Giampaolo D’Andrea
e Francesco Giasi (a cura di), Luigi Sturzo-Antonio Gramsci. Il Mezzogiorno
e l’Italia, Roma, Edizioni Studium, 2012, 196 pp., (UNIVERSALE Studium 13. Nuova serie. Storia / 2), ISBN
978-88-382-4215-1.
Il Mezzogiorno è sempre stato il grande tema
dell’Italia. Se ne sono occupati in tanti, sin dai tempi remoti, come attestano
del resto le numerose analisi formulate da storici, intellettuali, giornalisti,
politici. Già Antonio Serra, l’economista italiano più originale del Seicento,
dedica gran parte dei suoi studi alle condizioni socio-economiche del
Mezzogiorno, accusando apertamente i meridionali di scarsa iniziativa
imprenditoriale e rivolgendo poi grande attenzione alla carenza di strutture
manifatturiere. Quest’ultimo è per Serra un vero problema proprio perché,
secondo l’economista cosentino, l’industria è molto più redditizia
dell’agricoltura e la buona disponibilità di oro e argento deriva dalla
prosperità dell’economia e non il contrario.
Non è un caso che nel recensire questo volumetto –
pubblicato dalle Edizioni Studium in collaborazione con la Fondazione con il Sud e la Fondazione
Istituto Gramsci – mi venga in mente Serra. L’economista, infatti, non
lesina critiche nei confronti degli stessi meridionali, unici responsabili, a
suo dire, dell’arretratezza del Mezzogiorno: la totale assenza di spirito
imprenditoriale, l’incapacità di mettersi in gioco e di rischiare per investire
sono stati a lungo il leitmotiv
principale delle accuse rivolte agli italiani del Sud, rei con questo atteggiamento
di aver determinato le condizioni di inferiorità in cui versano da secoli. È
con Sturzo e Gramsci – e quindi rispettivamente col Partito Popolare e con il
Partito Comunista Italiano – che questa prospettiva viene rovesciata con forza,
dando inizio a un’analisi meno riduttiva e semplicistica della questione
meridionale. Se per certi versi le due riflessioni sembrano coincidere in
alcuni punti, per altri esse divergono nettamente, specialmente se si guarda
all’approccio ideologico con cui i due grandi protagonisti della storia
italiana della prima metà del Novecento, affrontano il tema del Meridione.
Proprio questo è il nodo centrale del libro: Sturzo
e Gramsci vengono messi a confronto attraverso la riproposizione di due
documenti molto importanti: Il
Mezzogiorno e la politica italiana di Sturzo e le Note sul problema meridionale di Gramsci.
Sturzo rivendica, prima di ogni cosa, il merito dei
popolari di aver impostato la questione meridionale come problema unitario e
nazionale. Nondimeno Gramsci insisterà costantemente nella necessità di una
unione tra operai del Nord e contadini del Sud, finalizzata all’abbattimento
del potere borghese.
Ciò che accomuna entrambi è sicuramente la profonda
avversione nei confronti del “centralismo burocratico” dello Stato unitario e l’inclinazione
verso uno Stato delle autonomie che in Sturzo si tradurrà poi nel regionalismo,
mentre per Gramsci rimarrà indeterminato [p. 11].
Da subito emerge, dunque, che se nell’analisi del
problema tra i due sembra esserci una sostanziale convergenza è poi sulle
soluzioni politiche che Sturzo e Gramsci finiscono inevitabilmente per
dividersi.
Il meridionalismo di Sturzo è, innanzitutto,
qualcosa che accompagna la sua stessa vita e la sua esperienza politica e
spirituale con l’isola più a Sud del Paese: il suo approccio al problema del
Mezzogiorno matura, infatti, a contatto con i problemi della Sicilia [p.33].
Sturzo non tralascia di ricordare come l’agricoltura svolga un ruolo essenziale
nell’isola. La Sicilia, che egli immagina autonoma dal punto di vista
amministrativo, avrebbe dovuto trarre capitali dall’iniziativa privata, mentre
agricoltura e industria avrebbero dovuto essere strettamente connesse [p. 34].
