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lunedì 5 ottobre 2015

Milleparolecirca

Giusi Buttitta, Milleparolecirca. Sull'assenza, Palermo, Navarra, 2015, 60 pp., ISBN 97-888-9886-517-8.

Questa cinquantina di pagine di racconti è una promessa. Pubblicato da Navarra, il libretto Milleparolecirca Sull'assenza è l'esordio letterario di Giusi Buttitta, già firma conosciuta in provincia di Palermo, nell'hinterland di Bagheria, dove da più di dieci anni tiene rubriche di opinione e commento su varie testate locali. Giusi Buttitta è una che scrive da Dio, scrive da sempre da Dio, una spanna sopra rispetto a ciò che si legge in ambito locale ma non solo, con una scrittura potente ed evocativa, che mai inciampa e mai ha problemi di ritmo, padrone di una sorta di armonia intrinseca che non si permette sbandamenti o sbavature neanche nella foga polemica più accalorata. Ecco dunque che, dopo più di dieci anni di esercizio allo scrivere - in cui ha pure vinto un importante premio internazionale, l'Endas, con una sceneggiatura scritta insieme all'altro interessantissimo talento bagherese: Paolo Pintacuda - ecco dunque che Giusi Buttitta esordisce con la narrativa pura, pubblicando questi dieci racconti di circa mille parole ciascuno che sembrano tanto - a una prima occhiata - un semplice esercizio di scrittura creativa e che però si rivelano - a una seconda occhiata - molto di più che un semplice esercizio di scrittura creativa. Una promessa, abbiamo detto. Una promessa che si intravede nelle dieci storie narrate magistralmente dall'autrice, storie che - a livello contenutistico - esprimono tutte in un modo o nell'altro una sofferenza, una ferita, una mancanza, soprattutto una mancanza: l'assenza di un'armonia, di un significato, di un'autenticità, di quel qualcosa di indefinibile e inenarrabile, perennemente soggetto di una consapevole ellissi narrativa, che poi è - si potrebbe dire - il vero protagonista di tutti i racconti. Nella storia della cinese di 38 kg che vende cianfrusaglie in spiaggia, o in quella della moglie che non ama più il marito, o della moglie e madre che fugge via da tutto, o del tizio pestato in un vicolo, o del marito che getta l'acido in faccia alla moglie all'uscita dal chirurgo plastico, o dei vari omicidi nati da semplici meditazioni misantropiche, in tutte le vicende raccontate in questo libro - ambientate in quotidianissime location come salotti borghesi, abitacoli di automobili, supermercati, sale d'attesa - c'è un disagio e un'assenza, una rotellina irrimediabilmente fuori posto a causa della quale l'energia vitale dei protagonisti si disperde drammaticamente o si concentra in maniera perversa soprattutto nell'astio e nel disgusto, in una macinazione mentale che diventa critica livorosa e improduttiva, dissacrante, violenta, il più delle volte arbitraria (schema: protagonista che osserva sconosciuti e li comincia a odiare per i loro piccoli dettagli, segue sviluppo più o meno inaspettato). Un'energia vitale che trabocca e non trova contenitori adeguati dentro cui riversarsi. Ma è la scrittura in sé, la forma, il vero e assoluto pregio di questi racconti, con l'autrice che - in un contesto puramente narrativo - si mostra ancora più efficace che negli già efficaci commenti politici. Potente ed evocativa, già detto, soprattutto piena di lampi e scosse elettriche, sorgente continua di sorprese, con un robusto impianto narrativo, spesso utilizzando stratagemmi molto "visivi" e cinematografici, e fulminee illuminazioni di sottigliezza psicologica. Si ride e si rabbrividisce, leggendo la prosa di Giusi Buttitta, soprattutto ci si meraviglia. Per questo è una promessa. Perché si intravedono opere in potenza di altissimo e indiscutibile livello. Ci mettesse più dialoghi e un'ambientazione più riconoscibile - mia opinione - costruisse un bel romanzo meditato e sfaccettato, ed ecco che ci troveremmo dinanzi ad un nuovo fulgido talento di portata nazionale. Questa è la promessa di questo libretto, di questa nuova brillante scrittrice. Ora speriamo solo che la mantenga.

Nino Fricano



Stessa misura, stesso peso, stesso nome

Antonino Giuffrida, Stessa misura, stesso peso, stesso nome. La Sicilia e il modello metrico decimale (secoli xvi-xix), Roma, Carocci, 2014, 172 pp. (Biblioteca di testi e studi, 941), ISBN 978-88-430-7381-8.

Non capita quasi mai di chiedersi nella vita di tutti i giorni da dove provengano o come siano nate le unità di misura, che noi utilizziamo quotidianamente in molte azioni comuni, senza nemmeno rendercene conto: fare la spesa («mi dia 3 etti di prosciutto»), comprare un abito di tagli 48, fare il pieno di benzina. Eppure il sistema metrico-decimale, che noi usiamo con la naturalezza di chi lo utilizza da sempre, non è stato sempre il sistema ponderale in uso in Europa e nel resto del mondo, sebbene esso sia in campo internazionale riconosciuto e adottato da quasi tutti i paesi con qualche eccezione (vedi per esempio il Regno Unito e gli Stati Uniti).
Prima dell'introduzione del sistema metrico-decimale, la quale fu favorita anche dalla sua scientificità (i progressi scientifici tra Seicento e Settecento sarebbero stati impensabili senza il sistema metrico-decimale), in Europa erano in uso sistemi ponderali "a misura d'uomo" (il piede, il palmo, il rotolo, la canna, ecc.), ma che di fatto erano sistemi di numeri complessi. Per spiegarci meglio: il palmo, unità di misura di lunghezza corrisponde a 12 oncie (sottomultiplo), mentre il miglio, multiplo del palmo, corrisponde a 5760 palmi, tralasciando però tutti gli altri multipli e sottomultipli.
I sistemi ponderali di antico regime sono particolarmente interessanti, perché possiedono una forte connotazione sociale e politica e sono misura dei rapporti «che intercorrono tra ceti e delle regole di funzionamento di un mercato». Per questo motivo le riforme di tali sistemi in età moderna indicano la «attivazione dei processi politico-istituzionali di transizione, che caratterizzano gli Stati di antico regime nella fase che porterà ai nuovi equilibri ottocenteschi» (p. 11).
In Stessa misura, stesso peso, stesso nome di Antonino Giuffrida, docente di storia moderna all'università di Palermo, oltre ad essere descritto il sistema ponderale siciliano di antico regime, si analizzano le vicende storico-istituzionali di due importanti riforme del sistema ponderale nel 1601 e nel 1809 avvenute nel regno di Sicilia, fino all'introduzione del sistema metrico-decimale con l'unità d'Italia.
La riforma del sistema ponderale siciliano che si realizza nel 1809, manifesta la volontà di fare ordine in un sistema caratterizzato da una pluralità di soggetti, che godono del favore della tradizione e del privilegio, e quindi di «imporre una sola misura in tutto il Regno», visto che ogni città vantava le sue varianti (ad esempio la "canna", unità di lunghezza se era palermitana equivaleva a m. 2,046142, se era di Messina era di m. 2,090274, mentre con la riforma del 1809 fu fissata a m. 2,06783), che è innanzitutto un tentativo di «consolidare la centralità dello Stato» (p. 12).
Il nuovo clima culturale e civile d'inizio Ottocento e i risultati della rivoluzione scientifica dei secoli precedenti rendono possibile una riforma del sistema ponderale siciliano. Il vero motore della riforma è l'astronomo Giuseppe Piazzi, che insieme ai professori Domenico Marabitti e Paolo Balsamo formano la Deputazione dei pesi e misure. È proprio il Piazzi, infatti, a escludere l'adozione del sistema metrico decimale, per elaborare una «razionalizzazione del sistema basato sui numeri complessi, e in particolare, sul 12, [...] eliminando tutte le varianti accumulatesi nel tempo» (p. 84). La riforma dell'astronomo Piazzi non è indolore e priva di conseguenze. A insorgere contro la riforma sono i Consigli civici e alcuni uffici, che si trovano privati d'un tratto da prerogative secolari. Critiche al nuovo sistema provengono anche dalla Giunta dei Presidenti e del Consultore. Tuttavia la riforma sopravvive, nonostante le difficoltà, sopravvenute dopo l'unione amministrativa del Regno di Sicilia e di Napoli, anche se tra le due parti del regno rimangono vigenti due sistemi differenti.
L'esperienza della Deputazione è importante per la storia siciliana, poiché segna la rottura con un sistema di misurazione inconciliabile la "grande trasformazione economica" che è in corso in Europa. Ciò è dimostrato anche dalla continuità non solo archivistica, ma anche amministrativa tra la Deputazione e la Giunta metri siciliana cui spetta il compito della conversione del sistema siciliano a quello metrico decimale esteso dal regno di Sardegna all'Italia unita.
Per i motivi sopra esposti il libro di Giuffrida è un utile e importante strumento per gli studiosi di storia siciliana e di metrologia.


