Italo Calvino avrebbe 90 anni...
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«Questi benedetti libri sono il mio vizio, e conoscendo che mi scomoda, non ostante non so disfarmene, perché qui la passione domina». Giuseppe Pelli, 10 gennaio 1764. Libido Legendi è l'angolo dei lettori di LIBRidO - Laboratorio di Studi e Servizi Culturali, uno spazio dedicato a tutti coloro che condividono con noi il piacere della lettura e l'amore per i libri.
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martedì 15 ottobre 2013
sabato 5 ottobre 2013
Operazione Husky
Giuseppe Casarrubea e Mario
José Cereghino, Operazione Husky. Guerra psicologica e
intelligence nei documenti segreti inglesi americani sullo sbarco in Sicilia,
Roma, Castelvecchi, 2013, 273 pp., (RX, 59), ISBN 9788876159695.
Operazione Husky è una raccolta di documenti prodotti
dagli apparati di intelligence
statunitensi e britannici, che riguardano lo sbarco alleato in Sicilia nel
1943.
Giuseppe Casarrubea, storico, e Mario José Cereghino, giornalista,
pubblicano sessanta documenti conservati negli archivi di Kew Gardens (in
Inghilterra) e College Park (negli Stati Uniti). I documenti riferiscono il
lavoro dei servizi segreti alleati dal 1940 all'autunno del 1943, per preparare
lo sbarco in Sicilia (la cosiddetta "Operazione Husky"), infiltrando
agenti segreti (spesso italo-americani) nel territorio siciliano e dell'Italia
meridionale, stabilendo contatti amichevoli e rassicuranti con la popolazione
locale e le personalità influenti e utili alla causa alleata (antifascisti,
mafiosi, clero, nobili, etc.).
Le carte esaminate e pubblicate possono essere consultate, in copia
cartacea e digitale, anche presso l'Archivio Casarrubea di Partinico, in
Provincia di Palermo, http://casarrubea.wordpress.com/archivio/ (last access:
26/09/2013).
I dossier britannici e americani contengono valutazioni sulla popolazione
siciliana (usi, costumi, indole, ma anche fedeltà al regime fascista, adesione
alla guerra, grado di malcontento, etc.), informazioni e pareri su personalità
ed esuli siciliani negli Stati Uniti (come Vanni Buscemi Montana e Max Corvo,
ad esempio), rapporti degli agenti segreti, manuali di comportamento per le
truppe che occuperanno l'isola e veri e propri piani di attuazione dello
sbarco.
Il libro si divide in due parti: Una
guerra segreta [pp. 5-93] e Documenti
1940-1943 [pp. 99-257].
La prima parte è una ricostruzione della vicenda dell'ideazione, della
programmazione e della realizzazione dello sbarco in Sicilia, attraverso
un'opera di taglio e cucito tra i vari documenti, che sono poi riportati nella
seconda parte.
Il libro, nonostante si presenti come un'opera di «storia – quella vera»
[p. 93] – è, tuttavia, privo di riferimenti bibliografici e di un degno
apparato di note che non si limiti a citare i documenti pubblicati nel volume.
La mancanza di una bibliografia
e la presunzione di ergersi contro gli «improbabili alfieri della storiografia
accademica» [p. 93], fanno sì che non vi sia nel libro una vera e propria
contestualizzazione ed esegesi delle fonti consultate. Inoltre, una buona
bibliografia sull'argomento Sicilia-Fascismo-Mafia-Seconda Guerra Mondiale
avrebbe, di certo, aiutato gli autori di Operazione
Husky nell'avvalorare conclusioni e intuizioni, che essi rivendicano, ma
che sono già state avanzate e confermate storicamente con le fonti, proprio da
quegli «accademici da salotto», almeno dieci anni prima dalla pubblicazione di
questo libro. Ad esempio, sulla commistione tra Fascismo e Mafia in Sicilia –
che gli autori dichiarano di aver smascherato attraverso le carte – hanno già
scritto, solo per citarne alcuni, S. Lupo in Il Fascismo. La politica in un
regime totalitario (Roma, Donzelli, 2005); M. Di Figlia in Alfredo
Cucco: storia di un federale (Palermo,
Associazione Mediterranea, 2007); G. C. Marino, Le generazioni italiane
dall’Unità alla Repubblica (Milano, Bompiani, 2006).