In quest’ottica, fondamentali diventano, pertanto, il
decentramento e il regionalismo. La forzata unificazione nazionale, infatti, crea
i presupposti per il mancato sviluppo del Mezzogiorno non solo dal punto di
vista economico e politico, ma perfino sul piano culturale e sociale. Le idee
che Sturzo si forma sul decentramento e sulla necessità di realizzare un vero e
proprio regionalismo nel Paese, sono influenzate dal pensiero di De Viti De
Marco, di Gioacchino Ventura e persino di Nitti [p. 38].
Sturzo auspica, inoltre – come poi fa anche Gramsci
con la classe operaia settentrionale – il coinvolgimento del movimento
cattolico del Nord nella soluzione della questione meridionale. Presto però si
accorge dell’assoluta indisponibilità, da parte dei settentrionali, a
realizzare tale collaborazione a causa del «cumulo di prevenzioni e diffidenza
verso il Meridione» [p. 39].
Questa impostazione diventa comunque centrale nei
programmi del nuovo Partito Popolare, assieme alla convinzione che i problemi
del Mezzogiorno sono prima di tutto problemi nazionali.
Per far sì che il Meridione diventi davvero un
ponte naturale di collegamento tra l’Africa del Nord e l’Albania, la Spagna e l’Asia
minore, è necessario, secondo Sturzo, superare prima di tutto il sistema
doganale e il regime protezionista che fino a quel momento hanno favorito le
industrie del Nord a discapito del Mezzogiorno; successivamente risolvere il
tema dell’uniformità legislativa in spregio alle tradizioni
giuridico-amministrative dell’isola e, infine, attuare la riforma del sistema
tributario che di fatto, così com’era strutturato, non faceva che accentuare lo
squilibrio tra Nord e Sud [p. 45].
Il Mezzogiorno necessita poi di una Riforma Agraria
e naturalmente di nuovi indirizzi di politica internazionale, in base ai quali
si possa unire l’Italia alla Jugoslavia, all’Austria, alla Cecoslovacchia e
all’Ungheria, per realizzare un regime di liberi scambi.
L’avvento del fascismo, di fatto, blocca il
progetto sturziano. La ragione va ricercata nel fatto che le classi sociali
alle quali il prete calatino si rivolge per realizzare il suo programma, ossia
la piccola e media borghesia rurale del Mezzogiorno, finiscono per aderire
apertamente a Mussolini nel quale vedono l’uomo capace di riportare ordine nel
Paese, mettendo a tacere le rivendicazioni operaie e contadine.
Per Sturzo, dunque, Mezzogiorno e Stato non sono
due categorie separate ed è proprio questo dualismo che va superato, perché i
meridionali sono parte integrante dell’Italia.
Eppure, anche Sturzo crede che i meridionali abbiano
le loro responsabilità, riscontrabili non soltanto nell’atteggiamento volto a
chiedere di continuo aiuti e interventi allo Stato, ma anche nelle politiche di
quanti non sono riusciti nemmeno a capire i veri problemi del Mezzogiorno e, di
conseguenza, si mostrano impreparati nel proporre soluzioni efficaci. Né
bastano a Sturzo le classiche giustificazioni: la permanenza delle strutture
feudali, ben oltre la data ufficiale del loro smantellamento, o la mancanza di
una borghesia imprenditoriale audace, come sostiene ad esempio Serra. Secondo il
politico popolare è infatti da superare quello «stato psicologico che ci mette
in condizioni di inferiorità» [p. 74] affinché gli stessi meridionali possano
creare un programma politico della questione meridionale e farlo poi diventare
pensiero generale di tutti gli italiani. In un’ottica rovesciata, dunque,
almeno per una volta, non bisogna aspettare la soluzione dall’esterno, ma farsi
promotori attivi di una strada non solo da percorrere in prima persona, ma da
far intraprendere all’intero Paese, nella certezza che i problemi del Sud si
ripercuotono a catena anche nel resto del Paese: «La redenzione comincia da
noi» [p. 74] afferma con veemenza il prete calatino.