Piero Canale



Boliviario

Gabriele Camelo, Boliviario. Delusioni e conquiste di un volontario, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2015, 244 pp. (Libroteca Paoline, 185), ISBN 978-88-315-3925-8.

Ci vuole coraggio per intraprendere un viaggio come volontario per la Bolivia e a lasciare la vita degli agi e delle cose date per scontate. Ci vuole coraggio ed anche un po’ d'incoscienza per farlo.
Da persona coraggiosa qual è, Gabriele Camelo - autore del Boliviario. Delusioni e conquiste di un volontario - e con un pizzico di incoscienza, ha deciso di mollare tutto e di vivere appieno l’esperienza del volontariato, non per riceverne qualcosa, piuttosto per donare qualcosa a chi sta indubbiamente peggio.
È durante questi lunghissimi mesi che Gabriele entrerà in contatto con gli uomini e le donne, i colori e i profumi, il tempo e la solitudine della Bolivia, che inevitabilmente lo plasmeranno.
Il Boliviario non nasce per essere pubblicato, ma sfogo personale, come ricerca di salvezza per un giovane, partito come volontario del VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo) e ritrovatosi di fronte alla solitudine e alla disperazione, non solamente dei bambini e dei giovani emarginati di cui ha dovuto prendersi cura, ma anche e soprattutto di fronte alla solitudine e alla disperazione personali.
I racconti che si susseguono, sotto forma di diario, sono una sorta di dialogo interiore, sono parole e sensazioni dettate da un flusso di emozioni personali, fissate come cura immediata e come memoria futura, affinché il giovane scrittore non dimentichi mai e possa rivivere quanto provato e vissuto.
Leggendo una pagina dopo l’altra, il lettore ha la sensazione di provare le medesime impressioni provate da Gabriele, poiché gioisce delle sue conquiste e si dispera delle sue sconfitte.
Una costante è il rifugio e il conforto che l’autore cerca e trova ogni volta nella Fede, che è una Fede pura, cristiana, senza secondi fini, semplicemente una forza superiore che lo ha sempre accompagnato e che gli ha permesso di completare questo difficile percorso, nonostante lo sconforto abbia più volte preso il sopravvento.
Gabriele farà degli incontri che modificheranno per sempre il suo modo di essere e di vedere la vita. Capirà come le piccole cose, date per ovvie in Italia, in Bolivia non esistono neppure, e di contro apprezzerà il valore e il peso di un abbraccio e di un sorriso di chi vive nella miseria.
A conclusione della sua esperienza, portata a termine non senza contrasti e liti, si renderà conto di avere dato veramente tanto e di avere ricevuto altrettanto, inaspettatamente.
Gabriele Camelo, l’autore, ha conseguito diverse lauree, indispensabili per la sua formazione personale e per il raggiungimento della sua attuale forma mentis. È laureato in Scienze della Comunicazione alla LUMSA, in Pedagogia della comunicazione mediale e in Psicologia presso l'UPS e in Scienze della Formazione primaria presso l’Università dell’Aquila. Ha conseguito un Master in Cinema Digitale e Produzione televisiva presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Milano.
È una mente in continua evoluzione, veloce e curiosa, come si evince anche dal suo scritto, in cui si fa menzione alla sua attività di giocoliere, camminatore sui trampoli, clown.
Ha anche lavorato come autore televisivo per la RAI. Attualmente è autore di reportage per il canale TV2000.
Inserito all’interno della collana Libroteca Paoline, di cui occupa la posizione 185, il Boliviario. Delusioni e conquiste di un volontario è un ottimo diario-documentario, dalla scrittura fluida e dal linguaggio ricercato, da leggere più volte anche a distanza di tempo, per cogliere ogni volta delle diverse sfumature. È una buona lettura anche per i momenti in cui ci si sente persi e abbandonati, da interpretare come rimedio per l’animo e per comprendere come ci sia in ognuno di noi una luce e una forza di volontà, che Gabriele chiama Fede, che ci guida e che ci dà conforto.


Agostina Passantino



Palermo di carta

Salvatore Ferlita, Palermo di Carta, Guida Letteraria della Città, Palermo, Palindromo, 2013, 136 pp., ISBN: 978-88-98447-04-6.

