esempio l'episodio del canto XIX dell'Odissea in cui Euriclea riconosce
l'eroe. È superamento anche della poesia biblica del Vecchio Testamento, una
poesia definita del silenzio, dell'indeterminato, del non detto, «degli spazi
interminati, dei sovrumani silenzi» [p. 16], dice Lo Bue. E riporta come esempio
il sacrificio di Isacco. E questa è la narrazione biblica che canta soltanto la
gloria di Dio unico e solo, e che non tiene conto della vita umana.
Superamento significa anche sintesi e questa sintesi poetica dei due
modelli, quello omerico e quello biblico, rappresenta il modello della
scrittura giovannea.
Un modello che influisce in maniera potente nella narrazione occidentale
e nella poetica occidentale.
Il professore Lo Bue individua cinque elementi che caratterizzano la
poetica del vangelo di Giovanni.
1) La scena
che muove sempre da luoghi geograficamente precisi e da scene ben
costruite: descrizioni minuziose, movimenti dei personaggi, variazioni
psicologiche. Le scene del vangelo sono definite pittura, quasi una forma di
realismo che è di matrice omerica;
2) L'incontro
tutto accade nell'incontro, nell'incontro con la Verità. Il vangelo di
Giovanni è storia dell'incontro con Gesù che si rivela e si dice e si manifesta
e agisce per la salvezza di tutti i viventi (l'incontro con Giovanni Battista,
l'incontro con la Samaritana, l'incontro con l'emorroissa, l'incontro con
Marta, e con l'adultera);
3) Il dialogo e la rivelazione di sé
negli incontri e nei dialoghi emerge l'elemento di identità tra
personaggio e pensiero in cui Gesù è il Logos,
Dio è Persona e non forma ed è proprio la rivelazione a muovere gli incontri;
4) L'azione
questo è uno degli elementi che supera veramente gli altri modelli. In
questo Giovanni si fa costruttore di scene e non di verità, la verità non ha
bisogno di essere costruita, perché la verità è essa stessa e va messa in
scena;
5) I personaggi
i personaggi del vangelo sono nuovi e sono determinanti per la
letteratura occidentale. Essi sono complessi, ma nello stesso tempo occupano
spazi di pochissime battute in dialoghi serratissimi e diventano figure
universali. Non ci sono 100 pagine a descrivere la Samaritana, come ad esempio
fa Manzoni con la monaca di Monza. Solo pochi versi, che tuttavia sono scolpiti
e hanno insieme la concretezza psicologica degli eroi omerici e l'astratta
lontananza dei personaggi veterotestamentarii e che superano Odisseo e Abramo,
perché parlano e agiscono animanti da quella energia scaturita dall'incontro.
Questa è una grande costruzione poetica.
Questa è per grandi, grandissime linee l'analisi della poetica giovannea
che fa Lo Bue, tuttavia non sarebbe un libro di Lo Bue, se esso rimanesse
chiuso in questa disamina scientifica, di termini canonizzati.
Infatti, a un certo punto inizia la narrazione, perché la poetica - e Lo
Bue ce lo ha dimostrato nei precedenti libri - si comprende nei versi non nei
termini scientifici, nella lettura del testo.
Il libro quindi racconta gli ultimi tre anni di vita di Gesù, il 28, il
29 e il 30 (è bene ricordare che il vangelo di Giovanni, rispetto ai sinottici,
non narra l'annunciazione, la natività di Gesù). Il vangelo di Giovanni, dopo
il Prologo, narra l'incontro tra
Giovanni Battista e Gesù al fiume Giordano. Gesù è già adulto.
La narrazione è quindi scandita dalle stagioni e dagli incontri. Non
entro nel merito della narrazione, poiché non voglio dilungarmi e voglio
lasciare ai lettori il piacere di leggere le pagine di questo libro
meraviglioso.
Voglio tuttavia soffermarmi su un episodio che ritengo importante
nell'economia del vangelo di Giovanni e quindi anche nel libro di Lo Bue.
La morte di Lazzaro, o meglio la resurrezione di Lazzaro, che è un
episodio noto del vangelo. Gesù ritarda il suo incontro con Lazzaro, che è
malato e nel frattempo muore. Gesù allora si dirige verso il villaggio e
resuscita Lazzaro.
