Giunge da Città del Messico la notizia della scomparsa di Gabo.[1] Così
lo chiamavano gli amici. Gli amici, che sono, invero, tutti coloro, che si sono
persi tra le pagine di Gabriel Garcia Marquez, che hanno pianto, che hanno sudato,
che hanno ricominciato più e più volte a leggere Cent'anni di solitudine. Nomi e paesi lontani, che oggi i critici chiamano
realismo magico, ma che in realtà è la solitudine dell'uomo di fronte a un'idea
di progresso che lascia l'individuo inerme di fronte a quei "giganti"
che brutalmente governano le vite, sradicano, spremono le ricchezze e le anime.
Macondo è il mondo.
Non è un caso che il romanzo più celebre e denso di Gabo (e forse anche del
XX secolo) esca nel 1967 (in Italia è pubblicato nel 1968 da Feltrinelli nella traduzione
di Enrico Cicogna). Non è un caso, poiché è difficile credere alle coincidenze,
quando nel mondo una generazione è pronta a fare una rivoluzione, e un mondo è descritto
con tutte le storture, le stranezze, le difficoltà, le "magie", i sentimenti
e le generazioni che passano e cuociono sotto il sole ardente e si piegano sotto
la pioggia e si inchinano alla morte. L'America Latina è soltanto un teatro, forse
quello più truce di una modernità altera che nega i popoli e la natura dell'uomo.
Soltanto l'istinto della sopravvivenza risulta - perdonatemi il gioco di parole
- sopravvivere. Rimane un uomo diverso, ma che nello stesso tempo è uomo perché
sopravvive nel seme e nell'amore. Amore, ricordi e una rivoluzione di Bolìvar non
compiuta. Sogni che sono già nostalgia. Oggi saranno più di cento gli anni che questo
momento di solitudine darà all'anima del mondo.
Piero Canale
A voi l'incipit di Cent'anni di solitudine.
Tutti gli anni, verso il mese di marzo,
una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande
frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono
la calamita.
Uno zingaro corpulento, con barba arruffata
e mani di passero, che si presentò col nome di Melquìades, diede una truculenta
manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l'ottava meraviglia dei
savi alchimisti della Macedonia. Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici,
e tutti sbigottirono vedendo che i paioli, le padelle, le molle del focolare e i
treppiedi cadevano dal loro posto, e i legni scricchiolavano per la disperazione
dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi, e perfino gli oggetti perduti
da molto tempo ricomparivano dove pur erano stati lungamente cercati, e si trascinavano
in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di Melquìades. "Le cose hanno
vita propria," proclamava lo zingaro con aspro accento, "si tratta soltanto
di risvegliargli l'anima." José Arcadio Buendìa, la cui smisurata immaginazione
andava sempre più lontano dell'ingegno della natura, e ancora più in là del miracolo
e della magia, pensò che era possibile servirsi di quella invenzione inutile per
sviscerare l'oro della terra. Melquìades, che era un uomo onesto, lo prevenne: "Per quello non serve." Ma a quel tempo
José Arcadio Buendìa non credeva nell'onestà degli zingari, e cos i' barattò il
suo mulo e una partita di capri coi due lingotti calamitati.
Ursula Iguaran, sua moglie, che faceva
conto su quegli animali per rimpinguare il deteriorato patrimonio domestico, non
riuscì a dissuaderlo. "Molto presto ci avanzerà tanto oro da lastricarne la
casa," ribatté suo marito. Per parecchi mesi si ostinò a dimostrare la veracità
delle sue congetture. Esplorò la regio ne a palmo a palmo, compreso il fondo del
fiume, trascinando i due lingotti di ferro e recitando ad alta voce l'esorcismo
di Melquíades. L'unica cosa che riuscì a dissotterrare fu una armatura del quindicesimo
secolo con tutte le sue parti saldate da una crostaccia di ruggine, la cui cavità
aveva la risonanza vacua di un'enorme zucca piena di sassi. Quando José Arcadio
Buendìa e i quattro uomini della sua spedizione riuscirono a disarticolare l'armatura,
vi trovarono dentro uno scheletro calcificato che portava appeso al collo un reliquiario
di rame con un ricciolo di donna.
A marzo tornarono gli zingari. Questa
volta traevano un cannocchiale e una lente grande come un tamburo, che esibirono
come l'ultima scoperta degli ebrei di Amsterdam. Misero a sedere una zingara a un'estremità
del villaggio e collocarono il cannocchiale sull'entrata della tenda. Per cinque
reales, la gente poteva chinarsi sul cannocchiale e vedere la zingara a portata
di mano. "La scienza ha eliminato le distanze," proclamava Melquìades.
"Tra poco, l'uomo potrà vedere quello che succede in qualsiasi luogo della
terra, senza muoversi da casa sua." In un mezzogiorno ardente fecero una mirabile
dimostrazione con la lente gigantesca: misero un mucchio di erba secca in mezzo
alla strada e le appiccarono il fuoco mediante la concentrazione dei raggi solari.
