Marco Revelli, Finale di Partito, Torino, Einaudi, 2013, 137 pp., ISBN
978-88-06-21554-5.
I
partiti politici, così come li abbiamo conosciuti nel Novecento, non esistono
più, «sono divenuti d’un colpo elastici e permeabili» (p. IX). Questo, in
breve, il punto attorno al quale Marco Revelli – docente di Scienza della
politica all’Università del Piemonte Orientale – costruisce un’analisi lucida e
al contempo sconvolgente del nostro attuale panorama politico e istituzionale.
Un
presente difficile da interpretare se pensiamo, ad esempio, alle amministrative
del 2012 quando nel «Mugello del centrodestra» (la Brianza), il PDL è sceso dal
30-38% al 7-15%, mentre la Lega è passata dal 25-35% all’11-20%. Analoghi dati
si sono verificati poi, anche in altre zone del Nord Italia (Cesano Maderno,
Cassano Magnago paese di Bossi, Tradate, Besozzo etc.). Un’emorragia di voti
senza precedenti: tutto il Nord profondo targato Lega e PDL abbandona i
tradizionali partiti non soltanto perché gli scandali che hanno travolto i due
leader (Bossi e Berlusconi) fanno a pugni con gli innumerevoli suicidi di
piccoli imprenditori che, strozzati dalla crisi e dalle tasse, non riescono più
ad andare avanti. Queste sono infatti quelle che Revelli chiama «spiegazioni
ordinarie» (p. 6) e non bastano affatto a chiarire cosa sta davvero accadendo.
In
primo luogo va detto che alla perdita di voti del centrodestra non ha
corrisposto affatto – come accade solitamente nella logica democratica
dell’alternanza – il recupero di altrettanti voti da parte del centrosinistra.
Anzi, anche in quest’ultimo caso c’è stata un’emorragia di voti consistente. A
vincere in queste aree è invece il Movimento 5 Stelle. Tertium datur verrebbe da dire, capovolgendo la celebre locuzione
latina.
Vero
protagonista delle amministrative del 2012 sembra però – accanto al M5S –
l’astensionismo di cui è cambiata, invertendosi, persino la geografia: in
questa occasione la diserzione alle urne è stata più forte nelle zone del Nord
Italia che, fino a qualche anno fa, risultavano essere le più virtuose. Mentre
il Sud, in primis la Calabria, ha dimostrato un maggiore «senso civico».
Se a
rinunciare al diritto al voto sono le tradizionali regioni rosse e quelle del
profondo Nord, è abbastanza chiaro, dice Revelli, che la disaffezione nei
confronti della politica ha toccato maggiormente le parti più politicizzate del
paese.
Ma da
dove prende i voti il Movimento 5 Stelle? Da Lega, Idv e dall’area della
sinistra. I voti del Pdl si perdono invece nell’astensionismo. Fin qui
l’analisi lucida dei fatti.
Ma
cos’è successo davvero alle tradizionali forme di rappresentanza Novecentesca? L’autore decide di concentrarsi sull’analisi
di quest’ultimo anno: da una parte il governo Berlusconi che viene messo ko
dallo spread e, dall’altra, la nascita di un Governo dei tecnici, il cui
Presidente appare come un deus ex machina
calato dall’alto dal Capo di Stato Giorgio Napolitano, per scongiurare le urne
in un momento difficile a causa dei mercati in fibrillazione. Come leggere
questi due importantissimi avvenimenti? L’Italia che è una delle più importanti
Repubbliche parlamentari, ha assistito ad un processo in cui il Parlamento,
esautorato dalle sue funzioni, è rimasto fuori dalla crisi che è stata invece
gestita dall’alto e non perché – aggiunge Revelli – qualcuno ha impedito ai
partiti di agire, ma «per incapacità manifesta» (p. 17) di fare politica da
parte del Parlamento stesso. Abbiamo cioè assistito a un «trasferimento assiale
di sovranità» (p. 18) in cui l’uomo del Quirinale prevale su Parlamento e
Governo. Sta accadendo nuovamente, in queste ore convulse dopo le
consultazioni, in seguito alle quali ancora una volta è Giorgio Napolitano a
gestire l’impasse con l’istituzione delle due commissioni di saggi.
Come
reagiscono gli elettori dinanzi a tale scenario? Nel primo caso si sono
comportati conseguentemente all’atteggiamento tenuto dalle forze politiche e
questo spiegherebbe i risultati delle scorse amministrative.
