Salvatore Lo Bue, I Giorni della Parola. Il vangelo secondo
Giovanni e la Poetica, Milano, Franco Angeli, 2013, 127 pp., ISBN
978-88-204-5236-0.
L'ultima fatica di Salvatore Lo Bue, docente di Poetica della fu Facoltà di Lettere e Filosofia di
Palermo, si intitola I Giorni della
Parola. Il vangelo secondo Giovanni e la Poetica. Voglio precisare che non
si tratta in questo libro di questioni teologiche o di fede, ma di Poetica.
Poetica che Aristotele definisce scienza, rigorosa operazione creativa e che
indaga l'origine, il divenire e il manifestarsi dell'atto di poesia. Per Lo
Bue, infatti, la struttura della narrazione evangelica (in questo caso quella
del vangelo di Giovanni) ripropone i principi della poetica aristotelica.
Nel vangelo di Giovanni noi abbiamo la rappresentazione di un'azione
seria, complessa e compiuta in se stessa, che ha una certa estensione, con uno
stile opportuno in ogni sua parte e che racconta una storia che è principio e
anima dell'opera, la storia di Gesù di Nazareth.
I fondamenti dell'azione tragica canonizzati da Aristotele si riscontrano
nel nodo (δέσις), ossia «tutti questi casi che sono estranei all'azione
propriamente detta, e spesso anche taluni di quelli che fanno parte di essa
azione, costituiscono il nodo. In altre parole, chiamo nodo quella serie di
casi che vanno da ciò che si prende come principio della favola fino a quel
punto della tragedia da cui immediatamente si inizia la mutazione da uno stato
di infelicità a uno stato di felicità o viceversa»;[1]
e poi nello scioglimento del nodo (λύσις) che avviene attraverso
un'azione tragica complessa che comprende sia le peripezie sia il
riconoscimento.
Sembrerebbe una passeggiata il lavoro di Lo Bue, che si limita
semplicemente ad applicare le rigorose leggi della poetica aristotelica a uno
dei quattro vangeli. Tuttavia, il libro mostra un aspetto non secondario, che
si rivela invero il problema centrale della poetica del vangelo di Giovanni. E all'autore
va il merito di averlo esaminato in maniera attenta. Il "problema" si
chiama Prologo del vangelo di
Giovanni.
Che vuol dire? Sempre riferendoci all'Aristotele della Poetica, il
filosofo greco sostiene che la verità abbandona la ragione della poesia, è cade
ogni rapporto tra essenza e parola. L'unica scienza in grado di pensare
l'essere in quanto essere è la Metafisica. È tolto pertanto ogni orizzonte
celeste alla poesia. La poesia non è più dono del dio, ma soltanto una scienza,
un'operazione creativa.
Nel prologo del Vangelo di Giovanni è però scritto:
«In principio era il Logos, / e il Logos era presso Dio, / e il Logos era
Dio. / Il Logos era, in principio, presso Dio. / Tutte le cose, per lui, sono
venute alla luce / e niente, di tutto ciò che esiste, senza di lui / è venuto
alla luce. / La Vita era in lui, / e la Vita era la luce degli uomini: / e la
luce illuminò le tenebre, / e le tenebre la rifiutarono. / [...] E il Logos si
fece carne / e venne e abitò tra di noi. / Di lui abbiamo visto la gloria, / la
gloria di colui che è l'Unigenito, / pieno di grazia e di verità».[2]
È evidente che il Prologo non
lascia spazio ad altre interpretazioni: Gesù è la Parola, l'Opera che racconta
Dio, che racconta se stessa.
Non può essere la poesia analizzata da Aristotele, lontana dall'essere e
dalla verità.
Qual è dunque la libertà del poeta? La libertà dell'autore Giovanni sta
nell'essere autore di una cornice che racchiude il quadro che è già fatto, perché
è lo stesso Logos a essere racconto e
voce narrante.
Lo Bue introduce, quindi, Platone e i dialoghi di Socrate, per realizzare
quel paragone che è utile a farci comprendere il superamento della poetica
aristotelica, e nello stesso tempo la poetica platonica. Socrate è protagonista
delle opere di Platone, Gesù non è protagonista, bensì Opera e creatore.
A complicare ulteriormente la trama del libro è la teoria del «terzo
schema». Infatti, per Lo Bue, la poetica evangelica è il superamento della
tradizione poetica omerica dove la poesia è poesia dei moti del cuore, poesia
del presente, poesia fatta di gesti, di movimenti e di azioni. L'autore riporta
come esempio l'episodio del canto XIX dell'Odissea in cui Euriclea riconosce
l'eroe. È superamento anche della poesia biblica del Vecchio Testamento, una
poesia definita del silenzio, dell'indeterminato, del non detto, «degli spazi
interminati, dei sovrumani silenzi» [p. 16], dice Lo Bue. E riporta come esempio
il sacrificio di Isacco. E questa è la narrazione biblica che canta soltanto la
gloria di Dio unico e solo, e che non tiene conto della vita umana.
Superamento significa anche sintesi e questa sintesi poetica dei due
modelli, quello omerico e quello biblico, rappresenta il modello della
scrittura giovannea.
Un modello che influisce in maniera potente nella narrazione occidentale
e nella poetica occidentale.
Il professore Lo Bue individua cinque elementi che caratterizzano la
poetica del vangelo di Giovanni.