Pubblicato per la prima volta nel dicembre 2013, ristampata poi nel marzo 2015, Palermo di carta è un'utile e interessantissima Guida letteraria della città di Salvatore Ferlita, 41enne docente di letteratura contemporanea e critico letterario dell'edizione palermitana di Repubblica. L'autore si confronta con un fenomeno ampio e multiforme, quello del capoluogo siciliano raccontato in un modo o nell'altro dagli scrittori, e si scontra con le caratteristiche irriducibili di una città e di un consorzio umano che sono sempre state tremendamente affascinanti per i narratori, attraenti forse perché difficilissimi da raccontate, praticamente impossibili da spiegare e teorizzante. Ed è proprio sul filone presunta «inenarrabilità» di Palermo è proliferata - per paradosso ma mica tanto - una nutrita produzione letteraria che prova in un modo o nell'altro l'impresa impossibile. Già, perché - ho letto da qualche parte - i veri scrittori scrivono di ciò di cui sembra sia impossibile scrivere, usano le parole per raccontare ciò che non si riesce a spiegare a parole. E, pienamente cosciente di questa particolarità della sua ricerca, l'autore ci introduce «in una latitudine letteraria che metabolizza il grottesco e il caricaturale, ricorrendo a una cifra espressiva che ha conosciuto una certa fortuna e che forse è stata l’unica declinazione possibile di una palermitanità disperata e sconcertante. Da qui il tentativo (chissà se riuscito o meno) di chi scrive, nella veste improbabile di negromante ma forse anche di psicopompo (una sorta di Caronte in sedicesimi, s’intende), di richiamare in vita questa città sommersa, di svelarne le viscere, di traghettare il lettore verso queste fantasmatiche plaghe».
In allegato al libro c'è anche una mappa letteraria di Palermo che «rappresenta un utile strumento di supporto offerto ai lettori più curiosi, affinché possano avventurarsi e orientarsi in questa Palermo di carta. Mappa che non pretende di essere onnicomprensiva: essa indica semplicemente alcuni dei luoghi chiave dei romanzi e dei racconti approfonditi in queste pagine».
 Tutti gli scrittori e le opere di Palermo di carta. Si comincia con il noir, con le invenzioni linguistiche di Santo Piazzese e i gialli «eretici» di Gian Mauro Costa. Alla «stretta contemporaneità», cui l'autore comunque ritorna sempre, corrispondono le analisi delle opere di scrittori che hanno raccontato Palermo in varie fasi del Novecento e a volte anche dell'Ottocento. Così il secondo capitolo comincia e si conclude con Luigi Natoli, che pubblica la saga dei Beati Paoli a puntate sul Giornale di Sicilia tra il 1909 e il 1910 con lo pseudonimo di William Galt. Un'opera a lungo snobbata come romanzaccio popolare, poi riabilitata da Umberto Eco che firmò una celebre prefazione, e definita dall'autore: «Un’opera letteraria portentosa: non tanto per l’abilità dell’autore (indiscussa) nel gestire un plot complicato, ricco di digressioni, affollato di personaggi, quanto per l’intrico geniale di sfera religiosa e mondo politico: una ferale ragnatela, tramata con la pazienza del ragno». Il «colpo di genio» di Luigi Natoli sta «nell’aver sollevato il coperchio, diciamo così, della città: l’autore infatti ha dato forma a una Palermo parallela ma sotterranea, una città nascosta, fatta di cripte, grotte, luoghi oscuri, cunicoli tortuosi». E a questa «Palermo del sottosuolo», e questa poetica e questi umori della prosa di Natoli, vengono affiancate le esperienze letterarie più disparate: Enrico Onufrio, morto nel 1885 a soli 27 anni, cantore dell'orrido e del ributtante, colui che ha coniato l'espressione «il ventre della città»; e altri scrittori contemporanei, Angelo Fiore (Il Supplente, 1964), Fulvio Abbate (Zero maggio a Palermo, 1990), Domenico Conoscenti (La stanza dei lumini rossi, 1997), Giorgio Vasta (La vita materiale, 2008), Giosuè Calaciura (Malacarne, 1998; e Sgobbo, 2002) Giuseppe Schillaci (L'anno delle ceneri, 2010) che, ognuno a modo loro, hanno ricreato la Palermo piena di ombre e angoli nascosti di Natoli.
Il secondo capitolo è tutto all'insegna di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e soprattutto verso la fascinazione verso le macerie (metaforiche e non) dell'autore de Il Gattopardo. C'è Vincenzo Consolo (Lo Spasimo di Palermo, 1998), Davide Enia (Maggio '43, 2013; e Così in Terra, 2012), Michele Perriera (Atti del bradipo, 1998), Mario Giorgianni (La forma della sorte, 2012), Silvana La Spina (Morte a Palermo, 1978), Marcello Benfante (Cinopolis, 2006), Roberto Andò (Diario senza date o della delazione, 2008) e Davide Camarrone (Lorenza e il commissario, 2006). 
Il terzo capitolo Palermo all'avanguardia comincia con il racconto della cosiddetta «scuola di Palermo», espressione che imperversò durante gli anni '60 e riguardò un gruppo di nuovi scrittori che tentavano - come scrisse Alfredo Giuliani nel volume Feltrinelli che raccoglieva le loro opere - «di assumere il caos esteriore a modello interiore, fitto discutere insieme, sobbollire e schiumare il linguaggio per toglierne via moralismi, ideologie e spurie fatture di violenza». Sperimentali e visionari, influenzati dall'avanguardia e capaci di devastanti invenzioni linguistica sono Angelo Testa (Cinque, 1968; Perapprossimazione, 1978; Azzonzo, 2001) e Antonio Pizzuto (Si riparano bambole, 1960, Testamento, 1969) e i loro “eredi” Francesco Gambaro (Palermo-Civico-Palermo, 1999; I Giorni Quanti, 2002) e Sergio Toscano (Tempo residuo a Palermo; 1999, Diario Palermitano, 2003).
Il quarto capitolo, In una città demotica e picaresca, ci racconta della Palermo del colore, dell'avventura e dei toni espressionistici, con Roberto Alajmo (È stato il figlio, 2006; Le scarpe di Polifemo e altre storie siciliane, 1998), Nino Vetri (Lume Lume, 2010), Giuseppe Rizzo (L'invenzione di Palermo, 2010), Evelina Santangelo (Il giorno degli orsi volanti, 2005, Cose da Pazzi, 2012), Emma Dante (Via Castellana Bandiera, 2008), Piergiorgio Di Cara (Cammina stronzo. Sbirri a Palermo, 2000) Valentina Gebbia (Estate di San Martino, 2003; Per un crine di cavallo, 2005).


Nino Fricano



La memoria di Elvira

La memoria di Elvira, Palermo, Sellerio, 2015, 288 pp., (La memoria, 1000) ISBN - 88-389-3343-X.