Prima del miracolo avviene - attraverso queste parole: «Io sono la
resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà e chiunque vive
e crede in me, non morirà mai. Tu lo credi?»; e la risposta di Marta: «Sì,
Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che doveva venire al
mondo» - una prima fase del riconoscimento (l'Άναγνώρισις della poetica
aristotelica), ossia il passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza: «riconoscimento
è salda visione del destino, evidenza dell'inganno, occhio aperto sull'abisso
dei mali, stasi prima della caduta, sapienza finale della propria condizione
tragica e umana. E quando accade il riconoscimento, la catastrofe è puro,
semplice scioglimento, l'abbandono consapevole alle forze avverse che hanno
determinato il mutamento e ora consegnano alla fine».[3] Ciò
appare una conferma di quel «terzo schema» chiamato in causa prima. Il Logos stesso opera il suo riconoscimento
ed è quindi nello stesso tempo rivelazione di sé.
È necessario sforzarsi di immaginare il lettore o colui che ascoltava il
messaggio, la storia di Gesù ai tempi dell'evangelizzazione, quale colpo di
teatro riceveva. L'evangelizzazione è un fenomeno storico e la poetica
giovannea è certamente uno strumento forte e invincibile in dotazione agli evangelizzatori.
Pensate ai popoli pagani, cui veniva raccontato il Logos e l'identità della Persona, quale storia appassionante doveva
essere il racconto del vangelo. Chi ascoltava o leggeva per la prima volta, si
trovava di fronte alla perfetta narrazione della Verità. Aveva iniziato a
sospettare che Gesù fosse il Figlio di Dio, il Messia, tuttavia sono ancora
solo segni, ipotesi, fino a quando non avviene il Riconoscimento.
Per chi sa come va a finire la storia è diverso. Non abbiamo il colpo di
scena per vari motivi. Chi non conosce la storia, riceve invece un sussulto
forte. Non è un caso, che dopo l'episodio della resurrezione di Lazzaro, inizi
la Passione, che è il momento della catastrofe (πάθος). Vi saranno l'arresto,
le percosse, l'incoronazione e la crocifissione. Le sofferenze prima del
riconoscimento definitivo del Logos
che in questo caso non dà luogo alla catarsi come vuole l'impianto aristotelico
della tragedia, ma alla Salvezza attraverso l'annuncio del regno di Dio che si
rende visibile nel sacrificio e nella resurrezione del Figlio.
A questo punto io mi fermo, perché c'è un limite, detto dell'ineffabile,
dell'indicibile che soltanto il poeta può tentare di esplorare, rimanendo in equilibrio
sul confine che è quello della Parola e del Sacro, per questo voglio chiudere invitandovi
alla lettura de I Giorni della Parola.
Piero Canale
Gesù lava sempre più bianco
Bruno Ballardini, Gesù lava sempre più bianco, Roma,
Minimum Fax, 2014, 200 pp., ISBN 88-7521-114-0.
Parlare della storia della Chiesa utilizzando categorie e strumenti del
marketing. È il percorso che intraprende questo libro originale, interessante e
ricchissimo. Gesù lava sempre più bianco
– ovvero: come la Chiesa inventò il marketing di Bruno Ballardini,
pubblicitario e teorico della comunicazione. Il libro, pubblicato per la prima
volta nel 2000, esce ora nella sua quarta edizione riveduta e aggiornata, con
un nuovo capitolo su papa Francesco.
Dunque, il marketing. Questa disciplina che cerca continuamente di
ostentare il suo rigore metodologico e la sua correttezza deontologica forse
«per via dell'assoluto vuoto di etica che sottintende» [p. 14]. Il marketing
che in questa società ormai radicalmente consumistica, risulta «la religione
per eccellenza» [p. 12].
Ma c'è pure la Chiesa. Il marketing e la Chiesa. Il marketing della
Chiesa. Questo libro spazia in lungo e in largo per la storia della Chiesa, rileggendo
la nascita, l'avanzare e l'affermarsi del cristianesimo secondo il punto di
vista del marketing. O meglio: parla della storia dell'affermazione del
cristianesimo come se fosse la più grande operazione di marketing della storia.