Inoltre, nonostante
l'importanza dei documenti editi, l'arroganza del general reader, che pretende di scoperchiare e mettere a nudo le
"verità", inficia non poco il valore storiografico dell'opera.
Infatti, sarebbe stato opportuno – giacché gli autori riferiscono di conoscere
gli archivi e di «affidarsi con umiltà all'antica e sana metodologia del
dubbio» [p. 93] – indicare quali sono stati i criteri di selezione dei
documenti, in che lingua sono redatti, chi li ha tradotti, quali documenti non
sono stati trascritti e quali non sono stati scelti e per quali motivi, cosa è
stato omesso dietro gli "[...]", qual è la consistenza dei fondi
archivistici consultati, il perché della scelta di questi archivi piuttosto che
di altri.
Per le perplessità
elencate sopra, ritengo Operazione Husky,
un'opera deludente dal punto di vista storiografico, poiché scritta forse con
la presunzione di arrivare al grande pubblico senza dare validi strumenti di
interpretazione e lettura, sebbene si riconosca agli autori il merito di aver
lavorato su una parte di documenti fondamentali per la comprensione della
storia italiana e siciliana.
Piero Canale
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Gli scarafaggi non hanno re
Daniel
Evan Weiss, Gli scarafaggi non hanno re, traduzione di Bruno Amato, Milano,
Feltrinelli, 2010, 242 pp., ISBN 978-88-07-81607-9.
Probabilmente,
se non fosse stato per il consiglio di un amico, questo libro non lo avrei mai
letto. Sì. E pensare che nel corridoio di casa mia, dove sono posizionati buona
parte dei libri di mia madre, ci sarò passato davanti milioni di volte. Mi
sarei perso un capolavoro.
Questo
libro racconta la storia della tranquilla vita di una banda di scarafaggi, che
viene sconvolta dall’arrivo della fidanzata del proprietario dell’abitazione,
ossessionata dalla pulizia. A questo punto iniziano le mille peripezie dei
poveri insetti per sfuggire alla quasi certa estinzione. Si viene a ribaltare, quindi, ogni schema
tradizionalmente e convenzionalmente fissato: quelle bestioline, facili prede
del nostro orrore, diventano gli eroi, mentre gli esseri umani si trasformano
in carnefici irrazionali. Tutto ha ovviamente lo scopo di simpatizzare –
“blattofobici” compresi – con degli esseri che, per nostra natura, detestiamo.
Peccato
che nessun blattofobico prenderebbe mai in mano un libro sulla vita di uno
scarafaggio.
L’autore
vuole mettere in evidenza, a tutti i costi, la crudeltà degli uomini e, di
conseguenza, la scrittura si adatta subito a questo punto di vista: una
scrittura rapida, sprezzante, incisiva e cruda. Spesso sembra quasi che l'autore
stesso inserisca punte di insensato razzismo e, per tale ragione, il libro
diventa a tratti frustrante. Lo scrittore tratteggia lo scarafaggio
protagonista, Numeri, in maniera magistrale, riuscendo ad ottenere una perfetta
mimesi del modo in cui questi insetti pensano e sentono il mondo circostante. Il
racconto è insieme divertente e inquietante e, probabilmente, la prossima volta
che sentirete l’istinto di schiacciare qualche insetto a casa vostra ci
penserete due volte…
Vincenzo
Bagnera
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Più lontano ancora
Jonathan
Franzen, Più lontano ancora, Einaudi, Torino, 2012, 300 pp., ISBN
978-88-06-21324-4.
Un
viaggio lontano, più lontano ancora,
alla riscoperta di sé. Il bisogno/desiderio di allontanarsi da un mondo sempre
più rumoroso, assordante e invadente. Facebook, Twitter, l’assalto alle vite
altrui, voci gridate dentro ai telefonini, esibizione dei sentimenti. Si può
scappare portando con sé pochissimi oggetti, indispensabili alla sopravvivenza,
e le ceneri del grande David Foster Wallace scrittore di straordinario talento
ma, prima di tutto, amico. E lì, su un’isola del Pacifico meridionale, a
ottocento chilometri dalla costa del Cile centrale, cominciare un’avventura
piuttosto insolita che ha come obiettivo quello di combattere la noia
quotidiana e di provare a capire le ragioni della vita, dei propri fallimenti,
della morte e del suicidio, ma anche ripercorrere le tappe dei primi romanzi e
analizzare il contesto nel quale sono stati prodotti. Le correzioni, ad esempio, nasce da un momento di estrema confusione
tanto nella scrittura, quanto nella vita privata di Franzen. Affinché il
romanzo possa vedere la luce, è necessario che lo scrittore diventi un’altra
persona e che si liberi dalla depressione, dalla vergogna e dai sensi di colpa.