Un tema caldo sollevato da Sturzo e, a mio avviso,
di grande attualità politica, è poi il ruolo esercitato dall’alta banca e dalla
finanza nel determinarsi delle condizioni economiche del Paese. Secondo Sturzo, infatti, l’alta banca – che
non è mai esistita nel Mezzogiorno – ha sempre mantenuto un dominio molto forte
delle principali scelte economiche e industriali del Paese. Le industrie di
natura domestica e artigiana, per fare un solo esempio, non sono appetibili per
la finanza perché «ven[gono] meno col cadere delle linee doganali interne e non
po[ssono] tentare la loro trasformazione industriale, perché lontane dal
mercato generale» [p. 92]. Ciò ha finito, inevitabilmente, per determinare nel
Mezzogiorno la prevalenza del settore agricolo e, ciò che è peggio, è che non
si tratta di un’agricoltura soltanto povera e arretrata ma anche vessata dai
latifondisti, dai gabelloti, dalla mafia, dall’abigeato e dalla malaria.
D’altra parte, qualcuno potrebbe obiettare che se
lo Stato non interviene con la costruzione di infrastrutture, nessun
industriale sarà mai interessato a investire in queste zone del Paese. Questa
impostazione, pur partendo da presupposti giusti, non è affatto condivisa da
Sturzo, poiché da essa sembra evincersi quel solito atteggiamento, proprio di
chi vuole che i problemi del Meridione restino di esclusivo interesse e a
totale carico dei meridionali. Dovrebbe invece diventare un problema di tutto
il Paese farsi carico e risolvere le contraddizioni del Mezzogiorno, poiché se
una parte del Paese è malata, allora tutti complessivamente ne risentono.
Indubbiamente il meridione presenta delle povertà
naturali, un clima difficile e una organizzazione sociale e politica piuttosto
mediocre. Eppure ci sono state epoche in cui questa parte della penisola è
stata florida. Le ragioni, secondo Sturzo, sono da ricercare nel fatto che, in
quei periodi di splendore, esisteva una politica mediterranea intesa come «fatti
e fenomeni politici sotto l’influsso delle economie prevalenti» [p. 102].
L’unica via per poter salvare il Mezzogiorno dal
degrado è, in conclusione, quella di riuscire a dar vita a una politica
nazionale orientata al bacino del Mediterraneo e capace di creare a Sud del
Paese «un hinterland che va dall’Africa del nord all’Albania, dalla Spagna
all’Asia Minore» aprendo traffici, circolazione di scambi etc. [p. 104]. In
questo modo «il mezzogiorno può certo trasformarsi da un regime economico
passivo ad un regime attivo, a patto che si superino le barriere poste dal
regime doganale, dalla pressione tributaria e dalla legislazione uniforme e
livellatrice» [p. 116].
Guardando invece al Partito Comunista Italiano e all’elaborazione
gramsciana della questione meridionale, già nel 1923 era chiaro a tutti i
comunisti che tra «le forze motrici della rivoluzione italiana vi erano anche i
contadini del Mezzogiorno e delle Isole» [p. 141].
È a Gramsci, comunque, che si deve l’analisi più
lucida della questione meridionale e l’aver messo al centro della politica dei comunisti
italiani il tema del Mezzogiorno. Riportare al centro dei programmi e delle
proposte del PCI il movimento contadino al Sud della Penisola, ha come effetto
immediato, tra l’altro, la piena adesione di Giuseppe Di Vittorio al PCI e la
collaborazione di Guido Miglioli (leader del movimento contadino cattolico) con
i dirigenti comunisti.
Per Gramsci – la cui riflessione trae spunto dalle
critiche che un gruppo di giovani muove, su «Quarto Stato», al PCI e alla sua
proposta politica circa la soluzione dei problemi del Mezzogiorno – è chiaro
che la borghesia settentrionale è la causa dell’arretramento del Sud e delle
isole, sottoposte a un regime di vero e proprio sfruttamento coloniale. È ovvio
che la soluzione può venir fuori soltanto da un’alleanza politica tra gli
operai del Nord e i contadini del Sud per rovesciare la borghesia dal potere di
Stato. In tal senso, la «spartizione meccanica» dei latifondi – che diventerà
il tema capitale delle lotte contadine negli anni immediatamente successivi al
secondo dopoguerra – viene vista criticamente da Gramsci che la considera – da
sola – una soluzione effimera. Del resto cosa avrebbe potuto mai fare un
contadino, dopo aver occupato una terra incolta o mal coltivata? Senza risorse
o macchinari ben poco, eccetto che finire nelle mani di qualche usuraio.