Gli spunti sono tantissimi, e le provocazioni di più. Ballardini ha una
cultura notevole e riesce a parlare – con cognizione di causa – di storia,
religione, filosofia, estetica, musica. Racconta aneddoti divertenti, si mette
a fare il giornalista, accosta notizie e fa collegamenti, disquisisce sul
cattivo gusto della Cupola di San Pietro e sulle evidenti illogicità di certi
sillogismi che «dimostrano l'esistenza di Dio». E poi parla di marketing, con
un certo compiacimento nel parlare di grosse questioni storico-culturali con il
lessico tecnocratico ed esterofilo del marketing.
Il libro, oltre alla sua valenza conoscitiva, combatte almeno due precise
battaglie intellettuali:
1) Contro l'Istituzione Chiesa e contro
il Cristianesimo nella sua interezza. L'ostilità è palese, sia a livello
politico sia a livello teorico-filosofico;
2) Contro i cosiddetti “guru del
marketing”, o più in generale contro gli studiosi di marketing che non tengono
in considerazione la storia. Ballardini sembra voler continuamente irridere e
smontare chi afferma che il marketing ha inventato questo e quello. Il
marketing, dice l'autore, si è limitato a riprendere (e definire, e ridefinire)
dinamiche e strategie già abbondantemente utilizzate durante la storia da
tantissime entità di diversa natura a partire, appunto, dalla Chiesa.
Tra le tante cose interessanti del libro c'è l'insistere sulla figura
strategica di Paolo di Tarso. Ovvero: il primo e più importante Marketing Manager della Chiesa, che ha
dettato le regole principali per la diffusione della Marca (il cristianesimo)
in tutto il mondo:
«Paolo Di Tarso preparò il terreno alle grandi campagne pubblicitarie
successive con un'azione mirata di direct marketing (…) rivolgendosi agli
opinion makers, ovvero a coloro che sono in grado di condizionare l'opinione di
un grande numero di persone. Un lavoro del genere permise di stabilizzare
l'immagine della Marca e preparò proficuamente il terreno allo stadio finale
dell'advertising. Paolo dunque indirizzò i suoi mailing a sette forti gruppi di
opinione (i Tessalonicesi, i Corinzi, i Galati, i Romani, i Filippesi, gli
Efesini, i Colossesi) e a tre leader che avrebbero a loro volta svolto
un'azione catalizzatrice verso la Marca (Filemone, Timoteo e Tito). Entusiasta
del direct marketing fino a diventarne un fanatico utilizzatore, Paolo fu a
tutti gli effetti il primo guru della pubblicità postale (…) Ma Paolo
introdusse per primo anche la pubblicità postale nella sua forma più diretta.
Non gli mancarono occasioni per stabilire il primato del cristianesimo come Marca,
declassando l'ebraismo a una sorta di sottomarca che ha fallito quasi
ingannando i consumatori» [p. 99].
Una strategia vincente che sfocerà nell'egemonia culturale e politica del
cristianesimo, che si innesta addirittura nell'Impero romano «quando papa Leone
I (440-461) arrivò a dichiarare ufficialmente che Pietro e Paolo avevano
sostituito Romolo e Remo come patroni di Roma. La Madonna e i Santi avevano nel
frattempo rimpiazzato altre divinità pagane già patrone di altre città. Di
fatto, la Roma cristiana fu il legittimo successore della Roma pagana» [p.
101]. E questa, detta con il linguaggio del marketing, «è la più grande
operazione di positioning
(posizionamento ndr) che la storia ricordi» [p.101].
Poi i concili: «Per quanto riguarda il controllo della qualità, la Chiesa
istituì a partire dalla prima convention di Nicea (325) l'usanza di riunire
periodicamente tutto il management per fare il punto della situazione e
rivedere le linee guida a cui si sarebbe ispirata da lì a seguire. La storia
dei concili, per quanto contraddittoria, porta con sé la traccia di
un'inesauribile ricerca dell'eccellenza che ha preceduto di molti secoli
l'invenzione della qualità totale» [p. 41].