Un racconto a più voci sulla figura di Elvira Sellerio. Il millesimo titolo della collana La memoria è dedicato alla "grande signora dei libri", grazie al contributo degli autori che raccontano di lei in questo volume.
La memoria è la celeberrima collana, nata nel 1979 da una sollecitazione di Leonardo Sciascia, al cui successo ha certamente contribuito l'elegante veste grafica ideata dal fotografo Enzo Sellerio, ma che probabilmente vede nelle intuizioni di Elvira Sellerio il principale motivo di una fortuna che sembra non avere fine. È una collana che raccoglie nuove idee: i gialli, che non sono più letteratura minore ma qualcosa di raffinato; i classici del mondo antico valorizzati e riportati alla luce; i resoconti della Conquista spagnola; i romanzi della Russia degli anni Ottanta; i pamphlet che hanno la forza del romanzo; i memoires. Scelte mai ovvie, spesso controcorrente, lontane dalle mode, che spesso si sono anzi imposti come modelli. Non a caso il numero uno della collana è Dalla parte degli infedeli di Leonardo Sciascia, un titolo che è già esso stesso un programma. 
Questo libro, il millesimo titolo, La memoria di Elvira, è un omaggio a Elvira Sellerio e da lei ispirato, ma non è un libro su Elvira Sellerio. Si narra, invece, del rapporto della "mitica Signora" con i numerosi autori della casa editrice.
Camilleri, Gimenez-Bartlett e tutti gli altri raccontano - in verità con molto garbo - il loro incontro con Elvira. Il risultato è apprezzabile; la figura della Sellerio rimane sullo sfondo quasi come una presenza impalpabile ma sempre gradevole, sempre stimolante. La si vede mentre accende le sue Benson; si apprezza il luccichio dei suoi occhi, quando intuisce il capolavoro che altri ignorano. Eppure bisogna dire che chi vuole saperne di più sulla vicenda editoriale della Sellerio deve cercare altrove. Infatti, come scrive Maria Attanasio (scrittrice e poetessa siciliana) «sottrarmi soprattutto al teatro dell'io, che parlando dell'altro, non sa tacere di sé»; e ancora Francesco Recami, l’autore di L’errore di Platini e Il correttore di Bozze, candidamente confessa: «In questo piccolo ricordo di Elvira Giogianni, devo scusarmi, ma parlerò più di me che di lei. È un errore tipico da scrittore...».
Non cade in questo vizio Adriano Sofri che, nel suo intervento, è prodigo di notizie sulla vita di Elvira, la sua infanzia, i suoi gusti, il suo lavoro: «Ebbe un’infanzia assestata di libri...», «Ci sono libri che aveva avuto da bambina e da ragazza. Quelli perduti li aveva ricomprati nel corso degli anni, e ricostruiva le collane predilette. Soprattutto La Scala D’Oro della UTET». Forse è Camilleri a chiarire chi era Elvira Sellerio: «Dei grandi editori leggendari, Arnoldo Mondadori in testa, Elvira possedeva il fiuto... È assai difficile da spiegare cosa sia il fiuto. È un dono naturale, come quello dei rabdomanti che sentono l’acqua sottoterra. Le bastava sfogliare le prime pagine di un dattiloscritto per sentire la presenza di un autore autentico». Un libro tributo che a tratti rischia di scadere nella retorica, ma che comunque vale la pena di leggere.
Infine, una nota personale. Quando tanti anni fa comprai il mio primo libretto della collana La memoria non avrei mai pensato che questi libri con la copertina blu, chiamati anche "i fiori blu di Elvira", avrebbero riempito gli scaffali della mia libreria. A tutt'oggi ho un centinaio di volumi di questa splendida collana, tutti quelli scritti da Sciascia, Camilleri, Alicia Gimenez Bartlett, Marco Malvaldi, Santo Piazzese e così via, proprio a sottolineare la fortuna di questa collana tra i lettori.
Quando mi trovavo a passare da Via Siracusa, a Palermo, non potevo fare a meno di dare uno sguardo a quel portoncino con l'insegna "Edizione Sellerio". Mi sarebbe molto piaciuto conoscere i protagonisti di questo miracolo palermitano. Una casa editrice nata e sviluppatasi nella nostra città che si misura con i colossi dell'editoria italiana. Ecco perché mi è sembrato naturale acquistare e leggere immediatamente La memoria di Elvira.
La raccolta si compone degli scritti di Luisa Adorno, Maria Attanasio, Attilio Brilli, Antonino Buttitta, Andrea Camilleri, Vincenzo Campo, Luciano Canfora, Francesco M. Cataluccio, Remo Ceserani, Masolino d’Amico, Gianfranco Dioguardi, Daria Galateria, Alicia Giménez-Bartlett, Maria José de Lancastre, Alessandra Lavagnino, Salvatore Silvano Nigro, Santo Piazzese, Gianni Puglisi, Francesco Recami, Giuseppe Scaraffia, Adriano Sofri, Sergio Valzania, Piero Violante.


Vincenzo Accurso



martedì 2 giugno 2015

Ást, l’isola sommersa

Sergio Cataldi, Ást, l’isola sommersa, illustrazioni di Mariarosaria Stigliano, Biella, Lineadaria, 2014, 26 pp., ill., ISBN 978-88-9786738-8.

Ást, l’isola sommersa è un vero e proprio inno all’Amore, quello con la A maiuscola, quello puro, spassionato, che sa attendere ed attende con fiducia, e non solo una fiaba da leggere ai più piccini
Sergio Cataldi, l’autore, ha reso con una dolce malinconia lo scorrere delle parole, come una flebile nenia che arriva ai cuori di grandi e bambini e che tocca i più alti sentimenti umani, come il coraggio, la solitudine, la tristezza, la felicità e, infine, l’Amore tanto atteso; un amore che si ha fede di attendere anche se non presente e visibile nell’immediato, un amore in cui si crede affidandosi all’ascolto di racconti ormai perduti nel tempo.
Sergio Cataldi è nato a Palermo ed è laureato in Filosofia; è un personaggio molto noto nel panorama palermitano, conosciuto come deejay e conduttore radiofonico. Questo è il suo terzo scritto, preceduto da un racconto breve, Amnésie Blanche, pubblicato nel 2008, ed un romanzo, A passi rapidi, nel 2010.
La scrittura del volume è quella densa e lapidaria dell’epica e della mitologia di un tempo. Non a caso i luoghi ed i nomi scelti sono quelli di una nordica ed incantata Islanda, isola che riporta alla memoria illustri dialoghi ed eroi norreni. Una foresta fatata, dove ormai tutti vivono metodicamente lo scorrere del tempo, tutti eccetto Bolinmædi, impavido protagonista che sfida Líf, la foresta buia, metafora dello sconforto e di ciò che l’uomo non conosce.
Proprio addentrandosi nell’intricata e scura foresta, Bolinmædi incontrerà una donna rimasta intrappolata a causa di un sortilegio. Quella donna è Hrædsla, la Paura.
Tutti i nomi scelti per la narrazione, sono nomi parlanti, e così Bolinmædi è la Pazienza, Líf la Vita, e ciascuno diventa personificazione ed allegoria del nome che porta.
L’incontro rappresenta la svolta nella vita di Bolinmædi, che finalmente ha uno scopo, che potrà raggiungere solamente assieme a Hrædsla, ossia quello di riuscire a vedere l’isola di Ást, un’isola leggendaria ed avvolta nel mistero. Solamente con la pazienza, infatti, la paura può essere superata per affrontare la vita, e raggiungere l’Amore vero, l’Ást in islandese.
L’intero volume rapisce il lettore in una lettura scorrevole ed onirica, ben articolata. Il testo è corredato dalle illustrazioni di Mariarosaria Stigliano, artista tarantina, che dopo avere conseguito una laurea in giurisprudenza, ne consegue una seconda in pittura. Ha preso parte a molteplici concorsi a premi, ed ha inoltre partecipato al programma di Raitre Art News.
Testo ed immagini si mescolano simbioticamente, e ciò che è descritto con le parole, trova il suo riscontro immediato nelle illustrazioni contenute, che sono dei veri e propri quadri parlanti.
Nella pagina finale è presente un glossario con la traduzione dei termini in islandese. Un volume tipograficamente ben redatto, dal formato originale che risulta graficamente gradevole.


