Emanuele Felice,
Perché il Sud è rimasto indietro, Bologna, Il Mulino, 2013, 258 pp.,
(Contemporanea, 233), ISBN 978-88-15-24792-6.
Leggere il libro di Emanuele Felice mi fa
tirare un sospiro di sollievo. Da qualche tempo mi chiedevo, dove fossero
finiti gli storici, in un momento in cui la storia è stata ridotta a variante
per libro da classifica e scritturata per recitare la parte nella compiaciuta
pantomima del talk-show bipartisan.
È bene ricordare che la storia non è esito
di una verità rivelata, ma il frutto di una dura ricerca condotta con rigorosa
metodologia sulle fonti (siano esse documentarie, archeologico-materiali e/o
orali) e non frutto della doxa e del
sentimento.
Emanuele Felice, docente di storia
economica presso l'Università Autonoma di Barcellona - ma anche uno di quei
"cervelli" fuggiti dal Meridione -, ci dimostra in questo bel libro,
come si faccia un buon libro di storia, soprattutto in un momento in cui titoli
suggestivi e improbabili, sedicenti narratori e «tesi pseudorevisioniste (il
vero revisionismo è insito in ogni ricerca storica) che finiscono per
capovolgere la realtà» [p. 7], pretendono di raccontarci la "verità"
sul sud Italia e sull'unità d'Italia.
Il libro di Felice analizza, a partire da
fonti e dati economici certi - non «inattaccabili (nessuna stima storica lo è
per definizione)» [p. 8], ma tutti inseriti in note e citati (prova della
serietà con cui è stata condotta la ricerca, non solo perché consente al
lettore di verificare i dati, ma anche di constatare il lavoro che sta dietro
la realizzazione di una ricerca storica) -, il motivo per cui il Sud è
rimasto indietro.
È bene dire che questo non è un libro pro
unità d'Italia o contro il Regno delle Due Sicilie. La storia non accerta chi
ha ragione o chi ha torto (non è pertanto pro o contro qualcuno o qualcosa), ma
cerca di comprendere e spiegare le ragioni economiche, politiche e sociali, al
fine di aiutarci a essere migliori interpreti del presente.
Il libro si divide in tre capitoli e
procede sulle analisi della situazione del Sud Italia a partire dalla prima
metà dell'Ottocento, ossia prima dell'unità d'Italia, fino a oggi.
Grazie a una robusta bibliografia
scientifica e a una corposa quantità di dati, tutti rigorosamente citati nel
primo capitolo, Il divario all'Unità [pp. 17-90], emerge nel 1859 una
situazione di divario di partenza del
Regno delle Due Sicilie e dello Stato Pontificio rispetto agli stati del Nord.
Un divario che è evidente e significativo, se si prendono in considerazione i
dati sulle infrastrutture (ferrovie, strade, porti), sull'istruzione,
sull'occupazione e sulle condizioni sociali. L'esempio classico è quello delle
ferrovie. Vero è che la prima ferrovia italiana fu costruita nel 1839 nel Regno
delle Due Sicilie (la famosa Napoli-Portici di ben 7 km), ma è vero anche che
nel 1859 nell'intero Meridione (compresa la Sicilia, dove non vi erano strade
ferrate) i km di ferrovie sono solo 99, contro gli 850 del Piemonte e Liguria,
i 522 della Lombardia e Veneto e i 257 della Toscana. [pp. 21-22]
Nel secondo capitolo, La modernizzazione
passiva: il divario dell'Unità a oggi [pp. 91-180], lo storico ragiona sul
perché il Sud sia rimasto indietro rispetto al Centro-Nord, esaminando i dati
dal 1871 a oggi. Un periodo lungo e non omogeneo, ma che in ogni suo momento è
significativo. L'Italia liberale fa spazio all'Italia fascista (quella del
massimo divario tra Nord e Sud), l'Italia del boom economico fa largo ai
decenni di decrescita (fino alla crisi odierna) che corrisponde anche con il
fallimento dell'industrializzazione passiva, attraverso l'intervento dello
Stato.
Dati che dimostrano un tentativo di convergenza
Nord-Sud, ma che risulta assai fragile quando si consuma il rallentamento della
crescita economica nazionale, tale da determinare un nuovo aprirsi della
forbice. Non sono risparmiate pagine, sia nel primo sia nel secondo capitolo,
alle organizzazioni criminali (mafia, camorra e 'ndrangheta) e sul ruolo attivo
nel ritardo strutturale del Meridione, una piaga che l'Italia eredita dal Regno
delle Due Sicilie.
Il terzo capitolo, che dà il titolo al
libro [pp. 181-237], invita a riflettere su quelle tesi assolutorie nei
confronti del Mezzogiorno e dei Meridionali e accusatorie verso tutto quello
che viene dall'esterno o, che non è direttamente identificabile con il marchio
"Made in Sud". L'invito dello storico è, infatti, quello di critici
con il proprio passato, poiché è l'uomo a essere «padrone della sua storia» [p.