E poi? Il giubileo è l'apice del reparto Organizzazione Eventi della
Chiesa. È la più grande Festa della Marca che la storia ricordi, la Chiesa è il
punto vendita, la messa, l'happening periodico che fidelizza i clienti. Icone,
santini, rosari sono la gadgetteria.
Poi c'è la propaganda, la comunicazione e, infine, una riflessione sulla
“merce” del cristianesimo. Qual è la merce? Forse la merce è la Marca stessa,
Il Cristianesimo, nel suo vortice di significati. E che prezzo ha questa merce?
È gratis. E l'autore sembra chiedersi continuamente: e come si fa a resistere
ad una merce quando è la merce è gratis?
Nino Fricano
Gocce di Sicilia
Andrea Camilleri, Gocce di Sicilia, Milano, Mondadori, 2009, 91 pp. (Piccola
Biblioteca Oscar Mondadori, 641), ISBN 978-88-04-59078-1.
Questo
volume raccoglie alcuni scritti originali di Andrea Camilleri comparsi, tra il
1995 e il 2000, sull’Almanacco dell’Atlanta.
Nello specifico si tratta di 7 racconti dalla grandissima forza espressiva, che
hanno reso Camilleri uno degli scrittori più apprezzati nel panorama letterario
italiano: Zù Cola, «pirsona pulita»
[pp. 7-21], Chi è che trasì nello studio?
[pp. 23-34], Piace il vino a San Calò
[pp. 35-44], Il primo voto [pp.
45-59], Ipotesi sulla scomparsa di
Antonio Patò [pp. 61-80], Il cappello
e la coppola [pp. 81-84], Vicenda d’un
lunario [pp. 85-92].
Tra
questi, particolarmente interessante risulta Chi è che trasì nello studio?, in cui Camilleri rievoca, in una
Sicilia assolata di metà novecento, la figura di «uno zio magico, “u
zz’Arfredu”» [p. 25], medico, come ci dice l’autore, e considerato da tutti
quasi un santo. Oltre ad essere stimato santo, lo zio aveva anche la capacità
di creare santi: per citarne alcuni, san Callìpedo, san Culario, ma soprattutto
san Filàno. Il culto, rigorosamente vietato agli uomini, se non a zio Alfredo,
che ne era il Gran Sacerdote, «veniva praticato da ragazze da marito che ancora
non avevano lo zito, il fidanzato» [p. 26].
Questo
«omone» [p. 25], come ce lo descrive Camilleri, era anche una persona dal gran
cuore, tanto che, una volta, «fece costruire a sue spese una vera colonia dove,
a sue spese, gli orfanelli potevano soggiornare per un mese» [pp. 28-29]. Nella
sua casa della “marina”, assediata in estate da masnade di nipoti, c’era un
luogo che attraeva particolarmente il giovane Camilleri: lo studio. Era uno
«stanzone stracolmo fino al soffitto di libri e riviste» [p. 31], nel quale il
bambino decise di entrare di nascosto, ma acquistando, da quel momento, la
stima dello zio. Nei cinque anni successivi egli trascorse molte ore a leggere
e rileggere celebri volumi di autori illustri, come «Conrad, Melville,
Maupassant, Flaubert, Dumas, Verga, Capuana, Pirandello» [p. 32]. Toccante la
conclusione del racconto, in cui lo zio morente assicura al ragazzino che,
anche dopo la sua dipartita, avrebbe potuto continuare ad andare nello studio a
leggere tutte le volte che avesse voluto.
Molto
divertente, ma al tempo stesso pungente, il metaforico racconto Il cappello e la coppola, in cui si
narra l’incontro tra un cappello (simbolo della classe dirigente) e una coppola
(simbolo della criminalità organizzata).
Ipotesi sulla scomparsa di Antonio Patò è il
racconto che, successivamente ampliato e completato con integrazioni ed
aggiunte, diede luogo al fortunato romanzo La
scomparsa di Patò (2000).
In ogni
testo risplendono quell’abilità letteraria, quel linguaggio originale e
caratteristico, contemporaneamente ricercato e popolaresco, che lo hanno reso
uno degli autori siciliani più apprezzati di sempre.
