Jonathan
Franzen, Più lontano ancora, Einaudi, Torino, 2012, 300 pp., ISBN
978-88-06-21324-4.
Un
viaggio lontano, più lontano ancora,
alla riscoperta di sé. Il bisogno/desiderio di allontanarsi da un mondo sempre
più rumoroso, assordante e invadente. Facebook, Twitter, l’assalto alle vite
altrui, voci gridate dentro ai telefonini, esibizione dei sentimenti. Si può
scappare portando con sé pochissimi oggetti, indispensabili alla sopravvivenza,
e le ceneri del grande David Foster Wallace scrittore di straordinario talento
ma, prima di tutto, amico. E lì, su un’isola del Pacifico meridionale, a
ottocento chilometri dalla costa del Cile centrale, cominciare un’avventura
piuttosto insolita che ha come obiettivo quello di combattere la noia
quotidiana e di provare a capire le ragioni della vita, dei propri fallimenti,
della morte e del suicidio, ma anche ripercorrere le tappe dei primi romanzi e
analizzare il contesto nel quale sono stati prodotti. Le correzioni, ad esempio, nasce da un momento di estrema confusione
tanto nella scrittura, quanto nella vita privata di Franzen. Affinché il
romanzo possa vedere la luce, è necessario che lo scrittore diventi un’altra
persona e che si liberi dalla depressione, dalla vergogna e dai sensi di colpa.
Nascono
così le 21 riflessioni di Franzen. Un libro insolito, eterogeneo, versatile che
ci riguarda tutti perché non è a noi
che parla, ma di noi, del nostro
stare nel tortuoso e complesso mondo contemporaneo; della natura e del rispetto
delle altre specie; dell’amicizia e della sconfitta, della fine dei sentimenti;
ma anche dei libri – dai racconti di Alice Munro, alle pagine di Christina
Stead, Donald Antrim, Frank Wedekind, Dostoevskij – di cui Franzen ci regala
delle straordinarie recensioni.
Più lontano ancora è
anche un libro sulla scrittura, o meglio, su come essere scrittori oggi, ai
tempi dei sentimenti on-line. Scrivere significa essere e divenire [p.
116]: essere leali con se stessi e divenire sinceri. Questa fuga, che Franzen
inizia dopo la tragica morte del suo grande amico Wallace, spinge lo scrittore
ad affrontare, finalmente, sentimenti che fino a quel momento aveva preferito
tenere chiusi dentro un cassetto. E, in fondo, cos’è scrivere se non questo tirare
fuori la parte più nascosta di noi stessi? Veicolare pensieri e sentimenti?
Ritornare all’amore reale? Perché – e questo è il sottile fil rouge che unisce le 21 riflessioni del testo – il mondo di
Facebook ha sostituito all’amore reale il concetto più vile e narcisistico del piacere. La maggior parte delle persone,
oggi, è instancabilmente dedita a un disperato desiderio di piacere, anche a
costo di sacrificare la propria integrità. [p. 7] Così, mentre siamo
indaffarati a recitare il nostro film, finiamo per perdere di vista quella vita
vera in cui è impossibile piacere sempre. Perché nella vita vera siamo
sicuramente meno appariscenti dell’ultima foto sul profilo e, forse, un po’
meno brillanti del nostro ultimo stato sulla bacheca ma, proprio per questo,
molto più veri e autentici. Il problema è che spesso è proprio questa
autenticità a paralizzarci e spaventarci perché «il vero io di un individuo non
potrà mai piacer[e] da cima a fondo»[p. 8]. Dunque, l’amore spaventa la
tecnologia perché ha il potere di smascherare la menzogna.
Scrivere
in questo contesto diventa, quindi, un esercizio estremamente difficile e a
volte perfino opprimente: sostituire alla pagina web del nostro social network
preferito un foglio bianco, significa, infatti, accettare di passare dall’altra
parte della barricata: abbandonare il sentiero dell’apparenza per entrare in
quello più complesso e articolato del confronto con noi stessi e con la nostra
mediocrità, col nostro non detto, col vissuto che porta con sé gli innumerevoli
errori, le paure, le frustrazioni, le ansie. Mettersi a nudo può essere
catastrofico, oppure, al contrario, può generare capolavori. Le opere d’arte
nascono quando l’uomo smette di apparire forte e inizia a piegarsi sotto la
mole violentemente feroce della paura della vita e del timore della morte; quando,
cioè, ritorniamo ad essere umani.
Con
questo libro, Franzen ci regala il suo ennesimo capolavoro. Riflettendo sul
mondo e sulle sue cose, ci restituisce la genuinità della vita e dei
sentimenti. Ognuno di noi avrebbe bisogno di trascorrere un po’ di tempo su
quell’isola sperduta del Pacifico. Ma se non riuscissimo a farlo, almeno una
volta nella vita, questo libro è qui per ricordarci che non occorre scappare
dal rumore per ritrovare silenzio ed equilibrio. Basta soltanto smettere di
aver paura di essere noi stessi.
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