Il 5 settembre 1938 furono varati i provvedimenti per
la difesa della razza nella scuola fascista. Fu proibita agli «alunni ed agli
studenti ebrei» l’iscrizione alle scuole di qualsiasi ordine e grado, e
l’ufficio di insegnante fu vietato alle «persone di razza ebraica». Cominciò
con questo decreto la politica razzista del Fascismo.
L’intervento legislativo nell’istruzione fu un fatto
rilevante e significativo della discriminazione razziale italiana a danno degli
ebrei. L’attuazione di tali interventi, nell’ambito della cultura e degli
intellettuali, fu una scelta autonoma del Fascismo - precedente anche ai
provvedimenti tedeschi antiebraici in materia scolastica. Bisognava colpire gli
ebrei e mostrare la discriminazione e la persecuzione, affinché fosse monito
per tutti. Analizzando la questione dal punto di vista politico, non possiamo
negare che «la persecuzione razziale nel settore 'educativo' si colloca quindi
in un momento nel quale il regime accentua il controllo formale sulle
istituzioni culturali».
Nel giro di qualche mese, la discriminazione fu estesa
a tutti i settori della vita nazionale, dalle professioni ai matrimoni, dalla
proprietà privata alla materia testamentaria. Queste norme furono attuate e
perseguite con zelo dai vari ministri, sottosegretari, funzionari e impiegati
dello Stato.
Gli atenei non sono l’unica dimora della cultura, ma
se una parte della «cultura italiana» aderì al fascismo e all’antisemitismo,
bisogna anche dire che molti di questi «uomini di cultura» erano degli
accademici. Non si deve dimenticare, inoltre, che soltanto undici professori
universitari non giurarono fedeltà al regime.
Non è possibile nemmeno pensare che tutti gli altri docenti prestassero il
giuramento soltanto per paura di perdere il posto di lavoro. Alcuni professori,
fascisti lo erano realmente e «talvolta, dei veri e propri arnesi del regime
messi in cattedra: così i docenti di 'mistica fascista', i giuristi di 'diritto
corporativo', i 'regi storiografi'»,
etc. Questi stessi «uomini di cultura videro nell’antisemitismo di Stato una
maniera per mettersi in mostra, fare carriera, fare danaro, per sfogare i loro
rancori o le loro invidie contro questo o quel loro collega».
L’ateneo di Palermo non ebbe sorte differente da
quelli del resto della penisola. Nomi illustri, nomi importanti della
giurisprudenza e della medicina non fecero segreto del loro antisemitismo, lo
teorizzarono e lo difesero, utilizzando le non comuni doti di studiosi, sostenendo
e non solamente eseguendo le direttive ministeriali.
Ci furono troppi «cattivi maestri» – tali furono per
Mario Genco – e «troppo forte fu la loro autorevolezza nei confronti di allievi
e studenti, in quei tempi in cui il principio d’autorità faceva addirittura
parte della 'mistica' del partito al potere».
Tra gli «uomini di cultura» a Palermo – che non fecero
mistero del loro antisemitismo – Giuseppe Maggiore (1882-1954) fu colui che
ricoprì un ruolo di prima punta. Maggiore, laureato in Giurisprudenza, fu
ordinario di diritto penale alla Regia Università di Palermo. Nel 1938 divenne
Magnifico Rettore. In quegli stessi anni, la sua adesione al Fascismo, lo portò
a ricoprire altri incarichi al di fuori dell’ambito universitario durante gli
anni Trenta.
La nomina a rettore coincise con le prese di posizione
ufficiali del Regime sulla «questione razziale». I suoi notevoli impegni
professionali, all’interno e al di fuori dell’Università, non gli impedirono di
dare uno tra i contributi più consistenti al razzismo fascista provenienti dal
mondo accademico, come pure alla propaganda dell’antisemitismo. Negli anni dal
1938 al 1943, fu autore di almeno due libri e di numerosi articoli pubblicati
da quotidiani e riviste, in cui concentrò il suo pensiero razzista. L’impegno e
la sistematicità del pensiero, che ritroviamo nei suoi testi, sono prova di una
forte coscienza razzista che nei suoi studi trovò saldi spunti teorici.