Nascono
così le 21 riflessioni di Franzen. Un libro insolito, eterogeneo, versatile che
ci riguarda tutti perché non è a noi
che parla, ma di noi, del nostro
stare nel tortuoso e complesso mondo contemporaneo; della natura e del rispetto
delle altre specie; dell’amicizia e della sconfitta, della fine dei sentimenti;
ma anche dei libri – dai racconti di Alice Munro, alle pagine di Christina
Stead, Donald Antrim, Frank Wedekind, Dostoevskij – di cui Franzen ci regala
delle straordinarie recensioni.
Più lontano ancora è
anche un libro sulla scrittura, o meglio, su come essere scrittori oggi, ai
tempi dei sentimenti on-line. Scrivere significa essere e divenire [p.
116]: essere leali con se stessi e divenire sinceri. Questa fuga, che Franzen
inizia dopo la tragica morte del suo grande amico Wallace, spinge lo scrittore
ad affrontare, finalmente, sentimenti che fino a quel momento aveva preferito
tenere chiusi dentro un cassetto. E, in fondo, cos’è scrivere se non questo tirare
fuori la parte più nascosta di noi stessi? Veicolare pensieri e sentimenti?
Ritornare all’amore reale? Perché – e questo è il sottile fil rouge che unisce le 21 riflessioni del testo – il mondo di
Facebook ha sostituito all’amore reale il concetto più vile e narcisistico del piacere. La maggior parte delle persone,
oggi, è instancabilmente dedita a un disperato desiderio di piacere, anche a
costo di sacrificare la propria integrità. [p. 7] Così, mentre siamo
indaffarati a recitare il nostro film, finiamo per perdere di vista quella vita
vera in cui è impossibile piacere sempre. Perché nella vita vera siamo
sicuramente meno appariscenti dell’ultima foto sul profilo e, forse, un po’
meno brillanti del nostro ultimo stato sulla bacheca ma, proprio per questo,
molto più veri e autentici. Il problema è che spesso è proprio questa
autenticità a paralizzarci e spaventarci perché «il vero io di un individuo non
potrà mai piacer[e] da cima a fondo»[p. 8]. Dunque, l’amore spaventa la
tecnologia perché ha il potere di smascherare la menzogna.
Scrivere
in questo contesto diventa, quindi, un esercizio estremamente difficile e a
volte perfino opprimente: sostituire alla pagina web del nostro social network
preferito un foglio bianco, significa, infatti, accettare di passare dall’altra
parte della barricata: abbandonare il sentiero dell’apparenza per entrare in
quello più complesso e articolato del confronto con noi stessi e con la nostra
mediocrità, col nostro non detto, col vissuto che porta con sé gli innumerevoli
errori, le paure, le frustrazioni, le ansie. Mettersi a nudo può essere
catastrofico, oppure, al contrario, può generare capolavori. Le opere d’arte
nascono quando l’uomo smette di apparire forte e inizia a piegarsi sotto la
mole violentemente feroce della paura della vita e del timore della morte; quando,
cioè, ritorniamo ad essere umani.
Con
questo libro, Franzen ci regala il suo ennesimo capolavoro. Riflettendo sul
mondo e sulle sue cose, ci restituisce la genuinità della vita e dei
sentimenti. Ognuno di noi avrebbe bisogno di trascorrere un po’ di tempo su
quell’isola sperduta del Pacifico. Ma se non riuscissimo a farlo, almeno una
volta nella vita, questo libro è qui per ricordarci che non occorre scappare
dal rumore per ritrovare silenzio ed equilibrio. Basta soltanto smettere di
aver paura di essere noi stessi.
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Le due zittelle
Tommaso
Landolfi, Le due zittelle, a cura di Idolina Ladolfi, Milano, Adelphi, 1992,
114 pp. (Piccola Biblioteca Adelphi, 292), ISBN 978-88-4590-922-1.
Le due zittelle è un
racconto di Tommaso Landolfi – scrittore italiano nato a Pico, in provincia di
Frosinone, nel 1908 – comparso per la prima volta ad episodi tra le pagine del
quindicinale «Il Mondo», rivista fiorentina edita per i tipi di Vellecchi.