José Arcadia Buendìa, che ancora non era riuscito a consolarsi dell'insuccesso delle sue calamite, concepì l'idea di utilizzare quell'invenzione come arma di guerra. Melquìades, di nuovo, cercò di dissuaderlo. Ma finì per accettare i due lingotti calamitati e tre pezzi di denaro coloniale in cambio della lente. Ursula pianse di costernazione. Quel denaro faceva parte di un cofano di monete d'oro che suo padre aveva accumulato in tutta una vita di privazioni, e che lei aveva seppellito sotto il letto in attesa di una buona occasione per investirle.
José Arcadia Buendìa, che ancora non era riuscito a consolarsi dell'insuccesso delle sue calamite, concepì l'idea di utilizzare quell'invenzione come arma di guerra. Melquìades, di nuovo, cercò di dissuaderlo. Ma finì per accettare i due lingotti calamitati e tre pezzi di denaro coloniale in cambio della lente. Ursula pianse di costernazione. Quel denaro faceva parte di un cofano di monete d'oro che suo padre aveva accumulato in tutta una vita di privazioni, e che lei aveva seppellito sotto il letto in attesa di una buona occasione per investirle.
José Arcadio Buendìa non cercò nemmeno
di consolarla, completamente assorto nei suoi esperimenti tattici con l'abnegazione
di uno scienziato e perfino a rischio della propria vita. Mentre cercava di dimostrare
gli effetti della lente sulla truppa nemica, espose sé stesso alla concentrazione
dei raggi solari e patì scottature che si trasformarono in ulcere e guarirono solo
dopo parecchio tempo. Nonostante le proteste di sua moglie, messa in apprensione
da un'invenzione così pericolosa, poco mancò non incendiasse la casa.
Passava lunghe ore nella sua stanza, facendo
calcoli sulle possibilità strategiche di quella sua arma inusitata, finché riuscì
a comporre un manuale di una stupenda chiarezza didattica e di un irresistibile
potere di convinzione. Lo spedì alle autorità, allegandovi numerose testimonianze
sulle sue esperienze e vari fascicoli di disegni illustrativi, affidandolo a un
messaggero che attraversò la sierra, si perse tra pantani smisurati, risali fiumi
impetuosi e fu sul punto di perire sotto il flagello delle belve, del paludismo
e della disperazione, prima di riuscire a raggiungere una, strada di allacciamento
con le mule della posta. Nonostante il viaggio alla capitale fosse in quei tempi
poco meno che impossibile, José Arcadio Buendìa si riprometteva di intraprenderlo
non appena il governo glielo avesse ordinato, allo scopo di dare dimostrazioni pratiche
della sua invenzione alle autorità militari, e addestrarle personalmente nelle arti
complicate della guerra solare. Per molti anni attese una risposta.
Alla fine, stanco di aspettare, si lamentò
con Melquìades de l fallimento della sua iniziativa, e lo zingaro diede allora una
prova convincente di onestà: gli restituì i dobloni in cambio della lente, e gli
lasciò inoltre delle mappe portoghesi e diversi strumenti di navigazione. Scrisse
di suo pugno una succinta sintesi degli studi del monaco Hermann, che lasciò a sua
disposizione perché potesse servirsi dell'astrolabio, della bussola e del sestante.
José Arcadio Buendìa trascorse i lunghi mesi di pioggia chiu. so in uno stanzino
che aveva costruito in fondo alla casa perché nessuno turbasse i suoi esperimenti.
Tralasciò completamente i propri doveri domestici, rimase nel patio per notti intere
a sorvegliare il corso degli astri, e fu sul punto di contrarre un'insolazione mentre
cercava di stabilire un metodo esatto per trovare il mezzogiorno.
Quando fu esperto nell'uso e nel maneggio
dei suoi strumenti, ebbe una nozione dello spazio che gli permise di navigare per
mari incogniti, di visitare territori disabitati e di allacciare rapporti con esseri
splendidi, senza bisogno di lasciare il suo laboratorio. Fu in quel periodo che
prese l'abitudine di parlare da solo, vagando per la casa senza badare a nessuno,
mentre Ursula e i bambini si rompevano la schiena nell'orto per coltivare il banano
e la malanga, la manioca e l'igname, la ahuyama e la melanzana. Improvvisamente,
senza alcun preavviso, la sua febbrile attività si interruppe e fu sostituita da
una specie di allucinazione. Rimase come stregato per parecchi giorni, continuando
a ripetere a sé stesso a bassa voce una filza di sorprendenti congetture,incapace
egli stesso di dar credito al proprio raziocinio. Alla fine, un martedì di dicembre,
verso l'ora di pranzo, esplose in un colpo solo tutta la carica del suo tormento.
I bambini avrebbero ricordato per il resto della loro vita l'augusta solennità con
la quale il padre si sedette a capotavola, tremante di febbre, consunto dalla veglia
prolungata e dal fermento della sua immaginazione, e rivelò la sua scoperta: "La
terra è rotonda come un'arancia". [Gabriel Garcia Marquez,
Cent'anni di solitudine]
[1] Gabriel Garcia Marquez, http://www.treccani.it/enciclopedia/gabriel-garcia-marquez/
(ultimo accesso: 24/04/2014).
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