Delle sue opere riguardanti il razzismo del Regime,
sicuramente, la più significativa è Razza
e Fascismo del 1939. Ampiamente pubblicizzato da «La difesa della razza» –
mensile italiano del razzismo, pubblicato dal 1938 al 1943 – e recensito da
giornali nazionali, il libro raccoglie tutta la produzione del professore in
materia. Tra i primi scritti, tuttavia, ritroviamo un articolo pubblicato ne
«La difesa della razza», dal titolo Logica
e moralità del razzismo. L'articolo ci permette di comprendere la matrice
razzista del pensiero di Giuseppe Maggiore - perché in esso si evidenzia la qualità
filosofica del suo odio razziale, ritenendo che il razzismo italiano avesse «le
carte in regola anche con la filosofia».
Non ci sono prese di posizione contro il razzismo biologico propugnato dal Manifesto degli scienziati razzisti. A
proposito, piuttosto, scrisse che «i biologi sono dunque in buona compagnia
filosofica quando sostengono l’esistenza delle categorie razziali», in quanto
«se la razza è una verità per la biologia, non può non essere tale per la
filosofia» che, invece, è capace – quest’ultima – di «elaborare e perfezionare
i concetti scientifici, non dichiararli falsi».
Questo stesso articolo fu poi ripubblicato all’interno del suo libello Razza e Fascismo, in cui è concentrata
l’essenza della sua ideologia razzista. Nel libro, Maggiore affronta svariate
questioni, tutte intrise di antisemitismo: sono ripresi i temi della filosofia,
della politica e della scuola.
L’impegno più rilevante fu rivolto alla politica, su
cui si fonda il concetto stesso di razza. Per Maggiore, infatti, razza e politica
sono strettamente unite e complementari, tanto da sostenere che «il concetto di
razza nasce e vive nella politica […] fuori dalla politica quel concetto
languisce e muore, quasi svuotato dalla sua ragion d’essere. […] Questa
concretezza inseparabile dalla vera politica ci è garanzia della realtà del
concetto di razza. La razza non è utopia, perché utopia nella politica è
l’irreale. La razza è un concetto scientifico a servizio di un’idealità
politica».
Di conseguenza il concetto di razza non poteva non
stringersi a quello di nazione e di popolo, difficilmente separabili – per
l’impostazione teorica di Maggiore –, ma entrambi accomunati nella loro essenza
storico-politica, perché «dove c’e nazione c’è razza, e dove c’è razza c’è
nazione».
L’odio dottrinario proposto in maniera sistematica nel
saggio Razza e Fascismo, non fu
risparmiato agli ebrei, per “salvaguardarsi” dai quali, egli ripropone e motiva
le scelte del Duce, rivolte ad attuare una politica di difesa.
Poco dopo l’emanazione dei provvedimenti contro gli
ebrei nella scuola italiana, Maggiore – da poco insediatosi al rettorato
palermitano – scrisse un articolo per «Critica Fascista» dal titolo La scuola agli italiani.
Maggiore si occupò della scuola e dell’Università, ed
espresse in questo campo, la necessità dell’intervento del Fascismo
sull’istruzione, affinché la scuola fosse «riconsegnata» agli italiani, che ne
avevano lasciato la sorte agli ebrei. Secondo il rettore, il «primo urto tra
Fascismo e semitismo doveva prodursi nel settore della scuola».
L’intento è “fascistizzare” ancora di più la scuola, poiché «le riforme e gli
emendamenti intesi a rimettere sulla buona strada l’istruzione pubblica» non
sono tali «da dissipare nell’animo dei fascisti veri un senso di malessere e di
diffidenza».
Quello che però, interessava più Giuseppe Maggiore era
la sorte dell’Università, in cui più di tutte avvertì l’esigenza dei
provvedimenti, in quanto ritenuta «asilo per le persone più indesiderabili».
Non c’è nemmeno da chiedersi chi possano essere queste persone indesiderabili
per Maggiore: gli ebrei, colpevoli di avere reso le università italiane delle
«università israelitiche», soggette ad un evitabile e terribile scadimento.
