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martedì 5 marzo 2013

I nemici intimi della democrazia



Tzvetan Todorov, I nemici intimi della democrazia, Milano, Garzanti, 2012, 248 pp., ISBN 978-88-11-60163-0

Fernand Braudel nel descrivere minuziosamente i mali e le contraddizioni del Sistema Imperiale Spagnolo, divideva i nemici della Corona in esterni e interni. I pericoli per la tenuta del Regno venivano tanto da fuori – i turchi ottomani – quanto dalla stessa periferia dell’Impero: ad esempio i Paesi Bassi.
Se è vero che la storia si ripete ciclicamente, possiamo dire che anche la democrazia – che almeno sulla carta è oggi la forma di governo ufficiale dell’Occidente e in particolar modo dell’Europa – è oggi minacciata da nemici. Se nel corso del Novecento questi nemici erano esterni, oggi sembrano invece essere proprio dentro di noi; a volte addirittura ne sono il volto pubblico, gli stessi rappresentanti ufficiali.
L’autore inizia il suo lungo excursus su libertà e democrazia partendo da Pelagio e Agostino, soffermandosi sul tema del male e del libero arbitrio, ma anche del peccato originale, della predestinazione e del ruolo dell’uomo nella società. I padri della Chiesa cristiana vengono citati non a caso, perché sono funzionali alla spiegazione dell’origine del messianismo, che – ben lungi dall’essere una visione del mondo obsoleta e strettamente connessa alla fede ebraico-cristiana –  si rivela invece una sorta di ideologia ciclica che ha attraversato tutte le fasi della storia dell’umanità, fino ad arrivare ai nostri giorni.
Tanto l’età medievale quanto quella moderna sono costellate da eventi che si ispirano a tale ideologia: dalle crociate alla conquista dell’America, l’idea prevalente – il fine che giustifica i mezzi – è sempre la stessa: imporre un modo “migliore” di vivere, esportare la civiltà, guarire i barbari dal male atavico dell’ignoranza e del peccato. Persino la Rivoluzione Francese si pone l’obiettivo di diffondere benessere e pace perpetui. Il punto è che, in nome di questo rinnovamento promesso dal messianismo, l’uomo si è reso autore di atroci stragi, contravvenendo al principio dell’uguaglianza universale. L’annientamento del nemico diventa, dunque, dovere morale: «la violenza non è camuffata, ma rivendicata» (p.49), la strategia del terrore è funzionale al fine.
Allo stesso modo si comporterà Napoleone. Gli oppositori sono barbari e vanno «civilizzati o fatti scomparire» (p.51), lo afferma già Condorcet senza alcuna esitazione. Da qui la sottomissione dell’India e dell’Egitto rispettivamente da parte dell’Inghilterra e di Napoleone e, più in generale, la conquista europea di Africa e Asia alla fine dell’ ‘800. Le razze superiori devono civilizzare quelle inferiori. Ecco, questo è il messianismo politico che si trascina, con effetti devastanti, fino a confluire negli anni bui dei totalitarismi del Novecento.
Todorov include il comunismo nei messianismi: l’idea comunista è che la storia ha una direzione prestabilita e immutabile. Sic stantibus rebus ogni azione legata a tale idea è legittima. Analizzando il Manifesto di Marx ed Engels, Todorov sostiene che, partendo dal postulato marxista dell’abolizione delle differenze – in quanto produttrici di conflitto – e, aggiungendovi la necessità di abolire la borghesia – in quanto incompatibile con la società – appare impossibile che ciò avvenga senza alcuno spargimento di sangue e cita, a rafforzamento della propria tesi, proprio quella parte del Manifesto in cui si dice che l’unico modo per poter trasformare la società è quello dell’ «abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente» (p.56).
Ma cosa accomuna il messianismo nato dalla Rivoluzione francese e quello comunista? Il primo si proponeva di portare la salvezza agli altri, il secondo è orientato verso l’interno: è una guerra civile, combattuta tra classi. Non si tratta in questo secondo caso (almeno nelle intenzioni) di sottomettere un paese a un altro paese, ma di diffondere le guerre civili per il raggiungimento dell’obiettivo. Todorov – che ha vissuto per 20 anni sotto il regime comunista – afferma di ricordare con orrore non tanto la privazione della libertà, quanto piuttosto il paradosso che «tutto il male [fosse] compiuto in nome del bene, giustificato da uno scopo presentato come sublime» (p. 62).
Dopo il crollo dell’U.R.S.S. e la fine della guerra fredda il nemico cambia, ma la tentazione del messianismo resta forte e si traduce nella necessità di liberare il mondo dal male imponendo la democrazia e i diritti con le guerre «democratiche» e «umanitarie» (p.63). A partire dal conflitto del 1999 in Iugoslavia, vari interventi armati sono stati sanciti dal cosiddetto «diritto di ingerenza»: intervenire cioè laddove vengono violati i diritti umani per portare la democrazia e punire i dittatori.
