Giorgio D’Amato, L’Estate in cui sparavano, Messina,
Mesogea, 2012, 144 pp., ISBN 976-88-469-2116-1
Spesso ci rendiamo conto di quanto siamo immersi nella storia solo a
posteriori. Gli avvenimenti ci colgono nel nostro divenire quotidiano e non
sempre abbiamo la lucidità necessaria per riflettere su ciò che accade.
Succede. Dalla caduta del muro di Berlino alle dimissioni di un papa. Ma a
volte capita che questa storia ci sia talmente vicina e attraversi a tal punto
le nostre vite da obbligarci a fare i conti con essa.
In esergo al suo libro, L’estate in
cui sparavano, Giorgio D’amato
cita Sciascia: “I siciliani, ormai da
anni, chi sa perché, si ammazzano tra loro”. Citazione da una Storia semplice, che ovviamente, così
come accade spesso in Sicilia, semplice non è affatto. E infatti un groviglio
di sangue e vendette comincia a prendere forma nel suo interessante romanzo,
con una sparizione – lupara bianca si dirà più tardi – quella del boss di
Casteldaccia: Piddu Panno.
Ma ovviamente la storia, quella spietata della cronaca fatta dai killer
di Cosa nostra, non ha ancora preso il sopravvento e quindi l’incipit descrive una splendida estate
siciliana per il protagonista del romanzo, un ragazzo di 16 anni che vive la
sua età tra amici, motorino e il lavoro pomeridiano al bar dello zio. Gli
accadimenti, però, si impongono prepotentemente e il sangue comincia ad essere
versato in abbondanza in quell’estate del 1982 con decine, e poi centinaia, di
morti. Siamo in quel che diverrà il tristemente famoso triangolo della morte:
Casteldaccia, Altavilla Milicia e Bagheria, ed è questo il vero asse portante
del romanzo. D’Amato, infatti, ricostruisce – grazie a fonti documentarie quali
giornali e media del tempo, in modo puntuale ed efficace e senza tralasciare i
particolari più efferati – gli effetti della seconda guerra di mafia.
É una ricostruzione fedele, quasi da sceneggiatura cinematografica, ed è
la storia della mafia vincente, quella dei corleonesi, che sostituirà quella
storica, dei Bontade, Badalamenti, Buscetta, ecc. Gli omicidi sono raccontati
dagli occhi ingenui di un adolescente curioso e da un avventore del bar dove
questo ragazzo lavora a Casteldaccia:
Don Ciccio che, ogni tanto, in modo colorito e popolano, cerca di
spiegare cosa avviene e cosa c’è sotto i vari morti ammazzati. Una figura,
forse, poco siciliana proprio per la sua loquacità ma che risulta essenziale
per la ricostruzione dei fatti.
Per il resto il romanzo scorre
abbastanza bene e accanto alle cruenti dinamiche mafiose, vede dipanarsi la storia
dell’amicizia adolescenziale tra il protagonista e Antonio, un ragazzo
intelligente e pieno di ideali, poco più grande: una generazione ancora indenne
dal consumismo.
Si finisce in corteo nella famosa marcia Bagheria-Casteldaccia, di cui da
poco si è commemorato il trentennale, e con la fine di una stagione che porterà
maggiore consapevolezza sociale e individuale. Le vicende raccontate, che
influiscono sui destini delle persone e che a volte ne cambiano la direzione,
porteranno ad una maggiore presa di coscienza collettiva obbligando tutti a
prenderne atto. Una sorta di romanzo di formazione a sfondo storico-mafioso che
ha il pregio di far conoscere, soprattutto ai più giovani – con un linguaggio
semplice e accattivante che spesso fa anche uso di anacoluti e sintassi
dialettali – una pagina importante, e forse ancora poco conosciuta, di storia
siciliana.
Ho apprezzato particolarmente la storia dei due ragazzi, una delle due linee principali che scorre insieme alla parte documentale (i fatti di cronaca), anche se in realtà di linee ce ne sarebbero un'infinità da tracciare: la scelta tra partire o restare, l'interesse generazionale per l'antimafia, l'evoluzione e l'espressione di un'amicizia, la tensione che si sviluppa per le strade del triangolo della morte, l'umanità di alcuni personaggi facilmente etichettabili come disumani.
RispondiEliminaEsattamente per quello che viene detto in questa recensione ("il libro ha il pregio di far conoscere ai più giovani una parte di storia siciliana"), "L'estate che sparavano" dovrebbe essere letto nelle scuole e utilizzato per sviluppare quella "coscienza collettiva" di cui si parlava prima.
Complimenti!
Federico Orlando
Grazie ollando per il commento! La Sicilia e la memoria: qui le pietre tombali vengono poste per dimenticare e non per ricordare, pensa un po', a Corleone, nella tomba di Bernardino Verro - attivista dei Fasci Siciliani -, hanno ritrovato il cadavere del fratello di Leoluca Bagarella, quello ucciso nella strage di viale Lazio. In Sicilia non c'è voglia di rielaborare il passato, meglio lasciarlo dov'è..
RispondiEliminae ringrazio ML per la sua recensione, aver sottolineato l'uso dell'anacoluto mi fa piacere assai assai: l'anacoluto ha il potere di rendere il sound dell'oralità nella scrittura, e questo espediente può rendere la pagina viva, come se non fossi tu a leggere ma la pagina a parlarti. grz millissime!!
gd