Qualche mese dopo, all’inaugurazione dell’anno
accademico 1938-1939, lesse una lunga relazione dai forti accenti razzisti, in
cui non dimenticò di sottolineare i progressi fatti dai provvedimenti fascisti
nell’Università, compiacendosi per l’allontanamento dei novantanove professori
dall’insegnamento, di cui ben cinque dall’ateneo di Palermo.
Giuseppe Maggiore fu, sicuramente, il più fiero e
schietto razzista e antisemita siciliano. La sospensione dalla cattedra fu
breve. Dall’epurazione del 1943 voluta dagli anglo-americani per
“defascistizzare” la scuola e l’Università, alla sua riammissione
all’insegnamento passarono pochi anni, grazie all’intercessione del nuovo
rettore Giovanni Baviera, il quale sostenne presso gli organi di polizia
l’assoluta mancanza di azioni di rilievo a favore del Fascismo da parte di
Maggiore. Morì
nel 1954. Rimane nella Facoltà di Scienze Politiche un'aula a lui intitolata.
Tra le fila dei razzisti palermitani troviamo il
medico oculista fascista Alfredo Cucco (1893-1968), esponente della destra
siciliana dal primo dopoguerra fino agli anni del Movimento Sociale Italiano. Il
noto oculista e docente all’Università, durante il Fascismo visse con sorti
alterne la sua appartenenza politica al PNF: federale a Palermo dal 1924 al
1927 per l’ala farinacciana; epurato nel 1927 a causa sia dell’estromissione di
Farinacci dalla segreteria generale del partito, sia a causa delle accuse
rivoltegli dal “prefetto di ferro” Cesare Mori.
Gli anni trenta però, riavvicinarono Cucco alle alte sfere della politica e non
poco peso in questa nuova ascesa ebbero le sue posizioni razziste, le quali
trovarono spazio e consenso all’interno del corso appena imboccato dal
Fascismo. Il medico oculista firmò, insieme a molti altri, il Manifesto degli scienziati razzisti
redatto il 14 luglio 1938.
In Cucco, come in Maggiore, politica e razzismo si
fusero completamente insieme, infatti, le teorie razziali del primo si
sposarono perfettamente con la politica demografica voluta dal regime. Il
nucleo del pensiero razzista di Cucco era incentrato su teorie eugenetiche e
demo-razziali, volte ad affermare la necessità di mettere in pratica, sistemi
di miglioramento della razza attraverso la selezione di individui, controlli
qualitativi e quantitativi delle nascite ed eliminazione degli eventuali
portatori di devianze e difetti. Alle teorie eugenetiche Cucco univa una
riflessione storica sulla civiltà del passato. A differenza di Maggiore,
tuttavia, Alfredo Cucco non scrisse mai un vero e proprio libro in cui fu
concentrata tutta la sua ideologia razzista. È possibile però, ritrovare nelle
sue maggiori opere degli anni trenta e quaranta i nodi centrali del suo
razzismo, fondamentali all’interno dei suoi studi medici e demografici.
I primi accenni sulle teorie di miglioramento della
razza sono riscontrabili in La capitale
del tracoma, brevissimo saggio sul problema della cecità a Palermo e delle
relative problematiche che questa comporta alla vita di un’intera città, in cui
il tracomatoso è definito «peso morto per sé, peso morto e contagio per la
famiglia, per la società».
Il successivo testo, Amplexus interruptus del 1940, preme però più drasticamente sul
rapporto nascite, tassi demografici e “salute” di una razza. Secondo gli studi
condotti, Cucco ritiene che l’uso di metodi contraccettivi, in particolar modo
quello del coito interrotto, portasse danni fisici a chi li praticasse, e anche
un calo delle nascite, primo fattore di decadimento e degrado di una razza. A
dimostrazione di ciò furono prova, per l’oculista, i crolli delle antiche
civiltà del passato, dai babilonesi, ai greci, agli stessi romani, causati,
appunto, da un periodo di nascite in diminuzione. La situazione italiana,
anch’essa percorsa dalla crisi delle nascite, necessitava di interventi
massicci e politiche a favore della razza.
