Pier
Paolo Pasolini, Il caos, Roma,
l’Unità/Editori Riuniti, 1991, 253 pp.
Dall’agosto
del 1968 al gennaio del 1970, Pasolini scrive per il periodico Tempo una rubrica che ha come oggetto
diversi temi: dalla politica, alla cultura, al costume contemporaneo; ma anche
recensioni, risposte ai lettori e appunti di viaggio. Il caos è la raccolta di questi scritti che l’Editore ha voluto
pubblicare, nel 1991, ordinando i testi scelti secondo la loro successione
cronologica e raggruppandoli per annate.
Pasolini
stesso ci spiega le ragioni che lo spingono ad accettare questo incarico e lo
fa nel suo primo articolo: «la necessità “civile” di intervenire, nella lotta
spicciola e quotidiana, per conclamare […] una verità affermativa» [p. 18]. La
verità di Pasolini presuppone, innanzitutto, il rifiuto di comportarsi da
persona pubblica. L’autorità produce, infatti, terrore perché si basa su un insieme di comandamenti negativi o,
più semplicemente, su divieti cui lo scrittore non intende sottomettersi. Per
questa ragione il titolo della rubrica, Il
Caos, si contrappone al terrore violando, in un certo senso, questi divieti
che accomunano – nel mondo borghese – tanto la destra quanto la sinistra. È
interessante notare che, in questa occasione, Pasolini non si riferisce, come
potrebbe sembrare, al terrorismo staliniano, quanto piuttosto allo «snobismo estremistico di certi adepti
del PSIUP» [p. 19].
La
libertà di Pasolini non è determinata dal suo essere indipendente ma, ci dice lo stesso scrittore, dal suo essere solo.
È proprio la solitudine ciò che garantisce allo scrittore la libertà di essere
cinico con tutti, persino col suo editore capitalista. Ma, del resto, ci
ricorda lucidamente e provocatoriamente l’autore, se possiamo leggere Marx e
Lenin lo dobbiamo agli editori capitalisti e borghesi che li hanno pubblicati
[p. 20].
La
rubrica è permeata fortemente da tutti i temi essenziali che hanno
contraddistinto la ricerca e le opere di Pasolini, primo tra tutti la profonda
trasformazione del tessuto sociale italiano e, in particolare, il passaggio
dalla civiltà contadina a quella del benessere e del capitalismo. Feroce, in
tal senso, la critica che egli muove al Natale, festa che, di anno in anno,
manifesta sempre più apertamente il forte embrassons-nous
tra la Religione e la Produzione: «la Chiesa è ancora più asservita di
prima al Capitale […] il Capitale strumentalizza la Chiesa solo per abitudine,
per evitare guerre religiose, per comodità» [p. 96].
Inevitabile,
dunque, che il bersaglio principale del suo discorso settimanale diventi la
borghesia che, per Pasolini, non è una classe sociale ma una «vera e propria
malattia» [p. 21] che ha finito per contagiare, contaminandole, anche quelle
classi sociali che si sono sempre poste come obiettivo il combatterla.
Il Caos è una
rubrica volutamente provocatoria, per certi versi anche aggressiva, nei
confronti di tutti coloro i quali, intellettuali “di sinistra” inclusi,
dimostrano di essere complici del degrado culturale della contemporaneità. In
essa vi sono anche pagine di estremo dolore e solitudine. Colpisce, da subito,
il senso di estrema oggettività nel descrivere la realtà: non è forza e nemmeno
qualunquismo, non è indifferenza: è la solitudine che rende il poeta
indipendente: «se sono indipendente lo sono con rabbia, dolore e umiliazione:
non aprioristicamente, con la calma dei forti, ma per forza» [p. 19]. Gli anni
della rubrica sono quelli dello scontro col PCI e del dissenso con il movimento
studentesco: Pasolini rifiuta di allinearsi alle posizioni ufficiali e resta un
intellettuale contro e pertanto scomodo. In occasione del sequestro delle copie
di Teorema, chiaro è il riferimento
al suo essere sempre e comunque un irregolare. Anche il suo opporsi
presuppone indipendenza perché, ci dice, «anche nel “potere contrario al
potere” ci sono dei settori (altrettanto oscuri e imprecisabili) che cercano
volontariamente di colpirmi, di eliminarmi…» [p. 99].