Vincenzo
Bagnera
Luigi Sturzo-Antonio Gramsci. Il Mezzogiorno e l’Italia
Giampaolo D’Andrea
e Francesco Giasi (a cura di), Luigi Sturzo-Antonio Gramsci. Il Mezzogiorno
e l’Italia, Roma, Edizioni Studium, 2012, 196 pp., (UNIVERSALE Studium 13. Nuova serie. Storia / 2), ISBN
978-88-382-4215-1.
Il Mezzogiorno è sempre stato il grande tema
dell’Italia. Se ne sono occupati in tanti, sin dai tempi remoti, come attestano
del resto le numerose analisi formulate da storici, intellettuali, giornalisti,
politici. Già Antonio Serra, l’economista italiano più originale del Seicento,
dedica gran parte dei suoi studi alle condizioni socio-economiche del
Mezzogiorno, accusando apertamente i meridionali di scarsa iniziativa
imprenditoriale e rivolgendo poi grande attenzione alla carenza di strutture
manifatturiere. Quest’ultimo è per Serra un vero problema proprio perché,
secondo l’economista cosentino, l’industria è molto più redditizia
dell’agricoltura e la buona disponibilità di oro e argento deriva dalla
prosperità dell’economia e non il contrario.
Non è un caso che nel recensire questo volumetto –
pubblicato dalle Edizioni Studium in collaborazione con la Fondazione con il Sud e la Fondazione
Istituto Gramsci – mi venga in mente Serra. L’economista, infatti, non
lesina critiche nei confronti degli stessi meridionali, unici responsabili, a
suo dire, dell’arretratezza del Mezzogiorno: la totale assenza di spirito
imprenditoriale, l’incapacità di mettersi in gioco e di rischiare per investire
sono stati a lungo il leitmotiv
principale delle accuse rivolte agli italiani del Sud, rei con questo atteggiamento
di aver determinato le condizioni di inferiorità in cui versano da secoli. È
con Sturzo e Gramsci – e quindi rispettivamente col Partito Popolare e con il
Partito Comunista Italiano – che questa prospettiva viene rovesciata con forza,
dando inizio a un’analisi meno riduttiva e semplicistica della questione
meridionale. Se per certi versi le due riflessioni sembrano coincidere in
alcuni punti, per altri esse divergono nettamente, specialmente se si guarda
all’approccio ideologico con cui i due grandi protagonisti della storia
italiana della prima metà del Novecento, affrontano il tema del Meridione.
Proprio questo è il nodo centrale del libro: Sturzo
e Gramsci vengono messi a confronto attraverso la riproposizione di due
documenti molto importanti: Il
Mezzogiorno e la politica italiana di Sturzo e le Note sul problema meridionale di Gramsci.
Sturzo rivendica, prima di ogni cosa, il merito dei
popolari di aver impostato la questione meridionale come problema unitario e
nazionale. Nondimeno Gramsci insisterà costantemente nella necessità di una
unione tra operai del Nord e contadini del Sud, finalizzata all’abbattimento
del potere borghese.
Ciò che accomuna entrambi è sicuramente la profonda
avversione nei confronti del “centralismo burocratico” dello Stato unitario e l’inclinazione
verso uno Stato delle autonomie che in Sturzo si tradurrà poi nel regionalismo,
mentre per Gramsci rimarrà indeterminato [p. 11].
Da subito emerge, dunque, che se nell’analisi del
problema tra i due sembra esserci una sostanziale convergenza è poi sulle
soluzioni politiche che Sturzo e Gramsci finiscono inevitabilmente per
dividersi.
Il meridionalismo di Sturzo è, innanzitutto,
qualcosa che accompagna la sua stessa vita e la sua esperienza politica e
spirituale con l’isola più a Sud del Paese: il suo approccio al problema del
Mezzogiorno matura, infatti, a contatto con i problemi della Sicilia [p.33].
Sturzo non tralascia di ricordare come l’agricoltura svolga un ruolo essenziale
nell’isola. La Sicilia, che egli immagina autonoma dal punto di vista
amministrativo, avrebbe dovuto trarre capitali dall’iniziativa privata, mentre
agricoltura e industria avrebbero dovuto essere strettamente connesse [p. 34].
