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giovedì 5 dicembre 2013

Open. La mia storia

Andrè Agassi, Open. La mia storia, Torino, Einaudi, 2011, 504 pp., ISBN 9788806207267.

Premesse d’obbligo: sono un grande appassionato di tennis e ho provato, nel corso della sua altalenante carriera, una buona dose di simpatia per Agassi e il suo gioco, pur tifando per tutti i suoi grandi rivali, Edberg, Becker, Sampras; avevo una “cotta televisiva” per Steffi Graff, poi diventata Stefanie Agassi; prima di questo libro non avevo mai letto o avevo abbandonato per stanchezza le altre biografie (compresa quella immaginaria e per taluni versi strepitosa di David Copperfield che giace ancora speranzosa sul mio comodino). Detto questo mi lancerò nella lode sperticata di un libro che mi ha sorpreso, incuriosito, deliziato per tutte le sue, non poche pagine, grazie alla sagace scelta di mescolare tennis e vita in una metafora di tale splendente chiarezza che a nessuno potrà sfuggire. La vita di Andrè Agassi, un talentuoso ragazzino ingabbiato dal desiderio del padre di tramutare in fiumi di dollari il dono celeste di riflessi e rapidità ultraterrene del figlio, è raccontata quasi per filo e per segno: dalla paura del padre orco innamorato del figlio, resa palpabile dall’abile uso di racconti chiave e dal confronto tenerissimo con l’amato fratello; alla ribellione “estetica” di un’adolescenza scambiata per gioventù a causa della fama e dei soldi; alla sua redenzione e trasformazione nel padre di famiglia e sportivo modello della fine della carriera, che tutti gli appassionati di tennis del mondo negli anni ’90 hanno vissuto e ammirato.
Ho raccontato pagine e pagine di questo libro a mia moglie (che detesta cordialmente il tennis) e ai miei figli, l’ho letto rubando il tempo necessario a tutto, salvo pentirmi, appena letta l’ultima parola, di averlo già finito. Open promette ciò che il suo titolo e la bellissima foto di copertina promettono, un racconto aperto (e spero con tutto me stesso sincero, come pare) e uno sbalordimento che stordisce dinanzi alla meraviglia della vita.
Le straordinarie vicende del protagonista, amplificate dalla fama mondiale e da una semplice capacità di stupire e colpire l’immaginazione collettiva, diventano il paradigma di tutte le storie in cui il protagonista affronta una sfida di cui farebbe a meno, ma che è inevitabile. Cade e si rialza, e in essa trova se stesso, l’amore e un equilibrio impensabile nei posti e nelle persone più improbabili, un ex allenatore di football leonardesco e un ex avversario ugly divenuto coach. Leggetelo e scoprirete una vita sorprendente e pura, un racconto appassionante in cui, ne sono certo, non salterete neanche la descrizione minuziosa ma centellinata, delle partite a tennis, anche se non ne vorreste mai vedere una.
Vorrei chiudere la recensione con un periodo, perfetto e capace della precisa sintesi di cosa ho letto, imparato e amato di questo libro: «Bud Collins, il venerabile commentatore e storico del tennis, coautore dell’autobiografia di Laver, sintetizza la mia carriera dicendo che mi sono trasformato da punk a modello di paragone. Sono sconcertato. Secondo me, Bud ha sacrificato la verità sull’altare dell’allitterazione. Non sono mai stato un punk più di quanto sia un modello adesso. Anche diversi giornalisti sportivi riflettono sulla mia trasformazione e quella parola mi amareggia. Penso che non colpisca nel segno. La trasformazione è un cambiamento da una cosa in un’altra, ma io quand’ho cominciato non ero niente. Non mi sono trasformato, mi sono formato. Quando ho cominciato a giocare a tennis ero come la maggioranza dei ragazzini: non sapevo chi ero e mi ribellavo al fatto che fossero i grandi a dirmelo. Penso che i grandi facciano sempre questo errore con i giovani, trattandoli come prodotti finiti quando in realtà sono in fieri. È come giudicare un match prima che si sia concluso e io ho recuperato troppo spesso e ho subito troppe furiose rimonte per pensare che sia una buona idea» (p. 280).

Bartolo Megna






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