Ora,
dinanzi a questo Potere, qual è il ruolo dell’intellettuale? Se per circa un
ventennio, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’egemonia culturale era
stata detenuta dal PCI, negli anni ’70, quando cioè Pasolini scrive questa
rubrica, quella stessa egemonia è passata nelle mani dell’industria. Ciò
determina ovviamente lo svilirsi della figura dell’intellettuale, prima guida e
vate nazionale, oggi ridotto invece a strumento nelle mani della borghesia e
del mercato. Ciò accade perché il sistema borghese è in grado di assorbire ogni
contraddizione, o meglio «crea esso stesso le contraddizioni per sopravvivere,
superandosi» [pp.21-22].
Sono diversi i temi affrontati da Pasolini nella sua
rubrica a corredo dei fatti di cronaca di quegli anni. Il razzismo, in primo
luogo, in relazione alla guerra tra Israele e gli arabi. Di questo terribile
problema lo scrittore ci dice che, nel tempo, esso è destinato ad aumentare a
dismisura, a causa della «polverizzazione della collettività» la quale,
frantumando la società, determinerà odio tra le diverse parti. Certo quest’odio
si è oggi modificato, Pasolini lo aveva quasi previsto, ma la sostanza di
questo sentimento non muta. Il povero, il diverso, l’altro continuano a
provocare fastidio, insofferenza e a volte, dice lo scrittore friulano, persino
“ripugnanza” [p. 29].
In secondo luogo, emerge con tutta la sua forza, la
grande e più che mai attuale questione della democrazia reale che, in Pasolini,
acquista una valenza molto particolare, in relazione alle sue idee sul Potere,
sulla partecipazione, sui soggetti propulsori del cambiamento e della
decisione. Secondo lui l’Italia avrebbe vissuto pienamente la democrazia reale
soltanto durante gli anni della Resistenza e nel corso del ’68, in occasione
del diffondersi del Movimento Studentesco. Tanto la Resistenza quanto il ’68
sono, infatti, due esperienze che furono trainate dall’idea del socialismo. In
tale ottica, il tema del decentramento del potere, cui Pasolini dedica,
direttamente o indirettamente, una parte molto importante della sua rubrica, e
più in generale di tutta la sua opera letteraria, appare, oggi più che mai, di
un’attualità sconcertante, anche in virtù dell’ampio dibattito, apertosi
recentemente, sul futuro dell’attuale sinistra e sul declino della rappresentatività.
Tutto ciò rende quindi queste pagine così vicine al nostro vissuto che sembra
siano state scritte ieri. Autogestione implica responsabilità e il popolo
italiano non sembra essere pronto, abituato com’è, da sempre, «al culto
dell’autorità e del potere»[p. 43]. Chissà cosa penserebbe oggi Pasolini del presidenzialismo
in discussione in questi giorni; del Movimento 5 Stelle o di una nazione
che, oggi come ieri, continua ad essere «ignorante, provinciale, volgare,
riduttiva, vecchia, terroristica, ingiusta» [p. 162].
Il Caos è
preludio indispensabile alla lettura del Pasolini “corsaro” di qualche anno
dopo. Il suo atteggiamento cinico può risultare oltremodo pungente e suscitare,
persino, una feroce antipatia. Ma del resto è proprio questo il
rischio-beneficio dell’essere veramente liberi: la schiettezza rende Pasolini
un personaggio al contempo “scomodo” per la ferocia della sua analisi ma,
nondimeno imparziale nel giudizio.
Ciò che non dobbiamo però dimenticare e che emerge,
con forza, dalla lettura di queste pagine è che a questa libertà Pasolini
arriva con dolore e sofferenza, perché dissentire ha un prezzo: quello di
essere sempre impari.
La mia
indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza
[p. 100].
Impossibile, dunque, leggere Pasolini senza aver ben
chiara la sofferenza di questa drammatica solitudine.
Alessandra Mangano