In quest’ottica, fondamentali diventano, pertanto, il
decentramento e il regionalismo. La forzata unificazione nazionale, infatti, crea
i presupposti per il mancato sviluppo del Mezzogiorno non solo dal punto di
vista economico e politico, ma perfino sul piano culturale e sociale. Le idee
che Sturzo si forma sul decentramento e sulla necessità di realizzare un vero e
proprio regionalismo nel Paese, sono influenzate dal pensiero di De Viti De
Marco, di Gioacchino Ventura e persino di Nitti [p. 38].
Sturzo auspica, inoltre – come poi fa anche Gramsci
con la classe operaia settentrionale – il coinvolgimento del movimento
cattolico del Nord nella soluzione della questione meridionale. Presto però si
accorge dell’assoluta indisponibilità, da parte dei settentrionali, a
realizzare tale collaborazione a causa del «cumulo di prevenzioni e diffidenza
verso il Meridione» [p. 39].
Questa impostazione diventa comunque centrale nei
programmi del nuovo Partito Popolare, assieme alla convinzione che i problemi
del Mezzogiorno sono prima di tutto problemi nazionali.
Per far sì che il Meridione diventi davvero un
ponte naturale di collegamento tra l’Africa del Nord e l’Albania, la Spagna e l’Asia
minore, è necessario, secondo Sturzo, superare prima di tutto il sistema
doganale e il regime protezionista che fino a quel momento hanno favorito le
industrie del Nord a discapito del Mezzogiorno; successivamente risolvere il
tema dell’uniformità legislativa in spregio alle tradizioni
giuridico-amministrative dell’isola e, infine, attuare la riforma del sistema
tributario che di fatto, così com’era strutturato, non faceva che accentuare lo
squilibrio tra Nord e Sud [p. 45].
Il Mezzogiorno necessita poi di una Riforma Agraria
e naturalmente di nuovi indirizzi di politica internazionale, in base ai quali
si possa unire l’Italia alla Jugoslavia, all’Austria, alla Cecoslovacchia e
all’Ungheria, per realizzare un regime di liberi scambi.
L’avvento del fascismo, di fatto, blocca il
progetto sturziano. La ragione va ricercata nel fatto che le classi sociali
alle quali il prete calatino si rivolge per realizzare il suo programma, ossia
la piccola e media borghesia rurale del Mezzogiorno, finiscono per aderire
apertamente a Mussolini nel quale vedono l’uomo capace di riportare ordine nel
Paese, mettendo a tacere le rivendicazioni operaie e contadine.
Per Sturzo, dunque, Mezzogiorno e Stato non sono
due categorie separate ed è proprio questo dualismo che va superato, perché i
meridionali sono parte integrante dell’Italia.
Eppure, anche Sturzo crede che i meridionali abbiano
le loro responsabilità, riscontrabili non soltanto nell’atteggiamento volto a
chiedere di continuo aiuti e interventi allo Stato, ma anche nelle politiche di
quanti non sono riusciti nemmeno a capire i veri problemi del Mezzogiorno e, di
conseguenza, si mostrano impreparati nel proporre soluzioni efficaci. Né
bastano a Sturzo le classiche giustificazioni: la permanenza delle strutture
feudali, ben oltre la data ufficiale del loro smantellamento, o la mancanza di
una borghesia imprenditoriale audace, come sostiene ad esempio Serra. Secondo il
politico popolare è infatti da superare quello «stato psicologico che ci mette
in condizioni di inferiorità» [p. 74] affinché gli stessi meridionali possano
creare un programma politico della questione meridionale e farlo poi diventare
pensiero generale di tutti gli italiani. In un’ottica rovesciata, dunque,
almeno per una volta, non bisogna aspettare la soluzione dall’esterno, ma farsi
promotori attivi di una strada non solo da percorrere in prima persona, ma da
far intraprendere all’intero Paese, nella certezza che i problemi del Sud si
ripercuotono a catena anche nel resto del Paese: «La redenzione comincia da
noi» [p. 74] afferma con veemenza il prete calatino.