Agostina Passantino



L'età definitiva

Giuseppe Schillaci, L'età definitiva, Bari, LiberAria, 2015, 310 pp., ISBN 88-970-8984-4

Questo romanzo qui - di Giuseppe Schillaci, palermitano di 38 anni che vive a Parigi dove fa il regista di documentari, già candidato al Premio Strega 2010 con il suo esordio “L'Anno delle ceneri” - questo romanzo qui è un grandissimo libro.
E non è un grandissimo libro perché è scritto benissimo, strutturato in brevi capitoli che si leggono tutti d'un fiato, perché ha una trama forte e costruita alla perfezione, una struttura orchestrata con tecnica magistrale, un filo unico condotto con una caparbietà e una padronanza di mezzi che rende possibili anche numerose digressioni e divertissement, monologhi surreali, aneddoti comici e grotteschi, immagini emblematiche e indimenticabili episodi estemporanei, scritti peraltro con una scintillante cura e gusto per il racconto. Non è un grandissimo libro per la sua qualità narrativa, che è di altissimo livello, un qualcosa di molto efficace e molto contemporaneo, niente a che vedere con il vecchiume immondo che copre come una patina di muffa gran parte delle pubblicazioni che riguardano la Sicilia. Non è questo.
L'età definitiva è un grandissimo libro per motivi di necessità storica, direi “generazionale”. E' un grandissimo libro perché riesce a trovare una formula per raccontare - chiamiamolo così - il “sottotesto psicologico” della Sicilia negli ultimi 20 anni. Lo straniamento, il grande silenzio, l'uscita dalla Storia. Tutto quel garbuglio di dinamiche culturali e psicosociali che hanno irretito l'Isola dopo i grandi botti di Palermo, le bombe che hanno spazzato via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e dopo quel corollario di bombe a Milano, Firenze e Roma che possiamo paragonare ai botti finali di un funesto gioco d'artificio. Deflagrazioni assordanti dopo di cui è seguito nient'altro che - ripetiamolo - un grande silenzio, accompagnato al limite da un fastidioso fischio nelle orecchie.
Vent'anni se possibile ancora più traumatici dei vent'anni precedenti. E' il “secondo tempo” della mafia e della storia della Sicilia (e dell'Italia), come l'ha chiamato Giuseppe Rizzo su Internazionale,[1] un secondo tempo in cui però quasi non si gioca. I giocatori latitano e rimane soltanto il pubblico, e anche quello è in procinto di andarsene perché ha trovato altro da fare, altre cose con cui ottundersi e distrarsi.
Così, se negli anni '70 e '80 in Sicilia - con i morti delle guerre di mafia, i cadaveri più o meno eccellenti, gli arresti, il maxiprocesso, i pericoli, le paure, gli orrori, la rabbia e la speranza - se in quel ventennio lì si percepiva in un modo o nell'altro di “essere nella storia”, di vivere un'epoca in cui qualcosa poteva cambiare - se in quei vent'anni lì c'era insomma un passato, un presente e un futuro - adesso si è come avvolti in una nebbia di eterno presente. Solleticati da mille stimoli, perennemente ipereccitati e nervosi ma in fondo profondamente immobili, intimamente desolati. La mafia ha vinto e continua a fare affari? Lo stato ha gettato la spugna? Che ne sarà della Sicilia? Ricoprirà stabilmente il ruolo di periferia depressa dell'Europa? Tutte domande di cui abbiamo sempre più paura di rispondere, raggelati come siamo dal nostro vivacchiamento economico, emigrazione di massa e scoramento civile.
Ma torniamo al libro. Come ci riesce, l'autore, a narrare tutto questo? Non con un romanzo storico, niente non fiction o thriller politico o opera classicamente “impegnata”. Niente di tutto questo. Non ci sono infatti né personaggi storici né eventi storici, in questo libro, se non sullo sfondo (come il botto, da lontano, dell'autobomba di Capaci, mentre i protagonisti giocano a pallone).
L'autore riesce - e non so quanto consapevolmente - a narrare tutto questo grazie a una storia quasi totalmente intima e privata, ambientata a Palermo, più esattamente a Brancaccio, nel 2011-2012. Il protagonista è Nico Chimenti, 33 anni, partito da Palermo dopo il fatidico 1992 quando aveva 14 anni. Uno che ha provato a fare il musicista a Berlino, che non ha avuto successo e che ora vivacchia lavorando in un bar di Roma. Uno che ha mollato ambizioni e speranze e che gestisce il deperimento delle sue energie con un'impassibilità solo apparentemente serena. Aggiorna il suo profilo sul Social Network (Real Net) e quando è un po' nervoso si rilassa collegandosi sul sito porno (Real Sex). Nico torna a Palermo per passare il capodanno con sua madre. Troverà un lavoro presso il centro commerciale “Area Center”, palesemente ispirato al “Forum Palermo”. Finirà coinvolto in un grottesco assalto di palermitani assatanati che vogliono accaparrarsi i televisori a prezzi scontatissimi (un episodio ispirato a fatti realmente accaduti almeno due volte, vedi qui e qui).
Incontrerà delle persone che hanno fatto parte della sua adolescenza e rivivrà i furori di quella stessa adolescenza. Chiaro il paragone con lo squallore dei suoi 33 anni, mentre prima la vita sembrava ancora procedere, non si era ancora nell'eterno presente, e ogni giorno splendeva di energia, tra la rock band, le partite di calcio e i primi - importanti e spesso crudeli - giochi sessuali.
La trama prenderà presto le movenze di un intrigante thriller, con personaggi che affiorano proprio da quell'adolescenza tanto decisiva: da un lato gli ex compagni di classe Simona e Salvo, procace e ambigua commessa la prima, intrallazzatore tutto macchinoni, feste e cocaina il secondo; dall'altro lato le figure del padre e del fratello gemello di Nico, custodi di agghiaccianti segreti che finiranno per travolgere il protagonista.
Il tutto in una Palermo di periferia e di borgata, in una Brancaccio area industriale sonnolenta e pittoresca dove Ferrari “color Ferrari” vengono parcheggiate vicino alle immancabili macchine bruciate e dove si ride per una motoape piena di frutta che si impenna e si ribalta una, due, tre volte. Una città in cui la globalizzazione è arrivata senza tanti clamori, con una passività e un'irredimibilità tutta siciliana, dove le vecchie logiche di potere proliferano ugualmente anche con i grandi centri commerciali, i centri scommesse, i cinema multisala e i ristoranti giapponesi.
Un grandissimo libro, ripetiamolo per l'ultima volta. Significativo e importante da molti punti di vista - come ho cercato di spiegare - ma anche fresco e godibile, alcune volte sfacciatamente spassoso. Come si può notare qui (pag. 98):

