William Friedkin, Il buio e la luce. La mia vita e i miei film,
Milano, Bompiani, 2013, 558 pp., ISBN 9788845274442.
"Mi vuoi bene? Ti fidi di me?" - due domande che William
Friedkin ha rivolto più volte a quegli attori che lo deludevano ciak dopo ciak.
Esaurita la pazienza, Friedkin li chiamava, rivolgendo loro i due quesiti.
Quelli che rispondevano positivamente venivano subito portati nella condizione
artistica richiesta dal regista. Come faceva a convincerli in una manciata di
secondi? Semplice: con un ceffone del tutto inaspettato. Uno schiaffo che li
riportava indietro nel tempo, tirando fuori prima la vulnerabilità e poi la
forza e riuscendo a finalmente a metterli "a fuoco".
I registi degli anni Settanta... non ce ne sono più così. Sono stati loro
gli ultimi grandi autori selvaggi. Quelli pronti a sporcarsi le mani e
combattere ogni battaglia contro nemici o anche amici, perfino disposti a
uscire un po' di testa. Tutto pur di beneficiare la loro creazione. Bastano le
prime venti pagine per capire che Il buio
e la luce - autobiografia di William Friedkin - è uno dei libri dell'anno.
Cinquecento pagine di puro piacere narrativo: la descrizione dell'ultimo
periodo coraggioso del cinema made in USA,
quello dal retrogusto amaro che fu oscurato poco dopo con l'arrivo dei
sognatori hollywoodiani.
L'inizio della fine, è questo che il settantottenne Friedkin racconta,
invitando il lettore alla scoperta del suo ego smisurato, quello di una persona
tutt'altro che semplice, un uomo in grado di essere disgustoso e un minuto dopo
adorabile. E viceversa. Uno che ha cominciato la sua carriera con un
documentario che ha inchiodato l'opinione pubblica, salvando la vita a un
condannato a morte per mancanza di prove schiaccianti. E che trent'anni dopo
non ha avuto paura di affermare il suo supporto verso la pena capitale. Lo
stesso uomo che ha diretto alcuni dei film più memorabili della storia del
cinema: dal poliziotto fascistoide de Il
braccio violento della legge (che trionfò agli Oscar) alla bambina
posseduta la cui testa è in grado di ruotare a 360 gradi nel film più
terrificante della storia del cinema.
Sono proprio i capitoli dedicati a L'esorcista
la parte culminante del libro. L'amore a prima lettura del romanzo di William
Peter Blatty e il successivo rapporto scontroso con quest'ultimo. La
manipolazione dei produttori hollywoodiani con scenate estreme, e la profonda
convinzione che non si tratti di un film horror sovrannaturale. Piuttosto una
riflessione sull'esistenza del male.
Le chicche non mancano: dal primo provino con una Linda Blair più avanti
mentalmente rispetto alla giovanissima età, ai dubbi artistici di Max Von
Sydow, totalmente nel pallone prima di girare la scena madre. Peccato che
Friedkin non menzioni i colpi di pistola sparati in aria sul set, allo scopo di
terrorizzare gli attori all'improvviso. Forse è questo l'unico rammarico del
libro, che il regista da una parte si avventuri verso la luce del titolo
italiano, quella della determinazione e ossessione che lo hanno portato al suo
status di grande autore, peccato però che a volte tralasci aspetti il
"buio" della sua persona. Per fortuna questo non succede troppo.
Se al braccio violento della legge e all'esorcista sono dedicati la
maggior parte dei capitoli, è forse la parte su Il salario della paura la più interessante. Quella scritta con più
sofferenza, perché si tratta del film a cui tiene di più, lo stesso che gli
rovinò la carriera. Quel remake di Vite Vendute di Clouzot. che scelse di
dirigere all'indomani dell'esorcista - l'epoca in cui Friedkin aveva in pugno
l'intera industria cinematografica statunitense - e che fu marchiato dalla
critica come noioso e superficiale Lo sforzo creativo era stato enorme, ma
bastarono un paio di righe su un quotidiano a calare la ghigliottina. Era la
fine di un'epoca. Era arrivato Star Wars
e il cinema non sarebbe più stato lo stesso: invece che avventurarsi ed
esplorare l'oscurità, si mise a sognare con Spielberg e gli altri.
Friedkin non è certo un sognatore, piuttosto uno che con la sua macchina
da presa riesce a portare avanti un discorso sull'esplorazione dell'identità
filmando il punto in cui l'uomo può spingersi concretizzando i propri incubi.
Ne vorremmo sapere molto di più, ma è inevitabile che il regista abbia dovuto
fare delle scelte editoriali e ridurre a poche pagine i racconti sui suoi film
"minori" – che poi minori non sono - (tra tutti Basta vincere o Cruising).
Oltre cinquecento pagine che inchiodano gli amanti del cinema e portano a
termine lo scopo ultimo di questo viaggio letterario: andare al più presto a
recuperare i suoi film perduti o riscoprire e re-innamorarci di quelli che
conosciamo già.
Pierpaolo Festa
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