Andrè
Agassi, Open. La mia storia,
Torino, Einaudi, 2011, 504 pp., ISBN 9788806207267.
Premesse
d’obbligo: sono un grande appassionato di tennis e ho provato, nel corso della
sua altalenante carriera, una buona dose di simpatia per Agassi e il suo gioco,
pur tifando per tutti i suoi grandi rivali, Edberg, Becker, Sampras; avevo una
“cotta televisiva” per Steffi Graff, poi diventata Stefanie Agassi; prima di
questo libro non avevo mai letto o avevo abbandonato per stanchezza le altre
biografie (compresa quella immaginaria e per taluni versi strepitosa di David
Copperfield che giace ancora speranzosa sul mio comodino). Detto questo mi
lancerò nella lode sperticata di un libro che mi ha sorpreso, incuriosito,
deliziato per tutte le sue, non poche pagine, grazie alla sagace scelta di
mescolare tennis e vita in una metafora di tale splendente chiarezza che a
nessuno potrà sfuggire. La vita di Andrè Agassi, un talentuoso ragazzino
ingabbiato dal desiderio del padre di tramutare in fiumi di dollari il dono
celeste di riflessi e rapidità ultraterrene del figlio, è raccontata quasi per
filo e per segno: dalla paura del padre orco innamorato del figlio, resa
palpabile dall’abile uso di racconti chiave e dal confronto tenerissimo con
l’amato fratello; alla ribellione “estetica” di un’adolescenza scambiata per
gioventù a causa della fama e dei soldi; alla sua redenzione e trasformazione
nel padre di famiglia e sportivo modello della fine della carriera, che tutti
gli appassionati di tennis del mondo negli anni ’90 hanno vissuto e ammirato.
Ho
raccontato pagine e pagine di questo libro a mia moglie (che detesta
cordialmente il tennis) e ai miei figli, l’ho letto rubando il tempo necessario
a tutto, salvo pentirmi, appena letta l’ultima parola, di averlo già finito. Open promette ciò che il suo titolo e la
bellissima foto di copertina promettono, un racconto aperto (e spero con tutto
me stesso sincero, come pare) e uno sbalordimento che stordisce dinanzi alla
meraviglia della vita.
Le
straordinarie vicende del protagonista, amplificate dalla fama mondiale e da
una semplice capacità di stupire e colpire l’immaginazione collettiva,
diventano il paradigma di tutte le storie in cui il protagonista affronta una
sfida di cui farebbe a meno, ma che è inevitabile. Cade e si rialza, e in essa
trova se stesso, l’amore e un equilibrio impensabile nei posti e nelle persone
più improbabili, un ex allenatore di football leonardesco e un ex avversario ugly divenuto coach. Leggetelo e scoprirete una vita sorprendente e pura, un racconto appassionante in cui,
ne sono certo, non salterete neanche la descrizione minuziosa ma centellinata,
delle partite a tennis, anche se non ne vorreste mai vedere una.
Vorrei
chiudere la recensione con un periodo, perfetto e capace della precisa sintesi
di cosa ho letto, imparato e amato di questo libro: «Bud Collins, il venerabile
commentatore e storico del tennis, coautore dell’autobiografia di Laver,
sintetizza la mia carriera dicendo che mi sono trasformato da punk a modello di
paragone. Sono sconcertato. Secondo me, Bud ha sacrificato la verità
sull’altare dell’allitterazione. Non sono mai stato un punk più di quanto sia
un modello adesso. Anche diversi giornalisti sportivi riflettono sulla mia
trasformazione e quella parola mi amareggia. Penso che non colpisca nel segno.
La trasformazione è un cambiamento da una cosa in un’altra, ma io quand’ho
cominciato non ero niente. Non mi sono trasformato, mi sono formato. Quando ho
cominciato a giocare a tennis ero come la maggioranza dei ragazzini: non sapevo
chi ero e mi ribellavo al fatto che fossero i grandi a dirmelo. Penso che i
grandi facciano sempre questo errore con i giovani, trattandoli come prodotti
finiti quando in realtà sono in fieri. È come giudicare un match prima che si
sia concluso e io ho recuperato troppo spesso e ho subito troppe furiose
rimonte per pensare che sia una buona idea» (p. 280).
Bartolo
Megna
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