Mi ritrovo dentro la Bmw di Salvo verso Mondello, la spiaggia di Palermo. Arriviamo davanti a una villa liberty sul mare, sul pelo dell'acqua, coi pilastri che affondano dentro la sabbia. Il Charleston, così si chiama, è un complesso abusivo d'inizio secolo, più interessante dei complessi abusivi d'inizio millennio. Al Charleston c'è l'opening day del Trino Club, un'associazione-lista-movimento; ci sarà gente dello spettacolo, della cultura, russi e americani, baroni, avvocati e commercialisti, professori, artisti cattolici e scrittori ricchi, neo-borbonici e neo-democristiani, post-comunisti e post-autonomisti e, forse, i giocatori del Palermo.
È una giornata calda, a Mondello; una serata in cui hai l'impressione che l'Africa ti soffi sul collo; Salvo ferma la Bmw in doppia fila, lascia le chiavi al posteggiatore, che riverisce e intasca la mancia. (…) Seguo Salvo, che mostra l'invito alla sicurezza e avanza come se il Charleston fosse suo, la sua villa al mare.
Salvo Pennino sfoggia il suo repertorio di saluti: baciamano semplice, doppio bacio lento e appassionato, bacio rapido e sguardo altrove, mano allungata di lato (quasi di nascosto), abbraccio da rugby, stretta di mano possente, strizzata al sedere o alle guance, baciamano mezzo inchino e giravolta. (…)
All'improvviso la musica (dozzinale swing anni Cinquanta) s'abbassa e un uomo parla al microfono: ringrazia tutti, fa molti nomi, cariche istituzionali, siciliane e di Roma, di Milano, e poi attori, cantanti, i giocatori del Palermo, anche se nessuno li ha visti.
Avvocati imbellettati e relative accompagnatrici sfilano davanti all'uomo col microfono, e l'uomo sorride, ringrazia, e parla del futuro della Sicilia, dell'Italia e dell'Europa, delle amicizie internazionali, degli accordi già fatti e di quelli da fare. Poi promette una sorpresa finale e l'euforia spumeggia tra lo folla: chi sarà? Il presidente, il candidato, il delfino, l'ammiraglio?
Ecco la sorpresa, urla l'uomo-presentatore, a voi, per noi, per il Trino Club, per la nostra terra nel mondo: Totò Schillaci, l'eroe di Italia '90!

Nino Fricano









[1] Giuseppe Rizzo, La Sicilia è una guerra in due atti, http://www.internazionale.it/opinione/giuseppe-rizzo/2015/04/03/sicilia-mafia-antimafia (ultimo accesso: 02/06/2015).

Vite in cambio

Santino Gallorini, Vite in cambio. Gianni Mineo, il partigiano infiltrato che salvò dalla strage la popolazione della Chiassa, presentazione di Ivo Biagianti, Roma, Edizioni Effigi, 2014, ill., 201 pp., ISBN 978-88-6433-434-9.

Siamo tanto assuefatti al cinema e alle storie inverosimili, coscienti della finzione, ma avidi di spettacolarità, che, a leggere il libro di Santino Gallorini sulle gesta eroiche di Gianni Mineo, rimaniamo indifferenti, convinti di una finzione, delusi per i contenuti effetti speciali.
Siamo tanto avvelenati dalla deriva (s)fascista, dal berlusconismo mediatico (che è ormai tratto distintivo della cultura italiana) e da un'indifferenza (e anche un odio) verso l'Italia, la sua storia e gli uomini che l'hanno fatta, a tal punto da ritenere ogni storia, ogni racconto, ogni testimonianza, ogni esperienza una prova di una malafede, di una menzogna a uso e consumo dell'interesse di qualcuno.
Per questi motivi non siamo abituati alle storie come quella di Gianni Mineo, partigiano bagherese diventato "eroe della Chiassa" per aver salvato 200 persone a pochi minuti dalla fucilazione che i tedeschi avevano ordinato come rappresaglia al rapimento, da parte di una banda di slavi evasi dopo l'8 settembre dal campo di concentramento di Renicci (Anghiari), del colonnello Maximilian von Gablenz.
Non siamo abituati alla storia, confermata dalle fonti e dalle testimonianze di chi era presente e di chi visse tragicamente quei momenti di qualcuno che mette a rischio la propria vita per salvare quella di altri.
Siamo così negletti e meschini che ci voltiamo quando vediamo la "banalità" di una buona azione. Siamo così sporchi e coinvolti nella politica del "tutto oggi che domani non si sa", che ci piace denigrare chi ha fatto una scelta, chi ha deciso da parte stare usando la coscienza e non il mero profitto.
La storia della Resistenza e dei partigiani è prima di tutto storia di donne e di uomini, che hanno fatto una scelta, una scelta precisa: da quale parte stare. La parte di chi vuole lottare per cacciare i tedeschi che hanno invaso la penisola e liberare l'Italia, ma soprattutto per terminare una guerra incomprensibile, ingiusta, assurda, folle.
Santino Gallorini, con metodo storico e intuito di cacciatore di tracce, ricostruisce attraverso le fonti d'archivio, le testimonianze dei sopravvissuti e le memorie lasciate da Gianni Mineo, un capitolo della Resistenza, che insieme con le altre pagine di storia di quei tragici anni '40, contribuisce a rendere più chiara la storia italiana e chi sono gli italiani, che hanno permesso un riscatto democratico di una nazione stuprata dalla dittatura fascista.
Il merito di Santino Gallorini è di aver reso questo libro importante sotto molti aspetti, di cui due ritengo essere essenziali. Inutile ribadire poi il contributo che questo libro dà alla storia di Arezzo e della Toscana, e nello stesso tempo alla storia della Resistenza, e in particolare del contributo dei siciliani alla liberazione dal nazifascismo.
Il primo aspetto importante di questo libro è stato quello di raccogliere e far venire alla luce la bella vicenda di Gianni Mineo, altrimenti dimenticata «nelle pagine di un libro sfascicolato sul marciapiede presso la stazione di Arezzo». Una vicenda che Franco Ciminato, responsabile dell'ANPI di Bagheria descrive come «una storia dei paladini di Francia uscita da una pala dei Fratelli Ducato, Mineo con il suo inseparabile cavallo bianco, sembra la materializzazione di quei personaggi, nato in una Bagheria mitica che, Ignazio Buttitta altro partigiano e poeta, ci ha cantato insieme a Ciccio Busacca, o che Renato Guttuso ci ha dipinto nella serie dedicata alla resistenza per l'appunto, sembra un ritratto uscito da una foto e narrata in quel capolavoro che è Quelli di Bagheria di Ferdinando Scianna. Sembra una parte mancante nel film Baaria, o uno spezzone proiettato dentro il film Nuovo Cinema Paradiso di Peppuccio Tornatore».
 Il secondo aspetto importante è l'attenzione rivolta ai vivi, i 200 salvati dall'eroe bagherese e agli stessi Mineo e Rosario Montedoro, che dopo la guerra tornarono ad essere cittadini e lavoratori, e non ai morti, superando in questo modo un'assurda contrapposizione di natura ideologica, che si riduce miseramente alla conta dei morti di una parte e dell'altra per vedere chi ha ragione.
Questo libro fa bene all'anima, poiché dà la possibilità di ritrovare una dimensione umana dell'impegno e del sacrificio per gli altri, che la frenesia politica e tecnologica di questi ultimi anni inesorabilmente corrode.