Il
testo era suddiviso in sei parti ed ha occupato i numeri dall’11 al 16, a
partire dal 1° settembre 1945 fino al 17 novembre dello stesso anno.
Lo
scritto mostra uno spaccato di vita vissuta tra le polverose vie di una piccola
provincia italiana, dove l’esistenza è scandita dall’osservazione rigida ed
intransigente di regole e precetti, da seguire un po’ per inclinazione
naturale, un po’ per compiacere il volere altrui, regole che spesso rischiano
di diventare catene pericolose, come in questo caso.
Lilla e
Nena sono le due pie zittelle, anch’esse grigie, come grigia e monotona è la
vita che conducono in casa, in compagnia dell’anziana madre malata, nel
perpetuo ricordo del fratello defunto ormai da tempo e presto sostituito – per
non dire rimpiazzato – dalla compagnia di Tombo, una vivace scimmia che ne ha
preso il posto quanto negli affetti, tanto nelle attenzioni morbose e
quotidiane delle tre donne, una sorta di riempitivo palliativo per colmare la
mancanza lasciata dal lutto.
La
monotonia abitudinaria è la loro serenità quotidiana, fino al giorno in cui non
accade un fatto che sconvolge per sempre l’ordine e gli schemi dei giorni
uguali ai giorni: la scimmia, né per dispetto, né per malafede, ma tacitamente
mossa da quella cosa che, mi si permetta, tutti chiamano semplicemente istinto animale, offende ed intacca la
sacra formula rituale che si conviene nelle Chiese, ossia macchia di blasfemia
il rito dell’Eucarestia, inscenando balletti e desinando cibi consacrati;
azione da giustificare e da riporre nel dimenticatoio quasi contemporaneamente,
se il buon senso ci consente di discernere il concetto che chi si è macchiato di tale onta, altro non è che un animale. Ma
così non avviene.
La
sacrilega viene presto giudicata da un impietoso tribunale, composto di due
uomini di fede: il giovane padre Alessio, spinto ad operare ancora secondo
teneri impeti di amore nei confronti del prossimo e di Dio, e monsignor
Tostini, anziano conservatore ed attento osservante delle regole
ecclesiastiche.
Accusato
e disprezzato, al reo è riservata la malaugurata sorte che lo conduce a subire
il gesto estremo del sacrificio, compiuto per mano di una delle amate sorelle, in cui riponeva affetto e
fiducia.
Tra
l’angoscia e le lacrime delle sorelle, fratricide e sofferenti, ma rispettose
dei precetti morali, si chiude lo scorcio sulla polverosa esistenza delle due
zittelle, ormai divenuta piatta nel nome di un empio sacrificio, nella stretta
osservazione di umane convenzioni. Un sacrificio invano, poiché al reo non era
dovuto conoscere, e meno che mai rispettare, i precetti cui è venuto meno.
Uno
spaccato provinciale di fine secolo, definito da Montale,
nel risvolto della prima edizione, uno dei «maggiori “incubi” psicologici e
morali della moderna letteratura europea».
Agostina
Passantino
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Fare memoria. Per non dimenticare e per capire
Rita Borsellino, Fare memoria. Per non dimenticare e per capire, a cura di Laura
Soletti, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2002, 64 pp., 978-88-7246-548-6.
In questo libro viene proposto
l’intervento di Rita Borsellino all’incontro per la legalità, organizzato a
Lucca dal Ce.I.S. – Gruppo “giovani e Comunità”, al quale la sorella del
magistrato ha partecipato con grande motivazione.
Dopo
una breve introduzione di Laura Soletti, dove viene ripercorso il terribile
periodo delle stragi del ’92, Rita Borsellino è preceduta da una breve
presentazione di Massimo Toschi, docente di Storia e Filosofia presso il Liceo
scientifico Vallisneri di Lucca, che conobbe la Borsellino nel 1997, in
occasione di un altro incontro tenutosi sempre a Lucca: “In memoria di Giovanni
Falcone: la fatica della legalità”.
Rita Borsellino comincia il suo
intervento ricordando la sua famiglia, i suoi quattro fratelli e raccontando
come la sua vita sia cambiata totalmente da quel 19 luglio 1992. È da quel
giorno, infatti, che decide di assumersi la responsabilità di «portare avanti la memoria di
Paolo» [p. 9]. Ricorda
come quest’ultimo fu il più giovane magistrato d’Italia a soli 24 anni. Ma
allora, erano gli anni ’60, di mafia forse non se ne sentiva nemmeno parlare e
non perché non ci fosse, ma semplicemente perché ad alcuni faceva comodo così.