1) La scena
che muove sempre da luoghi geograficamente precisi e da scene ben
costruite: descrizioni minuziose, movimenti dei personaggi, variazioni
psicologiche. Le scene del vangelo sono definite pittura, quasi una forma di
realismo che è di matrice omerica;
2) L'incontro
tutto accade nell'incontro, nell'incontro con la Verità. Il vangelo di
Giovanni è storia dell'incontro con Gesù che si rivela e si dice e si manifesta
e agisce per la salvezza di tutti i viventi (l'incontro con Giovanni Battista,
l'incontro con la Samaritana, l'incontro con l'emorroissa, l'incontro con
Marta, e con l'adultera);
3) Il dialogo e la rivelazione di sé
negli incontri e nei dialoghi emerge l'elemento di identità tra
personaggio e pensiero in cui Gesù è il Logos,
Dio è Persona e non forma ed è proprio la rivelazione a muovere gli incontri;
4) L'azione
questo è uno degli elementi che supera veramente gli altri modelli. In
questo Giovanni si fa costruttore di scene e non di verità, la verità non ha
bisogno di essere costruita, perché la verità è essa stessa e va messa in
scena;
5) I personaggi
i personaggi del vangelo sono nuovi e sono determinanti per la
letteratura occidentale. Essi sono complessi, ma nello stesso tempo occupano
spazi di pochissime battute in dialoghi serratissimi e diventano figure
universali. Non ci sono 100 pagine a descrivere la Samaritana, come ad esempio
fa Manzoni con la monaca di Monza. Solo pochi versi, che tuttavia sono scolpiti
e hanno insieme la concretezza psicologica degli eroi omerici e l'astratta
lontananza dei personaggi veterotestamentarii e che superano Odisseo e Abramo,
perché parlano e agiscono animanti da quella energia scaturita dall'incontro.
Questa è una grande costruzione poetica.
Questa è per grandi, grandissime linee l'analisi della poetica giovannea
che fa Lo Bue, tuttavia non sarebbe un libro di Lo Bue, se esso rimanesse
chiuso in questa disamina scientifica, di termini canonizzati.
Infatti, a un certo punto inizia la narrazione, perché la poetica - e Lo
Bue ce lo ha dimostrato nei precedenti libri - si comprende nei versi non nei
termini scientifici, nella lettura del testo.
Il libro quindi racconta gli ultimi tre anni di vita di Gesù, il 28, il
29 e il 30 (è bene ricordare che il vangelo di Giovanni, rispetto ai sinottici,
non narra l'annunciazione, la natività di Gesù). Il vangelo di Giovanni, dopo
il Prologo, narra l'incontro tra
Giovanni Battista e Gesù al fiume Giordano. Gesù è già adulto.
La narrazione è quindi scandita dalle stagioni e dagli incontri. Non
entro nel merito della narrazione, poiché non voglio dilungarmi e voglio
lasciare ai lettori il piacere di leggere le pagine di questo libro
meraviglioso.
Voglio tuttavia soffermarmi su un episodio che ritengo importante
nell'economia del vangelo di Giovanni e quindi anche nel libro di Lo Bue.
La morte di Lazzaro, o meglio la resurrezione di Lazzaro, che è un
episodio noto del vangelo. Gesù ritarda il suo incontro con Lazzaro, che è
malato e nel frattempo muore. Gesù allora si dirige verso il villaggio e
resuscita Lazzaro.
Prima del miracolo avviene - attraverso queste parole: «Io sono la
resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà e chiunque vive
e crede in me, non morirà mai. Tu lo credi?»; e la risposta di Marta: «Sì,
Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che doveva venire al
mondo» - una prima fase del riconoscimento (l'Άναγνώρισις della poetica
aristotelica), ossia il passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza: «riconoscimento
è salda visione del destino, evidenza dell'inganno, occhio aperto sull'abisso
dei mali, stasi prima della caduta, sapienza finale della propria condizione
tragica e umana. E quando accade il riconoscimento, la catastrofe è puro,
semplice scioglimento, l'abbandono consapevole alle forze avverse che hanno
determinato il mutamento e ora consegnano alla fine».[3] Ciò
appare una conferma di quel «terzo schema» chiamato in causa prima. Il Logos stesso opera il suo riconoscimento
ed è quindi nello stesso tempo rivelazione di sé.
È necessario sforzarsi di immaginare il lettore o colui che ascoltava il
messaggio, la storia di Gesù ai tempi dell'evangelizzazione, quale colpo di
teatro riceveva. L'evangelizzazione è un fenomeno storico e la poetica
giovannea è certamente uno strumento forte e invincibile in dotazione agli evangelizzatori.
Pensate ai popoli pagani, cui veniva raccontato il Logos e l'identità della Persona, quale storia appassionante doveva
essere il racconto del vangelo. Chi ascoltava o leggeva per la prima volta, si
trovava di fronte alla perfetta narrazione della Verità. Aveva iniziato a
sospettare che Gesù fosse il Figlio di Dio, il Messia, tuttavia sono ancora
solo segni, ipotesi, fino a quando non avviene il Riconoscimento.
Per chi sa come va a finire la storia è diverso. Non abbiamo il colpo di
scena per vari motivi. Chi non conosce la storia, riceve invece un sussulto
forte. Non è un caso, che dopo l'episodio della resurrezione di Lazzaro, inizi
la Passione, che è il momento della catastrofe (πάθος). Vi saranno l'arresto,
le percosse, l'incoronazione e la crocifissione. Le sofferenze prima del
riconoscimento definitivo del Logos
che in questo caso non dà luogo alla catarsi come vuole l'impianto aristotelico
della tragedia, ma alla Salvezza attraverso l'annuncio del regno di Dio che si
rende visibile nel sacrificio e nella resurrezione del Figlio.
A questo punto io mi fermo, perché c'è un limite, detto dell'ineffabile,
dell'indicibile che soltanto il poeta può tentare di esplorare, rimanendo in equilibrio
sul confine che è quello della Parola e del Sacro, per questo voglio chiudere invitandovi
alla lettura de I Giorni della Parola.
Piero Canale
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