Piero Canale



L'eroe di Paternò

Paolo Pintacuda, L'eroe di Paternò, Palermo, Il Palindromo, 2015, 224 pp., (Kalispera), ISBN 978-88-98447-14-5.

Siamo nel settembre 1866 e due uomini si cimentano in un faticoso viaggio a cavallo per la Sicilia, da est a ovest, inoltrandosi nel ventre di una natura selvaggia, feroce - tutta rocce aguzze, spine e rovi - lungo plaghe desolate che si estendono per chilometri senza alcun segno di vita, sotto un sole bruciante che confonde le menti e macchia i cappelli di sudore. Uno dei due è Vito Leone, ex soldato della Guardia Nazionale, siciliano che ha combattuto in Sicilia, spesso contro altri siciliani, per conto del neonato Regno D'Italia. L'altro è Angelo Botta, brigante della sanguinosa “banda delle montagne”, dai vaghi ideali autonomistici e anti-piemontesi. Uno è duro e taciturno, l'altro è sbruffone e parla di continuo. Uno è in catene, l'altro no. I due sono legati da un tragico antefatto e attorno ai due si dipanano storie di amori e tradimenti, passioni e cinismo. Dall'esito del loro viaggio, da est a ovest della Sicilia, dipende la vita o la morte della bella Virginia, figlia di un aristocratico in bancarotta. Sullo sfondo - ma lo sfondo a volte può diventare un personaggio perfino più importante degli altri – sullo sfondo una Sicilia dalla bellezza spaventosa, dai paesaggi sconfinati e quasi astratti, nel bel mezzo di un periodo storico tra i più sanguinosi e controversi della storia contemporanea.
Con una trama semplice e solida, personaggi forti e narrazione agile e brillante, il romanzo “L'Eroe di Paternò” di Paolo Pintacuda (Ed. Il Palindromo) scandaglia umori, dinamiche e atmosfere del periodo post-unitario in Sicilia. L'autore, 41 anni, di Bagheria, è uno sceneggiatore che nel 2010 ha vinto il prestigioso premio Solinas,  quello che ha lanciato, per dire, il talento di Paolo Sorrentino e che ha regalato al cinema italiano perle come Parenti Serpenti, I Cento Passi e Marrakech Express. Pintacuda, da par suo,  è uno che il cinema ce l'ha sempre avuto nel sangue e nel destino: suo padre è infatti quel Mimmo Pintacuda, fotografo e proiezionista, che ispirò Tornatore per il personaggio di Alfredo in Nuovo Cinema Paradiso.
Tanto cinema, si, e ora pure questo romanzo. Il suo primo romanzo, che è insieme cinema e letteratura. Parole-immagini per raccontare una Sicilia eterna e contingente, la Sicilia maledetta e irredimibile di sempre ma anche la Sicilia del 1866, quella dell'esplosione del brigantaggio, della renitenza di massa alla leva obbligatoria, delle rivolte popolari più o meno organizzate e delle feroci repressioni del neonato Stato Italiano. Un romanzo storico che prende dichiaratamente a piene mani dall'immaginario Western, rileggendone i cliché attraverso un'Isola che si presta benissimo al suo ruolo di territorio di frontiera, mondo inesplorato, teatro di sperimentazioni politico-sociali e di furori e movenze ancestrali.
L'ultimo - stupendo - capitolo è ambientato durante le fasi finali della celebre “rivolta del sette e mezzo” di Palermo, l'insurrezione armata durata appunto sette giorni e mezzo (16-22 settembre 1866) che coinvolse il capoluogo e buona parte della provincia. Quando, per fermare gli oltre 14mila insorti che si erano impadroniti della città, il governo sabaudo decise per lo stato d'assedio, mandò le truppe - guidate da Raffaele Cadorna - e ordinò ai soldati di sparare sulla folla con i fucili e con i cannoni. Un massacro. Uno degli eventi più traumatici che la Sicilia ricordi. E Palermo che si fece rappresentazione plastica e orrorifica di contraddizioni storiche inestricabili. Quadri di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II sfregiati, buttati per strada e calpestati da tutti, carabinieri linciati dalla folla, decapitati da boia improvvisati, scaraventati giù dalle mura della città, appesi a ganci da macellaio, impiccati ai lampioni come monito e come trofeo. E soprattutto tanti, tantissimi morti sulla strada, “gente armata solo di panni rossi attaccati ai bastoni, effigi di Santa Rosalia e qualcuno persino di una bandiera americana con le trentaquattro stelle sull’angolo” ci racconta l'autore con le sue ennesime azzeccatissime parole-immagini.

Nino Fricano






Stampa, censura e opinione pubblica in età moderna

Sandro Landi, Stampa, censura e opinione pubblica in età moderna, Bologna, Il Mulino, 2011, 160 pp. (Universale Paperbacks il Mulino, 609), ISBN 9788815233912.

