Gesualdo
Bufalino, Diceria dell’untore, Milano, Bompiani, 2008, 188 pp., 978-88-4529-152-4.
Il libro descrive la vita di alcuni
degenti di un sanatorio che appaiono subito come condannati in attesa di esecuzione. Ammalati
e medici vivono ciascuno la propria parte, reagendo all’atmosfera cupa
dominante nel nosocomio.
Basato
su un’esperienza autobiografica dello scrittore, viene presentata al lettore
una prospettiva originale, con un insolito cast di personaggi: un giovane soldato malato di tisi, una
ballerina e il primario chiamato “il Gran Magro”. In un sanatorio della Conca
d’Oro, nella Sicilia occidentale, amministrato da un primario nobile e
alcolizzato, viene descritta un’atmosfera noir, se non fosse per il
profumo degli aranci e per il chiarore del sole della Sicilia. Una sentenza
dolorosamente sospesa, che non lascia alla speranza che una possibilità di
sopravvivenza su tre. Tra la ballerina e il soldato scaturisce un amore senza
futuro, ostacolato dalla gelosia del Magro e dalla sorveglianza ferrea che la
guarnigione di monache amministra a presidio di una rigorosa segregazione. La condizione del malati è un
segno di sofferenza o di privilegio, un indizio di diversità, di estraneità
alla vita, ai suoi modesti e prosaici valori. Il binomio arte-malattia diviene
in Bufalino una categoria estetica, il metro di giudizio con cui misurare
l’atteggiamento dello scrittore di fronte alla vita, il suo modo di accertarne
la diagnosi. Il senso della vita, sentita dunque come una irreparabile
malattia, è uno dei punti di forza della poetica bufaliniana. Bufalino parte da
una condizione squisitamente autobiografica della malattia, ma leopardianamente
ne supera i confini elevando la sua condizione di malato e quindi di diverso,
alla dimensione dell’arte, nel senso più ampio del termine.
«…non sono felice e mi chiedo
perché. Forse questa consunzione che porto nella carne mi va guastando anche
l’anima» [p. 71]. Gran costruttore di personaggi, ispiratore di
atmosfere incantate, tratta i fatti oggettivi come favola, senza stancarsi,
tuttavia, di ragionare sulle cose; e allora la meditazione scava negli oggetti
e nelle figure imboccando la via della meraviglia.
Gesualdo Bufalino ebbe riluttanza a
pubblicare, infatti diede alle stampe il suo primo libro a sessant’anni, dopo
una lunga opera di convincimento da parte di Elvira Sellerio e Leonardo
Sciascia. Nel 1981 l’opera esplode immediatamente in tutto il suo
valore e si trasforma in un caso letterario che culmina con l’assegnazione del Premio
Campiello. Il suo primo editore è sempre Sellerio ma rotti gli
indugi, l’autore comisano, intrattiene collaborazioni anche con Einaudi e
Bompiani. Autore di saggi,
poesie, romanzi e traduzioni, Bufalino di volta in volta affronta i suoi temi
più cari elevandoli a dignità letteraria, tramite uno stile alto, ricco di
metafore, ossimori e simboli.
Biagio
Bertino
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