Nel 1941 Alfredo Cucco fu nominato docente di
Demografia alla facoltà di Giurisprudenza. In linea con le lezioni di
quest’ultimo insegnamento, fu il libello pubblicato nel 1940 dal titolo Sfacelo biologico anglo-russo-nord americano,
in cui, partendo dai dati relativi alla natalità ed alle condizioni sociali di
statunitensi, inglesi, russi e francesi, veniva posta in risalto la superiorità
razziale di italiani e tedeschi. Lo stesso libro venne, poi, leggermente
rivisto nel contenuto e nell’espressione, eliminando le punte estreme delle sue
considerazioni, e ripubblicato con il titolo Uomini e popoli nel 1954.
Il medico fascista non si occupò, nella sua “carriera
di razzista”, solamente di teorie eugenetiche e demografiche. Egli fu anche un
fiero sostenitore della superiorità razziale dei popoli mediterranei
dell’Italia meridionale e, in particolar modo, dei siciliani. Espose queste sue
idee sulla “sicilianità” collaborando occasionalmente con «La difesa della
razza» e con i quotidiani locali dell’isola, per i quali scrisse colonne e
pagine, con l’intento di fornire il suo contributo “scientifico”.
Sulla rivista di Interlandi contribuì con un pezzo dal
titolo La Sicilia e la razza, in cui
cercò di esaltare e risaltare, con i toni talora epici e fatalistici della
solita retorica fascista, la fertilità delle donne siciliane per tramite degli
alti tassi di natalità, prova inconfutabile della superiorità razziale di un
popolo, della buona salute di una stirpe.
Dimostrare una tale integrità e superiorità razziale
dei siciliani, non poteva che significare –secondo Cucco – la diretta
discendenza dai Romani, mantenuta attraverso i millenni, conservando intatte
tutte le “sacre virtù” della Roma dell’Impero.
In un articolo per «L’Ora», espose
nuovamente le caratteristiche di grande vitalità meridionale, per tramite,
anche, di una serie di confronti con i dati demografici delle regioni
dell’Italia settentrionale, tra le quali il Piemonte, dove «i morti superano i
nati» a causa dell’evidente contatto con la Francia. Quello che ad Alfredo
Cucco interessa, è dimostrare scientificamente, attraverso un sfilza di termini
medici e della biologia, le ragioni dell’ipernatalità meridionale, in
particolare quella siciliana. La prova
biologica, dimostrata la notevole capacità riproduttiva delle donne siciliane,
non poteva non ribadire la diretta discendenza da Roma. Questa fu una costante
che accompagnò il medico palermitano anche dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Non fece mai abiura delle proprie
idee razziste, anche dopo la caduta del regime. Nel 1954 commemorò la scomparsa
di Giuseppe Maggiore recensendo nuovamente il testo La Politica – già recensito da Cucco, in un articolo de «L'Ora» del
18 aprile del 1942 – definendolo «un’opera monumentale nella storia della
cultura nazionale».
Al medico razzista la città di Termini
Imerese ha intestato una via.
Tra i «cattivi maestri» vi furono anche zelanti predicatori
del razzismo: l’esempio più calzante è quello di Telesio Interlandi (1894-1965),
nato in un piccolo paesino vicino Ragusa, “fuggito” presto per Roma ed entrato
nelle fila del Fascismo. Egli fece della sua professione di giornalista l’arma
più spregiudicata per colpire e perseguitare gli ebrei. Non è possibile negare
che il “LA” alla campagna di stampa antisemita fu dato proprio da Interlandi,
direttore de «Il Tevere», quotidiano romano. Gli fu anche affidato il compito
di dirigere la redazione de «La difesa della razza».
Nello stesso anno dell’uscita del primo numero della rivista, fu pubblicato Contra Judaeos, il libro-inchiesta di
Interlandi, volto a denunciare l’invasione giudaica in Italia.
Tra gli accademici siciliani che aderirono al Manifesto degli scienziati razzisti vi
fu anche Biagio Pace (1889-1955), docente di archeologia all’Università degli
Studi di Palermo e membro del Consiglio Superiore dell’Ufficio Demografia e
Razza.