Ma
la crisi di rappresentatività non è un fatto ascrivibile al 2012, era già
partita un anno prima quando, in due città chiave come Napoli e Milano, a
vincere le amministrative sono stati due uomini nuovi, fuori dalle logiche di
partito e di schieramento: De Magistris e Pisapia.
E, se
proprio si vuole essere precisi, bisogna andare ancora a ritroso nel tempo, ai
referendum abrogativi del giugno 2011 il cui significato è importantissimo
perché i temi sul tavolo non erano affatto rispondenti a logiche di partito; lo
dimostra il fatto che filonuclearisti e politici scettici sulla “nazionalizzazione”
dell’acqua c’erano anche nel centrosinistra. Secondo Revelli quel voto
referendario mostra fortemente «una rivendicazione e una ri-appropriazione di
ciò che è comune da parte della comunità: dei cittadini che ne rivendicano
l’inalienabilità, al di là di ciò che
possono decidere i loro rappresentanti politici» (p. 21).
Ci siamo trasformati dunque in una «democrazia senza
popolo» e potremmo trovarci presto dinanzi a un «popolo senza democrazia» (p.
26). Se pensiamo infatti agli innumerevoli scandali bipartisan: dal sistema
Penati allo scandalo Ruby; agli indagati; alle immunità per reati di mafia
(Cosentino, Romano…); agli sprechi dei rimborsi elettorali, è facile intuire le
profonde ragioni del rancore che muove i cittadini contro le istituzioni che
dovrebbero rappresentarli.
La sfiducia nei partiti non è poi un fenomeno solo
italiano ma coinvolge l’intero Occidente industrializzato ed è oggetto di
numerosi studi. Ricerche non tanto recenti fanno riferimento a un discorso
tenuto da Jimmy Carter, ex presidente degli USA nel 1979, in cui egli accenna
già alla crisi di fiducia che i cittadini americani mostrano nei confronti
delle istituzioni di governo.
Da queste ricerche emerge che il sentimento che accomuna
gli elettori di tutto l’occidente è l’insofferenza nei confronti della
«connotazione oligarchica dei propri sistemi consolidati di rappresentanza» (p.
33), cosa di cui, peraltro, aveva già
parlato, un secolo fa, Roberto Michels nella sua «teoria elitista» della
politica (p. 38): ogni processo democratico è destinato, per forza di cose, a
sfociare nell’oligarchia.
Non è dunque possibile ampliare la partecipazione
democratica. Agli inizi magari gli obiettivi cui tendono sia il Partito che lo
Stato sono nobili, ma quando la democrazia comincia a crescere e dunque ad
ampliarsi, parallelamente cresce anche il bisogno di affidarne la direzione a
un gruppo di cosiddetti capi. Michels paragona questo processo a un morbo
autoimmune nutrito dalle masse che
mostrano di avere una naturale tendenza a sottomettersi a un padrone e a
delegare tutto.
Preferibile dunque per Michels – che non per nulla aderì al fascismo – il
rapporto diretto tra il Capo e la Massa senza «la mediazione non solo
ingombrante ma deviante – parassitaria e generatrice di privilegi – della
burocrazia di partito e di apparato» (p. 47).
Dopo il secondo conflitto mondiale però, si ritorna
con convinzione alla democrazia rappresentativa e questo ritorno dura – in modo
meno convinto forse, ma pur sempre forte – fino agli anni settanta e ottanta.
Perché oggi la fiducia nella democrazia è venuta meno in modo così forte?
Secondo Revelli i vecchi leader erano amati dalla massa sia per i sacrifici cui
hanno dimostrato di saper far fronte, che per le rinunce, il senso dello Stato.
Oggi invece i capi partito sono avvertiti sempre più come “casta” piena di
privilegi e vizi, i leader sono peggiorati, sono mediocri, non conoscono i
problemi della gente, sono inefficienti: di Peggiocrazia
parla a tal proposito l’economista Luigi Zingales, ovvero di una zona grigia in
cui si è definitivamente rovesciato il tradizionale rapporto che legava masse
ed èlite istituzionali nel Novecento, quando le prime erano mobili mentre le
seconde rappresentavano il punto fermo.
Ma non sono solo i leader politici ad essere cambiati.