Un tema caldo sollevato da Sturzo e, a mio avviso,
di grande attualità politica, è poi il ruolo esercitato dall’alta banca e dalla
finanza nel determinarsi delle condizioni economiche del Paese. Secondo Sturzo, infatti, l’alta banca – che
non è mai esistita nel Mezzogiorno – ha sempre mantenuto un dominio molto forte
delle principali scelte economiche e industriali del Paese. Le industrie di
natura domestica e artigiana, per fare un solo esempio, non sono appetibili per
la finanza perché «ven[gono] meno col cadere delle linee doganali interne e non
po[ssono] tentare la loro trasformazione industriale, perché lontane dal
mercato generale» [p. 92]. Ciò ha finito, inevitabilmente, per determinare nel
Mezzogiorno la prevalenza del settore agricolo e, ciò che è peggio, è che non
si tratta di un’agricoltura soltanto povera e arretrata ma anche vessata dai
latifondisti, dai gabelloti, dalla mafia, dall’abigeato e dalla malaria.
D’altra parte, qualcuno potrebbe obiettare che se
lo Stato non interviene con la costruzione di infrastrutture, nessun
industriale sarà mai interessato a investire in queste zone del Paese. Questa
impostazione, pur partendo da presupposti giusti, non è affatto condivisa da
Sturzo, poiché da essa sembra evincersi quel solito atteggiamento, proprio di
chi vuole che i problemi del Meridione restino di esclusivo interesse e a
totale carico dei meridionali. Dovrebbe invece diventare un problema di tutto
il Paese farsi carico e risolvere le contraddizioni del Mezzogiorno, poiché se
una parte del Paese è malata, allora tutti complessivamente ne risentono.
Indubbiamente il meridione presenta delle povertà
naturali, un clima difficile e una organizzazione sociale e politica piuttosto
mediocre. Eppure ci sono state epoche in cui questa parte della penisola è
stata florida. Le ragioni, secondo Sturzo, sono da ricercare nel fatto che, in
quei periodi di splendore, esisteva una politica mediterranea intesa come «fatti
e fenomeni politici sotto l’influsso delle economie prevalenti» [p. 102].
L’unica via per poter salvare il Mezzogiorno dal
degrado è, in conclusione, quella di riuscire a dar vita a una politica
nazionale orientata al bacino del Mediterraneo e capace di creare a Sud del
Paese «un hinterland che va dall’Africa del nord all’Albania, dalla Spagna
all’Asia Minore» aprendo traffici, circolazione di scambi etc. [p. 104]. In
questo modo «il mezzogiorno può certo trasformarsi da un regime economico
passivo ad un regime attivo, a patto che si superino le barriere poste dal
regime doganale, dalla pressione tributaria e dalla legislazione uniforme e
livellatrice» [p. 116].
Guardando invece al Partito Comunista Italiano e all’elaborazione
gramsciana della questione meridionale, già nel 1923 era chiaro a tutti i
comunisti che tra «le forze motrici della rivoluzione italiana vi erano anche i
contadini del Mezzogiorno e delle Isole» [p. 141].
È a Gramsci, comunque, che si deve l’analisi più
lucida della questione meridionale e l’aver messo al centro della politica dei comunisti
italiani il tema del Mezzogiorno. Riportare al centro dei programmi e delle
proposte del PCI il movimento contadino al Sud della Penisola, ha come effetto
immediato, tra l’altro, la piena adesione di Giuseppe Di Vittorio al PCI e la
collaborazione di Guido Miglioli (leader del movimento contadino cattolico) con
i dirigenti comunisti.
Per Gramsci – la cui riflessione trae spunto dalle
critiche che un gruppo di giovani muove, su «Quarto Stato», al PCI e alla sua
proposta politica circa la soluzione dei problemi del Mezzogiorno – è chiaro
che la borghesia settentrionale è la causa dell’arretramento del Sud e delle
isole, sottoposte a un regime di vero e proprio sfruttamento coloniale. È ovvio
che la soluzione può venir fuori soltanto da un’alleanza politica tra gli
operai del Nord e i contadini del Sud per rovesciare la borghesia dal potere di
Stato. In tal senso, la «spartizione meccanica» dei latifondi – che diventerà
il tema capitale delle lotte contadine negli anni immediatamente successivi al
secondo dopoguerra – viene vista criticamente da Gramsci che la considera – da
sola – una soluzione effimera. Del resto cosa avrebbe potuto mai fare un
contadino, dopo aver occupato una terra incolta o mal coltivata? Senza risorse
o macchinari ben poco, eccetto che finire nelle mani di qualche usuraio.