Gli studi di De Felice ci riportano anche il nome di
Santi Romano (1875-1947), uno tra i più importanti giuristi italiani, ordinario
di diritto amministrativo e costituzionale all’Università "La Sapienza"
di Roma al tempo delle leggi razziali. Il noto giurista palermitano aderì al
Fascismo e per questo, dopo la fine della dittatura, fu accusato di avere
fiancheggiato il regime. Mentre erano in vigore i provvedimenti razziali, fu
nominato membro del comitato scientifico della rivista giuridica «Diritto
Razzista».
Nella situazione di irreperibilità della rivista citata, possiamo, agli studi
attuali, rifarci solamente al rimando bibliografico.
Questi sono alcuni dei nomi, tra «i più bei nomi»
della Cultura e dell’Università siciliana.
Gli uomini di cultura finora citati, prima dei
provvedimenti per la cacciata degli ebrei dalla scuola, erano colleghi di lavoro
– se non stretti collaboratori – dei docenti ebrei che furono allontanati
dall’insegnamento nel 1938.
Il 16 ottobre furono interdetti dall’ufficio di
docenza i professori Camillo Artom, docente di fisiologia umana; Maurizio
Ascoli, docente di Clinica Medica; Mario Fubini, critico letterario e
professore di letteratura italiana; Alberto Dina, ordinario di elettronica; ed
Emilio Segrè fisico, direttore dell’Istituto di Fisica a Palermo e premio nobel
nel 1959. Di questi soltanto Maurizio Ascoli tornò a insegnare all’Università
di Palermo, mentre Giuseppe Maggiore e Alfredo Cucco, e con loro gli altri
docenti che presero parte alla persecuzione, restarono al loro posto dopo il
1945 e continuarono la loro carriera di professori universitari, senza nessuna
conseguenza per il loro operato di antisemiti e razzisti per pacificare la
nazione.
Oggi a Maurizio Ascoli è intitolato l'Ospedale oncologico
di Palermo, all'interno della struttura del Civico.
Riferimenti bibliografici: Sono
riportate le opere citate nell'articolo, eccetto gli articoli pubblicati nei
quotidiani e nella rivista «La difesa della razzia»: G. Boatti, Preferirei
di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Torino,
Einaudi, 2002; A. Cucco, La capitale del tracoma, Palermo, Scuola
tipografica Ospizio di Beneficenza, 1937; Id.,
Uomini e popoli: profili biodemografici,
Bologna, Cappelli, 1954; R. De Felice,
Storia degli ebrei italiani sotto il
fascismo, Torino, Einaudi, 1997; M.
Di Figlia, Alfredo Cucco. Storia
di un federale, Palermo, Associazione Mediterranea, 2007; M. Di Figlia, Fascismo
radicale e fascismo conservatore. Il caso Alfredo Cucco, in «Mediterranea»,
2 (2004); S. Di Matteo, Storia di un quinquennio: anni roventi. La
Sicilia dal 1943 al 1947, Palermo, G. Denaro Editore, 1967; M. Genco, Repulisti ebraico. Le leggi razziali in Sicilia 1938-1943, Palermo,
Istituto Gramsci Siciliano, 2000; T. Interlandi, Contra
Judaeos, Roma-Milano, Tumminelli & C., 1938; S. Lupo, Il Fascismo.
La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2005; G. Maggiore, Razza e Fascismo, Palermo, Agate, 1939; G. C. Marino, Le
generazioni italiane dall’Unità alla Repubblica, Milano, Bompiani, 2006; B. Pasciuta, La Facoltà di Giurisprudenza di Palermo (1805-1940): docenti e
organizzazioni degli Studi, in La
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Palermo. Origini,
vicende ed attuale assetto, a cura di Gianfranco Purpura, Palermo, Kalos,
2007; G. Turi, Lo Stato educatore. Politica e intellettuali
nell’età fascista, Roma-Bari, Laterza, 2002; S. Zappoli, Maggiore,
Giuseppe, in Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Treccani, 2007.
T. Interlandi, Premessa, in «La difesa della
razza», 1 (1938), p. 3.