181].
Non sfruttato, non colonia, non inferiore,
ma Meridione artefice del proprio destino e vittima di se stesso e delle
proprie classi dirigenti, poiché non bisogna dimenticare il ruolo della
politica all'interno del quadro di analisi. Importante per questo diventa fondamentale
la differenza tra «istituzioni politiche ed economiche di tipo 'estrattivo'» e
«di tipo 'inclusivo'» ben spiegata nel primo paragrafo, La modernizzazione [pp. 92-100], del secondo capitolo.
Nelle conclusioni il futuro è a un bivio: «proseguire
lungo lo stesso cammino che è stato percorso negli ultimi quarant'anni: senza
cambiare nulla, attendere una manna che si fa sempre più rada; nel frattempo continuare
a scivolare indietro, lentamente ma inesorabilmente, in pressoché tutti gli
indicatori della modernità, rispetto agli altri paesi avanzati. È la
prospettiva più probabile, anche se non obbligata. Ed è probabile anche perché
alle ragioni già dette occorre aggiungerne un'altra: i cittadini meridionali
hanno una libertà (e una concreta possibilità) che agli altri abitanti delle
periferie del mondo non è data, almeno non nella stessa misura: la libertà di
emigrare. [...] La seconda strada è quella del riscatto. Ovvero rifondare la
vita civile e le istituzioni così da renderle inclusive, avviando in questo
modo un autonomo processo di modernizzazione attiva; una modernizzazione che
forse aiuterebbe l'Italia tutta a uscire dalle secche in cui è finita. A chi
scrive questa strada appare più difficile, ma non impossibile» [pp. 240-241].
Le ultime righe sono dedicate a Gaetano
Filangieri, emblema di un riscatto mancato, perché naufragato nell'immobilismo
della politica borbonica, ma lungimirante e lucido nelle idee.
Libro che va letto, che gli insegnanti
dovrebbero leggere e spiegare agli studenti, affinché le nuove generazioni
comprendano sin da subito i problemi del proprio territorio e riflettano sul
destino del Sud e dell'Italia, poiché solo se consapevoli potranno essere
quella via del riscatto e della speranza.
Piero Canale
Per approfondire la questione consiglio la
lettura di A. Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia
della congiura di Fenestrelle, Roma-Bari, Laterza, 2014; P. Bevilacqua, Breve storia dell'Italia meridionale dall'Ottocento a oggi, Roma,
Donzelli, 2005; Giampaolo
D’Andrea-Francesco Giasi (a cura di), Luigi
Sturzo-Antonio Gramsci. Il Mezzogiorno e l’Italia, Roma, Edizioni Studium,
2012; R. De Lorenzo, Borbonia Felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo,
Roma, Salerno, 2013; S. Lupo, L'unificazione italiana. Mezzogiorno,
rivoluzione, guerra civile, Roma, Donzelli, 2011; Id., Storia della
mafia dalle origini ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 2004; L. Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Roma, Donzelli, 2007; Id., La
Sicilia e l'unificazione italiana. Politica liberale e politica locale
1815-1866, Torino, Einaudi, 2004; A. Spagnoletti,
Storia del Regno delle Due Sicilie,
Bologna, Il Mulino, 2004; C. Triglia,
Non c'è Sud senza Nord. Perché la crescita dell'Italia si decide nel
Mezzogiorno, Bologna, Il Mulino, 2012.
Il mio punto di vista e' sicuramente opinabile,ma una delle cause dell'arretratezza del sud puo' essere messa in relazione all'assenza di una classe borghese imprenditoriale che indicasse la via dello sviluppo e in molti casi se ne facesse carico.Dai nobili con scarse capacita' imprenditoriali che fondavano la loro ricchezza sul privilegio si e' passati ad una classe dominante che affondava la sua forza ed il suo potere nell'apparato burocratico clientelare,questo non era compatibile con un imprenditoria forte e libera.A parte i mitici Florio la Sicilia non ha avuto quelle dinastie imprenditoriali che potessero tramandare la cultura dell'impresa e del lavoro.Questo e' accadutro al Nord e dovunque si vada si sente il peso del ruolo che queste dinastie hanno avuto.Nasturalmente una societa' moderna dovrebbe poter fare a meno delle dinastie,ma nel passato in tuto il mondo la classe imprenditoriale borghese ha avuto un ruolo dominante.La burocrazia ,le regioni con il corteo di contributi a fondo perduto,e di tangenti certamente non hanno favorito lo svilupparsi di questa calsse imprenditoriale,con il conseguente ritardo economico e culturale del sud.
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