In verità Gramsci inquadra il tema della terra e
dei contadini in una cornice ben più ampia: quella cioè della rivoluzione di
cui devono farsi promotrici le due classi alleate dei contadini e degli operai,
sotto la guida del proletariato industriale [p. 164].
Ma – e qui sta l’intuizione di Gramsci – per far
ciò è necessaria innanzitutto una rivoluzione culturale. Il proletariato,
infatti, è impregnato della tradizione borghese che si respira dappertutto e –
qui coincidendo con l’analisi sturziana – ormai è divenuto luogo comune ben
diffuso che il Mezzogiorno sia la palla al piede della penisola e che i
meridionali, inferiori per natura, blocchino con il loro lassismo lo sviluppo
del Paese.
Secondo la tradizione borghese, diffusasi ormai
ampiamente anche presso le classi proletarie, se il Mezzogiorno è arretrato, la
colpa non è, dunque, del capitalismo o della stessa borghesia ma dei
meridionali che sono per natura «barbari», «incapaci» e «criminali» [p. 166].
Gramsci aggiunge, poi, che il Mezzogiorno presenta
una grande disgregazione sociale in cui sono presenti tre strati sociali: «la massa
contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media
borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali» [p.
182]. Il contadino meridionale è legato al grande proprietario terriero
mediante proprio la figura dell’intellettuale. Questa – sebbene Gramsci
riconosca che quando si parla di Mezzogiorno non si possa fare un’analisi
complessiva e indistinta poiché il Mezzogiorno continentale è profondamente
diverso rispetto a quello delle isole – sarebbe però una caratteristica comune
all’intero meridione. In sostanza il riferimento è al cosiddetto “blocco
agrario” che fa da intermediario e sorvegliante al capitalismo settentrionale e
alle grandi banche. Questo ha il compito preciso di mantenere lo statu quo. E
chi sono i responsabili di tale immobilismo se non gli intellettuali
meridionali che, a detta di Gramsci, hanno avuto il compito di arginare
eventuali frane del blocco agrario? Tra questi intellettuali vengono annoverati
persino Croce e Fortunato. Il loro settarismo vieta ai meridionali (o
intellettuali medi) che cercano di uscire dal blocco agrario, di potersi
esprimere sulle riviste principali.
Gramsci, d’altra parte, non nega l’influenza che
Croce e Fortunato ebbero su l’Ordine Nuovo e sui comunisti Torinesi, pur
rivendicando, però, la rottura completa con quella impostazione a cominciare
dal nuovo ruolo che il proletariato deve assumere in qualità di «protagonista
moderno della storia italiana e quindi della quistione meridionale» [p. 192].
È ovvio, dunque, che per spezzare il blocco agrario
è necessario che il proletariato riesca a disgregare quel blocco intellettuale
che ne resta «l’armatura flessibile ma resistentissima» [p. 196].
È attraverso questa disgregazione che è possibile
unire il proletariato e i contadini in un’ottica nazionale della soluzione
della questione meridionale.
Il testo che parte da una intuizione brillante – il
confronto tra due grandi politici e pensatori degli inizi del Novecento, a
partire soprattutto dalle loro diverse ideologie – è un valido strumento di
consultazione per gli studiosi del Mezzogiorno. I testi di Sturzo e Gramsci
sono preceduti da due introduzioni – rispettivamente di Giampaolo D’Andrea [pp.
57-75] e di Francesco Giasi [pp. 139-159] e dalle riflessioni di Giuseppe Vacca
[pp. 9-32] e Francesco Malgeri [pp. 33-53].
Alessandra Mangano
Etichette:
2012,
Alessandra_Mangano,
aprile_2014,
Edizioni_Studium,
Francesco_Giasi,
Giampaolo_D_Andrea,
politica&attualità,
proposte_di_lettura,
Roma,
storia_arte_cultura
Iscriviti a:
Post (Atom)