Il volume s'inserisce nell'ampio dibattito storiografico degli ultimi anni sulla stampa, la censura e l'opinione pubblica. Sandro Landi propone una «sintesi problematica» dei fenomeni in questione, ritenuti «costitutivi del mondo moderno» (p. 7), ripercorrendo una vasta letteratura e dando largo spazio agli orientamenti della ricerca storica recente.[1]
I tre oggetti del libro - la stampa, la censura e l'opinione pubblica - mostrano prospettive nuove e intercorrelate, man mano che gli studi di storia del libro affinano i propri strumenti di analisi e d'interpretazione. I risultati evidenti sono, infatti, fitte correlazioni tra i tre ambiti di ricerca.
Il primo capitolo, La rivoluzione della stampa (pp. 11-25), è dedicato all'invenzione della stampa a caratteri mobili, che la storiografia tradizionale ha sempre identificato come uno dei presupposti della modernità e dei progressi sociali e scientifici, e che, alla luce di nuovi studi, nella lettura di Landi è ridimensionata nel suo presunto «carattere rivoluzionario» (p. 11). Essa sarebbe, infatti, non tanto l'innovazione tecnica che rende possibile un «mondo nuovo» (p. 14), bensì una «invenzione che emerge in un contesto che è di profondo mutamento dello spazio del pensabile e del possibile» (p. 14).
Il secondo capitolo, Tra continuità e mutamenti (pp. 27-48), evidenzia l'evoluzione della stampa nel corso del suo primo cinquantennio di vita, individuandone le «caratteristiche materiali inconfondibili» (p. 27), che emancipano il libro dal manoscritto, ed altri aspetti inerenti alla diffusione della stampa e della lettura, come «il predominio delle lingue volgari sul latino» (p. 27). Gli studi più recenti hanno messo in luce le caratteristiche strutturali delle grandi stamperie, le quali ricorrono a «una ripartizione sempre più efficace del processo di composizione della pagina e dunque la divisione del lavoro determina un incremento delle capacità produttive che è senza paragone con i secoli precedenti» (p. 29). La ricognizione di Landi non si limita solo alle stamperie, ma si allarga anche a tutti quei «mestieri del libro» (p. 28), come i librai e gli ambulanti che li vendono, gli autori e gli editori. È interessante notare come «le trasformazioni che interessano il processo produttivo e l'economia del libro corrispondano a un significativo mutamento del ruolo [...] dell'editore e dell'autore» (p. 31).
Il libro di Landi si addentra però anche in altri «territori» (p. 49) della comunicazione, come l'oralità e il manoscritto. La comunicazione in età moderna è un «sistema in cui scrittura a stampa, manoscritto e oralità coesistono e interagiscono» (p. 51). L'oralità, che «si manifesta nel lato più quotidiano dell'attività [umana]» (p. 53), presenta il suo «carattere prioritario e insostituibile» (p. 53) e apre a nuovi oggetti potenziali di ricerca e all'affinamento degli strumenti storici per agire sulle fonti orali e sulle fonti per l'oralità. La pubblicazione manoscritta, invece, mantiene in tutta l'età moderna, un ruolo importante, seppure sia incontestabile il predominio progressivo della pubblicazione a stampa.
Il quarto capitolo del volume, Le logiche della censura (pp. 71-98), è dedicato all'evoluzione della censura e alle sue conseguenze culturali e sociali. La censura in età moderna non è limitata alla stampa e alla lettura, ma comprende tutta una serie di «pratiche istituzionali e culturali che [...] hanno limitato ma, nello stesso tempo, determinato le condizioni di esistenza pubblica della comunicazione a stampa» (p. 73). Il capitolo è dedicato ampiamente ai fenomeni della censura preventiva e della censura repressiva. La censura preventiva è una forma di esame del manoscritto da parte di «revisori designati da autorità civili o religiose» (p. 77). Spesso essa è il risultato di «soluzioni istituzionali o compromessi di fatto» (p. 79) tra le autorità ecclesiastiche e la sovranità di principi e repubbliche in specie di area cattolica. Studi recenti sul fenomeno hanno evidenziato l'esistenza di un regime speciale di clandestinità, spesso tacitamente consentita dall'autorità civile. In ogni caso il rapporto tra censura e cultura è dinamico e complesso e merita di essere studiato e approfondito.
L'ultimo capitolo del volume, L'opinione pubblica in età moderna: discorsi, pratiche, rappresentazioni (pp. 99-132), è dedicato al processo di formazione di un'opinione pubblica in Europa. Un processo che, non a caso, viene fuori in tutta la sua importanza dopo le riflessioni che l'autore ha fatto sulla stampa e sulla censura; si parte dal modello di opinione pubblica teorizzato da Habermas, secondo il quale l'abolizione della censura preventiva è condizione necessaria per la nascita dell'opinione pubblica in Europa. In questo processo la stampa svolge un ruolo essenziale. In paesi come l'Inghilterra, la Germania e la Francia emerge nel XVIII secolo una «sfera pubblica borghese» (p. 99), la quale - sempre secondo Habermas - abbandona il suo status di titolarità di razionalità, autonomia e critica nei confronti dello Stato per cedere alla pubblicità, al conformismo e alla massificazione. Gli studi recenti hanno messo in luce però come sia «improprio affermare che l'opinione pubblica [come categoria del discorso politico] esista solo a partire da questo periodo, perché l'accezione settecentesca di opinione evoca e condensa un insieme di significati anteriori e discordanti» (p. 103).  La seconda metà del Settecento è il momento in cui si afferma, prima in Francia e poi nel resto d'Europa, il «sintagma 'opinione pubblica'» (p. 109). Gli studi recenti sull'opinione pubblica sono ormai rivolti a «comprendere le condizioni che hanno reso possibile l'avvento di un 'pubblico' inteso come soggetto razionale titolare di diritti politici» (p. 109). Non si deve però ridurre all'idea settecentesca di "opinione pubblica" ogni categoria del discorso politico, poiché l'esistenza di un pubblico che s'interessa e discute di politica preesiste alle forme classiche della società borghese e non per forza coincide con il pubblico dei lettori. L'opinione pubblica è, quindi, espressione del processo di pubblicizzazione del potere. Proprio le ultime pagine del libro sono dedicate all'opinione pubblica. Essa è «concepita come il risultato del libero corso delle divergenze e delle dissidenze, secondo il modello inglese» (p. 132), ma anche come «il segno arcaico di un loro superamento e integrazione in un'opinione collettiva, organica e finalmente unanime» (p. 132). Questa dicotomia è «costitutiva della sfera pubblica moderna» (p. 132).
Il libro, capace di una ricostruzione tematica ampia e rigorosa, a mio parere non trae conclusioni, bensì esorta a continuare e approfondire lo studio sui fenomeni studiati, dopo avere più volte sostenuto come la storiografia sia orientata su nuove frontiere di ricerca. Il volume è corredato da Riferimenti bibliografici (pp. 135-154) e da un Indice dei nomi (pp. 157-160).

Piero Canale



[1] Sandro Landi insegna Storia moderna nell'Università «Michel de Montaigne» di Bordeaux. È autore di numerosi studi tra cui Il governo delle opinioni. Censura e formazione del consenso nella Toscana del Settecento, Bologna, Il Mulino, 2010; Naissance de l'opinion publique dans l'Italie moderne: sagesse du peuple et savoir de gouvernement de Machiavel aux Lumières, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2006; Note sul consumo di storia nella Toscana del Settecento, in La pratica della storia in Toscana. Continuità e mutamenti tra la fine del '400 e la fine del '700, a cura di E. Fasano-Guarini e F. Angiolini, Milano, Franco Angeli, 2009, pp. 169-190; Governare i popoli: la dimensione politica dell'opinione, in Firenze e la Toscana. Genesi e trasformazioni di uno stato (XIV-XIX secolo), a cura di J. Boutier, S. Landi e O. Rouchon, Firenze, Mandragora, 2010, pp. 273-288.