Protagonisti del mutamento sono anche gli elettori oggetto della
rappresentanza: da braccianti e operai del Novecento siamo passati agli
studenti, ai tecnici, agli intellettuali e ai professionisti. Questi nuovi
elettori tendono ad autorganizzarsi, in una logica di subpolitcs o di politica della seconda
modernità (si vedano a tal proposito le teorie di Ulrick Beck) una politica
dal basso che «tende a mobilitare [orizzontalmente] tutti i settori della
società» (p. 60).
Infine, la crisi della tradizionale organizzazione
politica – il partito – è ascrivibile anche all’avvento del post-fordismo e ad
un terzo mutamento, quello del modello organizzativo, che si concretizza nel
passaggio dal «paradigma socio-produttivo» (p. 65) fordista-weberiano ad un
altro diverso e contrapposto che non è più basato sulla centralizzazione, ma
sul decentramento e la delocalizzazione: una sorta di vero e proprio post-
fordismo politico.
Lo stesso Weber aveva profetizzato, già nel 1918, il
passaggio dalla democrazia statale alla democrazia burocratizzata.
Le
macchine organizzative novecentesche hanno tutte le stesse caratteristiche:
dalla fabbrica, all’esercito, ai partiti, alle Chiese… queste macchine hanno
funzionato bene fino a qualche tempo fa, poi all’improvviso – impossibile dire
con precisione quando – hanno smesso di funzionare. Non è stato soltanto il
funzionamento dei partiti a incepparsi, ma tutto il sistema: dai mercati che «si
fecero a un tratto saturi, a crescita lenta, o vicina allo zero» (p. 76) alle
amministrazioni pubbliche con i bilanci in rosso e un altissimo tasso di
inefficienza. E se muta l’economia col passaggio da un tipo di organizzazione
burocratica a uno di tipo catalitico (p. 78),
allora è inevitabile che anche i partiti di massa siano destinati a
cambiare, specialmente quelli di tradizione socialista e comunista. Proprio i
partiti comunisti sono quelli che meno di tutti sono riusciti a reggere al
mutamento e, di conseguenza, sono scomparsi. Proprio loro che avevano basato
tutto sulla logica della centralizzazione non hanno retto, un po’, dice
Revelli, «come accadde ai sovrani d’Ancien
régime quando venne meno l’antico principio dinastico» (p.83).
Il
sistema fordista implode per diverse ragioni: la prima in assoluto è quella
relativa ai costi organizzativi utilizzati per far funzionare i «giganteschi
apparati» (p.84), troppo alti in un’epoca in cui la domanda era stagnante e la
produzione si articolava ormai in piccoli lotti. Meglio pagare solo quando si
acquista ed eliminare i costi fissi. Anche i partiti dovettero fare i conti con
i costi di gestione. E proprio su questo tema, ovvero quello dei costi, si
gioca oggi la crisi attuale della politica e aggiungerei anche del sindacato,
almeno nella sua forma confederale. La politica post-fordista costa di più
perché «deve comprarsi quanto non sa più (e non può più) produrre da sé, a
cominciare dalla fiducia degli elettori» (p. 85).
Quindici
anni fa Bernard Manin aveva illustrato il passaggio dalla «democrazia dei
partiti» alla «democrazia del pubblico» (p. 105); ancor prima la democrazia dei
partiti aveva sostituito il parlamentarismo delle origini. Secondo Manin queste
trasformazioni sono strettamente connesse alle trasformazioni sociali, il fatto
che oggi i partiti sono in declino è dovuto, a suo dire, alla liquefazione
della società di classe novecentesca. Nella democrazia del pubblico non si vota
più per il partito bensì per la persona, esattamente come nel parlamentarismo
delle origini. La differenza sta nel fatto che mentre nel parlamentarismo
elettore ed eletto spesso si conoscevano, nel caso della democrazia del
pubblico gli elettori sono messi in contatto con gli eletti dai media.
Partendo
dalle considerazioni di Manin possiamo definire quella dei grillini “democrazia
di pubblico?” La posizione del Movimento
è perfettamente espressa dai due deputati del M5S al termine delle
consultazioni con il capo dello Stato: «non abbiamo il nome del nostro
candidato premier – dice il cittadino Crimi alla stampa incredula – ma non
importa, lo troveremo due minuti dopo aver ricevuto l’incarico di formare un
governo»; «ciò che conta – gli fa eco la Lombardi – non è la persona ma il
programma del movimento». Bastano queste dichiarazioni a rendere il M5S una
democrazia di pubblico?