E anche lo stesso magistrato si “rimprovera” in una lettera che diventerà il
suo testamento spirituale per le future generazioni: «sono ottimista, perché so che
questi giovani avranno domani una consapevolezza ben diversa dalla colpevole
indifferenza che io mantenni fino ai quarant’anni.» [p. 18].
Questo è un passaggio della risposta, scritta proprio la mattina del 19 luglio 1992, a una lettera che gli
era stata inviata da una scuola padovana.
Poi
la memoria sulla vita blindata di Paolo perennemente in pericolo e di come
questo, insieme con un gruppo straordinario di colleghi – il pool antimafia
coordinato da Antonino Caponnetto – sia riuscito a scardinare la micidiale
macchina da guerra chiamata Cosa Nostra, con l’aiuto di “pentiti” del calibro
di Tommaso Buscetta.
Infine,
il doveroso e bellissimo ricordo dei ragazzi della scorta che hanno avuto il
merito di proteggere, fino all’ultimo giorno, Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino: «sono
delle persone che hanno offerto la loro vita perché la nostra democrazia
potesse restare tale» [p. 32].
Biagio
Bertino
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Storia di un corpo
Daniel
Pennac, Storia di un corpo, Milano,
Feltrinelli, 2012, 352 pp., ISBN 978-88-0701-921-0
Storia
di un corpo è – nella recita che Daniel Pennac ha imbastito con la complicità
del lettore – il diario non quotidiano che un uomo ha tenuto del proprio corpo
e lasciato post mortem alla figlia. Il
diario di un corpo e della sua fisicità – «non un diario intimo, figlia mia,
sai quante riserve ho sul resoconto dei nostri mutevoli stati d’animo» [p. 9] –
ma proprio una registrazione delle sensazioni che il nostro corpo trasmette
fisicamente. Inizialmente poco attratto da questo titolo, ho deciso di
acquistarlo per una rara (per me) forma di suggestione: entrato in libreria,
infatti, ho aperto questo tomo in offerta e, scegliendo a caso una pagina, mi
sono trovato di fronte il giorno della mia nascita. Incuriosito, l’ho letto e,
sebbene non sia una giornata memorabile per il protagonista, ho scelto di
acquistarlo e ora voglio recensirlo e consigliarlo a tutti perché nessuno perda
l’occasione di leggere queste pagine solo perché meno fortunato di me nel
trovarvi una data simbolica.
Con la
trovata del diario di un corpo altrui, Pennac imbastisce un racconto di ciò che
più ci accomuna: il nostro crescere, trasformarci e invecchiare (non so che
effetto farà a una donna ma per un uomo l’immedesimazione è fortissima, e
sarebbe bello se un giorno un’autrice donna, brava come Pennac, volesse
scrivere un libro speculare a questo). Vedere cambiare la nostra interfaccia
con il mondo, mutare le nostre sensazioni, scoprire i piaceri e le differenze
tra sé e gli altri, il dolore fisico di una perdita perché – e questo è per me
il grande segreto del libro – la dicotomia tra anima e corpo non esiste!
Raccontando una vita tramite le sensazioni corporee – dalle gioie infantili,
alla scoperta del sesso, alla malattia e alla vecchiaia – Pennac ci mostra come
tutti i nostri sentimenti e le sensazioni risiedano nel nostro fragile
contenitore, mettendo a nudo la vacuità della distinzione tra corpo e mente – o
corpo e anima se preferite – che vivono insieme in ogni pagina di questo
diario, che parla del corpo e, contemporaneamente, illustra i nostri
sentimenti, desideri, valori.
Molto
altro ci sarebbe da dire e non tacerò la trovata delle note alla figlia, che
rende il tempo del racconto più breve e fruibile, risparmiando ai lettori i
periodi di stasi della crescita corporea, o l’invenzione di Dodo, perfetto
esempio di come il nostro corpo altro non sia che un’estensione della nostra
mente che lo percepisce e di come la nostra mente d’altro non si nutra che di
ciò che dal nostro corpo le giunge.