In verità Gramsci inquadra il tema della terra e
dei contadini in una cornice ben più ampia: quella cioè della rivoluzione di
cui devono farsi promotrici le due classi alleate dei contadini e degli operai,
sotto la guida del proletariato industriale [p. 164].
Ma – e qui sta l’intuizione di Gramsci – per far
ciò è necessaria innanzitutto una rivoluzione culturale. Il proletariato,
infatti, è impregnato della tradizione borghese che si respira dappertutto e –
qui coincidendo con l’analisi sturziana – ormai è divenuto luogo comune ben
diffuso che il Mezzogiorno sia la palla al piede della penisola e che i
meridionali, inferiori per natura, blocchino con il loro lassismo lo sviluppo
del Paese.
Secondo la tradizione borghese, diffusasi ormai
ampiamente anche presso le classi proletarie, se il Mezzogiorno è arretrato, la
colpa non è, dunque, del capitalismo o della stessa borghesia ma dei
meridionali che sono per natura «barbari», «incapaci» e «criminali» [p. 166].
Gramsci aggiunge, poi, che il Mezzogiorno presenta
una grande disgregazione sociale in cui sono presenti tre strati sociali: «la massa
contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media
borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali» [p.
182]. Il contadino meridionale è legato al grande proprietario terriero
mediante proprio la figura dell’intellettuale. Questa – sebbene Gramsci
riconosca che quando si parla di Mezzogiorno non si possa fare un’analisi
complessiva e indistinta poiché il Mezzogiorno continentale è profondamente
diverso rispetto a quello delle isole – sarebbe però una caratteristica comune
all’intero meridione. In sostanza il riferimento è al cosiddetto “blocco
agrario” che fa da intermediario e sorvegliante al capitalismo settentrionale e
alle grandi banche. Questo ha il compito preciso di mantenere lo statu quo. E
chi sono i responsabili di tale immobilismo se non gli intellettuali
meridionali che, a detta di Gramsci, hanno avuto il compito di arginare
eventuali frane del blocco agrario? Tra questi intellettuali vengono annoverati
persino Croce e Fortunato. Il loro settarismo vieta ai meridionali (o
intellettuali medi) che cercano di uscire dal blocco agrario, di potersi
esprimere sulle riviste principali.
Gramsci, d’altra parte, non nega l’influenza che
Croce e Fortunato ebbero su l’Ordine Nuovo e sui comunisti Torinesi, pur
rivendicando, però, la rottura completa con quella impostazione a cominciare
dal nuovo ruolo che il proletariato deve assumere in qualità di «protagonista
moderno della storia italiana e quindi della quistione meridionale» [p. 192].
È ovvio, dunque, che per spezzare il blocco agrario
è necessario che il proletariato riesca a disgregare quel blocco intellettuale
che ne resta «l’armatura flessibile ma resistentissima» [p. 196].
È attraverso questa disgregazione che è possibile
unire il proletariato e i contadini in un’ottica nazionale della soluzione
della questione meridionale.
Il testo che parte da una intuizione brillante – il
confronto tra due grandi politici e pensatori degli inizi del Novecento, a
partire soprattutto dalle loro diverse ideologie – è un valido strumento di
consultazione per gli studiosi del Mezzogiorno. I testi di Sturzo e Gramsci
sono preceduti da due introduzioni – rispettivamente di Giampaolo D’Andrea [pp.
57-75] e di Francesco Giasi [pp. 139-159] e dalle riflessioni di Giuseppe Vacca
[pp. 9-32] e Francesco Malgeri [pp. 33-53].
Alessandra Mangano
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