 La violazione dei diritti dell’uomo avviene però quotidianamente e in qualsiasi parte del globo, eppure la scelta di intervenire ricade sempre sui paesi i cui capi non sono amici politici e possono ostacolare gli interessi degli Stati “democratici” che hanno aderito alla dottrina del diritto di ingerenza. Inoltre le guerre in nome della pace fanno sempre più vittime di quanti civili si vogliano salvare con le guerre stesse e mai, in seguito all’intervento armato dalle forze “portatrici di pace e democrazia”, vi è stato un miglioramento dei diritti umani, anzi. Abu Grahib – solo per citare un esempio – ci parla di una tortura del nemico che assurge a norma, addirittura formulata nei manuali della CIA e dunque pianificata.
Malgrado gli interventi in Iraq, Afghanistan, Libia si siano dimostrati fallimentari e sebbene occupare paesi e torturare i dissidenti per combattere il terrorismo islamico (il nemico esterno) non ha fatto che peggiorare la situazione non solo dei paesi che hanno subito l’occupazione, ma anche di quelli che l’hanno praticata, i capi di Stato delle “democrazie occidentali”, continuano a considerare questo metodo giusto e necessario. Inoltre, in tempi di crisi economica devastante per l’occidente, queste guerre preventive e queste occupazioni costano alle popolazioni occidentali quantità di denaro smisurate. Perché allora impiegare somme di danaro così elevate, a fronte di risultati tanto deludenti? E qui ritorna il messianismo politico: per salvare l’umanità, dicono. Ma salvarla da chi?
É qui che iniziano le vere domande del saggio: perché cercare un nemico esterno quando i pericoli per la democrazia sono insiti in essa e ancor più pericolosi? Pensiamo per un attimo alla scienza, all’innovazione tecnologica: a seconda dell’uso che ne facciamo possono essere fonte di salvezza ma anche di distruzione. Abbiamo forse dimenticato Fukushima? Eppure in questo caso “l’atomo è stato usato a scopi pacifici” (p.136) anche se, nel caso delle centrali nucleari, i rischi coinvolgeranno almeno 800 generazioni future visto che la radioattività liberata può durare 24.000 anni (p.137) e coinvolgono, a volte, anche paesi che non hanno scelto di dotarsi del nucleare.
É la teoria della «seconda modernità» già ben esposta da Ulrich Beck: la scienza e il progresso nella prima fase hanno contribuito a migliorare le condizioni di vita dei cittadini, oggi invece la scienza, con le stesse attività, può mettere in pericolo la vita umana. La scienza è nata per proteggerci dalla natura eppure le attuali politiche ambientaliste vogliono ritornare alla natura per salvare l’uomo dalle degenerazioni della tecnologia che sono, per così dire, l’incidente di percorso del profitto e del potere.  Non dimentichiamo infatti che il progresso tecnologico, oggi sottomesso al profitto ad ogni costo, riguarda anche l’esistenza stessa dell’uomo, il suo essere al mondo, il suo diritto alla vita e alla salute, come dimostrano, ad esempio, le attuali vicende legate all’ILVA di Taranto.
Neoliberismo di Stato, standardizzazione e flessibilità dell’organizzazione del lavoro contemporaneo, identificazione del pericolo nello straniero che sfocia negli attacchi, purtroppo recenti, alla società multiculturale (si consiglia, a tal proposito, la lettura dell’illuminante saggio di Slavoj Zizek sull’Europa e il razzismo)[1], l’assoggettamento della società all’economia: questi sono oggi i nemici interni della democrazia e sono più potenti di quelli esterni. Combatterli  è più difficile perché essi si richiamano allo spirito democratico e sono legittimati.
Siamo dunque passati dai totalitarismi del Novecento in cui lo Stato veniva messo al centro di tutto, all’ultraliberismo in cui è l’individuo ad essere tutto, anche a costo di distruggere la società stessa. Bisogna pertanto interrogarsi sulla libertà e la democrazia, ma anche sui loro limiti.
Le conclusioni del saggio sono amare: la nostra è una democrazia malata che, secondo Todorov, ha fallito tutti i suoi obiettivi. Il vero e sconvolgente problema è che la democrazia è affetta da una malattia autoimmune e, scoprire che il nemico è dentro di noi, rende lo scenario ancora più inquietante. Ma cosa fare a parte cedere alla tentazione della rassegnazione o ancor peggio del «nientismo»? (p.234)
É questa la domanda cui cerca di rispondere l’autore, soffermandosi sulla necessità estrema di coniugare individuo e collettività, perchè siamo «condannati a riuscire o fallire insieme». (p.240)

Alessandra Mangano











[1] S. Zizek, Un anno sognato pericolosamente, Ponte delle Grazie, traduzione di Carlo Salzani, pagg. 190 euro 15.

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