Consiglio
questo libro a tutti, sia per godere della felice vena creativa di Pennac (un
piccolo gruppo di partigiani che sarebbe stato bene nel suo ciclo Malaussene ci
consola con un po’ di già visto) sia perché l’esperienza qui raccolta ne fa un
classico d’oggi, che sarà, credo, capace di parlare per generazioni agli
uomini. Un solo avvertimento, se temete di invecchiare o vi credete invincibili
ai mali del corpo non leggete questo libro, o vi scoverete i primi segni del
vostro essere “solo” umani.
Bartolo
Megna
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10 giorni da Beatle
Sergio Algozzino, 10 giorni da Beatle, Latina, Tunuè, 2013, 96 pp., ISBN
978-88-97165-64-4.
«Improvvisamente
capii il perché di tutta quella follia: quei quattro ragazzi
avevano un potere, una sorta di empatia al
contrario. Riuscivano a trasmettere
qualcosa oltre la musica, un sano divertimento
che condividevano
tra
loro come se fossero un'unica entità» [p. 27]
Parlare di romanzo a fumetti (o graphic novel)
è sempre complicato. Primo, perché non è detto che tutti conoscano la differenza
con un maxialbo delle grandi parodie Disney; secondo, perché qualcuno pensa
alla riduzione "per bambini" di libri "per adulti"; terzo,
perché un pennino a china non è un pennello né una penna, e quindi l’opera
viene liquidata spesso con "è solo un fumetto".
Tuttavia c’è anche un pubblico di lettori che in
libreria ripone l’Amleto di Gianni De Luca accanto al testo di
Shakespeare e Milo Manara accanto a Jorge Amado (si dice che spesso si
raccontino storiacce di donne). Io le opere di Sergio Algozzino le custodisco
fra le monografie artistiche. Avere fra
le mani Ballata per Fabrizio De Andrè o 10 giorni da Beatle è
come leggere la storia delle anime dei due protagonisti, e i cenni biografici
sono quasi marginali.
È affascinante vedere la speculare inversione della
voce narrante: se Fabrizio è raccontato da una girandola di suoi personaggi,
rimanendo il perno muto e invisibile, Jimmie Nicol racconta in prima persona il
vortice fantasmagorico che lo travolse nel 1964, quando si trovò per 10 giorni
in tour con i Beatles, a sostituire il malato Ringo Star.
L’apice della beatlesmania, un fenomeno di
costume che travolse Oriente ed Occidente, è raccontata dall’interno da un
protagonista che stenta a credere a ciò che gli succede, e quasi si sente
spettatore. Per timidezza infatti Nicol non riuscirà per giorni a guardare
negli occhi "i Beatles", entità senza volto che solo con sforzo,
infine, "vede" prendendo confidenza. Quando Jimmie torna alla realtà
della sua piccola vita, capisce che la grande avventura lo ha cannibalizzato.
In lui si alternano rabbia, nostalgia, disperazione, rassegnazione;
l’accettazione finale è catartica: meglio esserci stato per poco, che non
esserci stato affatto.
Sergio Algozzino varia tratti e campiture, punti di
vista e ritmi, in una regia magistrale, che rende quasi superfluo il dialogo:
parlano gli occhi, le mani, persino i non-volti. Poi parla tanto anche
l’Autore: com’è sua abitudine, in appendice alla storia aggiunge Qualche
nota a margine [pp. 91-94], dove commenta i vari episodi, li dettaglia, li
spiega. In alcune note lo si sente sorridere, in altre sghignazzare
apertamente. Se leggendo traspariva la passione dell’estimatore, ora si scopre
lo studio professionale nell’accuratezza delle ricostruzioni, nella
documentazione di ogni dettaglio.
Al grande curriculum d’esperienza artistica
(disegnatore per la Panini Comics, collaborazioni internazionali, docente alla
Scuola del Fumetto di Palermo, art director del magazine Mono, vincitore
del Premio Francisco Solano Lòpez ad Etnacomics 2013, etc.) unisce
grande passione musicale – è musicista egli stesso – e dunque si capisce perché
nel verso di frontespizio compaia fra i ringraziamenti:
«A mio fratello, per avermi fatto ascoltare I
Want to Hold your Hand».
Eloisia
Tiziana Sparacino
Abbiamo incontrato Sergio Algozzino il pomeriggio
della presentazione ufficiale del libro, il 2 Luglio al Nautoscopio di Palermo,
parlandogli subito prima che salisse sul palco del concerto/tributo ai Beatles
che è proseguito per ore. La videointervista completa la trovate al link: http://youtu.be/Rm6qrPm400M
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