Beppe
Grillo non vede nella crisi dei partiti cause sociali e culturali. Pensa invece
che la causa sia piuttosto tecnologica: la rete ha lo stesso ruolo che
l’automobile e la produzione di massa standardizzata ebbero nel sancire la fine
del «partito dei notabili» e della «democrazia parlamentare». La fine della
politica così come l’abbiamo conosciuta dal Novecento a oggi, è un bene secondo
Grillo, perché permette lo sviluppo di una democrazia diretta. La rete
sostituirà tutto: giornali, tv, libri. I partiti spariranno e lasceranno il
posto ai movimenti; la rete, quindi, avrà
lo stesso ruolo che, ai tempi della Riforma protestante, ebbe l’invenzione di
Gutenberg. Alla stregua dell’invenzione della stampa – che nel 1500 favorì il
diffondersi delle idee protestanti, contribuendo ad eliminare il divario tra i
fedeli e le Sacre Scritture – la rete permetterà ai cittadini di partecipare attivamente al
processo decisionale e legislativo. La rete inoltre permette già «di emendare
la politica dal vero male del secolo: la sua connessione con il denaro» (p.
117). Ancora una volta torna in mente l’accostamento a Lutero e alla sua
battaglia contro il mercato delle indulgenze e la corruzione di Roma. Eppure la
legge di Michels è sempre lì e prima o poi anche il Movimento 5 Stelle sarà
inevitabilmente soggetto alla sottomissione a un processo di oligarchizzazione.
Anzi, ne è già vittima, in quanto gli stessi membri delle commissioni nominate
da Napolitano sono vere e proprie oligarchie (come ricordava qualche giorno fa
Barbara Spinelli in un suo interessante editoriale) e tale risultato è frutto
anche dell’indisponibilità del M5S a trattare con Bersani per rendere possibile
la formazione di un governo.
Dunque
più che di democrazia di pubblico dovremmo forse parlare di “democrazia
immediata elettronica” che, se può anche andar bene quando c’è da scegliere tra
due opzioni (ad esempio se sia meglio bombardare la Libia oppure costruire
ospedali) potrebbe invece rivelarsi un boomerang, se si dovesse chiedere al
web, sull’onda emotiva di un delitto, se si è favorevoli o contrari alla pena
di morte, o se si approva o meno il ricorso alla guerra dopo un eclatante
attentato. Questo tipo di democrazia potrebbe dunque rivelarsi un disastro.
Ma come
siamo arrivati a questo punto? Si può davvero pensare di risolvere tutto
addossando la colpa a quella che alcuni, forse in maniera semplicistica, hanno
definito antipolitica, ma che – avvisa Revelli – andrebbe più opportunamente
definita come contro-democrazia, che non è affatto la negazione della
democrazia? Il popolo sente il bisogno di controllare gli eletti per evitare
abusi di potere e corruzione. Una vera «democrazia della sorveglianza» (p. 123)
in cui «il controllo monopolistico dello spazio pubblico da parte del partito
novecentesco è finito» (p. 135) e lo dimostrano non solo Grillo, ma anche
figure ambivalenti come quella di Renzi, che piace a sinistra e non dispiace a
destra e che parla più o meno un linguaggio analogo, per certi versi, a quello
grillino; e le primarie che – da che mondo è mondo – si celebrano sempre in
concomitanza di una crisi di consenso: è accaduto nel 1995 in Francia; in
Spagna all’epoca di Felipe Gonzàlez; negli anni ‘90 in Inghilterra.
Quali
sono le responsabilità della politica? Perché – ci si chiede – bisognava
aspettare Grillo per iniziare una seria e attenta rivalutazione degli sprechi
della politica, oppure per comprendere la profonda necessità di dare al Paese
una legge anticorruzione; o ancora accordare il rispetto dovuto alla volontà
popolare su temi importanti quali l’ambiente, le energie alternative, i beni
comuni?
Un libro dal finale aperto: una domanda bruciante – è
possibile una politica oltre i
partiti? – che resta drammaticamente senza risposta e che oggi è ancora più
attuale e incalzante, in questa crisi istituzionale senza precedenti, i cui
scenari possibili diventano, ogni giorno che passa, più preoccupanti.