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lunedì 5 maggio 2014

Perché il Sud è rimasto indietro

Emanuele Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Bologna, Il Mulino, 2013, 258 pp., (Contemporanea, 233), ISBN 978-88-15-24792-6.

Leggere il libro di Emanuele Felice mi fa tirare un sospiro di sollievo. Da qualche tempo mi chiedevo, dove fossero finiti gli storici, in un momento in cui la storia è stata ridotta a variante per libro da classifica e scritturata per recitare la parte nella compiaciuta pantomima del talk-show bipartisan.
È bene ricordare che la storia non è esito di una verità rivelata, ma il frutto di una dura ricerca condotta con rigorosa metodologia sulle fonti (siano esse documentarie, archeologico-materiali e/o orali) e non frutto della doxa e del sentimento.
Emanuele Felice, docente di storia economica presso l'Università Autonoma di Barcellona - ma anche uno di quei "cervelli" fuggiti dal Meridione -, ci dimostra in questo bel libro, come si faccia un buon libro di storia, soprattutto in un momento in cui titoli suggestivi e improbabili, sedicenti narratori e «tesi pseudorevisioniste (il vero revisionismo è insito in ogni ricerca storica) che finiscono per capovolgere la realtà» [p. 7], pretendono di raccontarci la "verità" sul sud Italia e sull'unità d'Italia.
Il libro di Felice analizza, a partire da fonti e dati economici certi - non «inattaccabili (nessuna stima storica lo è per definizione)» [p. 8], ma tutti inseriti in note e citati (prova della serietà con cui è stata condotta la ricerca, non solo perché consente al lettore di verificare i dati, ma anche di constatare il lavoro che sta dietro la realizzazione di una ricerca storica) -, il motivo per cui il Sud è rimasto indietro.
È bene dire che questo non è un libro pro unità d'Italia o contro il Regno delle Due Sicilie. La storia non accerta chi ha ragione o chi ha torto (non è pertanto pro o contro qualcuno o qualcosa), ma cerca di comprendere e spiegare le ragioni economiche, politiche e sociali, al fine di aiutarci a essere migliori interpreti del presente.
Il libro si divide in tre capitoli e procede sulle analisi della situazione del Sud Italia a partire dalla prima metà dell'Ottocento, ossia prima dell'unità d'Italia, fino a oggi.
Grazie a una robusta bibliografia scientifica e a una corposa quantità di dati, tutti rigorosamente citati nel primo capitolo, Il divario all'Unità [pp. 17-90], emerge nel 1859 una situazione di divario di partenza  del Regno delle Due Sicilie e dello Stato Pontificio rispetto agli stati del Nord. Un divario che è evidente e significativo, se si prendono in considerazione i dati sulle infrastrutture (ferrovie, strade, porti), sull'istruzione, sull'occupazione e sulle condizioni sociali. L'esempio classico è quello delle ferrovie. Vero è che la prima ferrovia italiana fu costruita nel 1839 nel Regno delle Due Sicilie (la famosa Napoli-Portici di ben 7 km), ma è vero anche che nel 1859 nell'intero Meridione (compresa la Sicilia, dove non vi erano strade ferrate) i km di ferrovie sono solo 99, contro gli 850 del Piemonte e Liguria, i 522 della Lombardia e Veneto e i 257 della Toscana. [pp. 21-22]
Nel secondo capitolo, La modernizzazione passiva: il divario dell'Unità a oggi [pp. 91-180], lo storico ragiona sul perché il Sud sia rimasto indietro rispetto al Centro-Nord, esaminando i dati dal 1871 a oggi. Un periodo lungo e non omogeneo, ma che in ogni suo momento è significativo. L'Italia liberale fa spazio all'Italia fascista (quella del massimo divario tra Nord e Sud), l'Italia del boom economico fa largo ai decenni di decrescita (fino alla crisi odierna) che corrisponde anche con il fallimento dell'industrializzazione passiva, attraverso l'intervento dello Stato.
Dati che dimostrano un tentativo di convergenza Nord-Sud, ma che risulta assai fragile quando si consuma il rallentamento della crescita economica nazionale, tale da determinare un nuovo aprirsi della forbice. Non sono risparmiate pagine, sia nel primo sia nel secondo capitolo, alle organizzazioni criminali (mafia, camorra e 'ndrangheta) e sul ruolo attivo nel ritardo strutturale del Meridione, una piaga che l'Italia eredita dal Regno delle Due Sicilie.
Il terzo capitolo, che dà il titolo al libro [pp. 181-237], invita a riflettere su quelle tesi assolutorie nei confronti del Mezzogiorno e dei Meridionali e accusatorie verso tutto quello che viene dall'esterno o, che non è direttamente identificabile con il marchio "Made in Sud". L'invito dello storico è, infatti, quello di critici con il proprio passato, poiché è l'uomo a essere «padrone della sua storia» [p. 181].
Non sfruttato, non colonia, non inferiore, ma Meridione artefice del proprio destino e vittima di se stesso e delle proprie classi dirigenti, poiché non bisogna dimenticare il ruolo della politica all'interno del quadro di analisi. Importante per questo diventa fondamentale la differenza tra «istituzioni politiche ed economiche di tipo 'estrattivo'» e «di tipo 'inclusivo'» ben spiegata nel primo paragrafo, La modernizzazione [pp. 92-100], del secondo capitolo.
Nelle conclusioni il futuro è a un bivio: «proseguire lungo lo stesso cammino che è stato percorso negli ultimi quarant'anni: senza cambiare nulla, attendere una manna che si fa sempre più rada; nel frattempo continuare a scivolare indietro, lentamente ma inesorabilmente, in pressoché tutti gli indicatori della modernità, rispetto agli altri paesi avanzati. È la prospettiva più probabile, anche se non obbligata. Ed è probabile anche perché alle ragioni già dette occorre aggiungerne un'altra: i cittadini meridionali hanno una libertà (e una concreta possibilità) che agli altri abitanti delle periferie del mondo non è data, almeno non nella stessa misura: la libertà di emigrare. [...] La seconda strada è quella del riscatto. Ovvero rifondare la vita civile e le istituzioni così da renderle inclusive, avviando in questo modo un autonomo processo di modernizzazione attiva; una modernizzazione che forse aiuterebbe l'Italia tutta a uscire dalle secche in cui è finita. A chi scrive questa strada appare più difficile, ma non impossibile» [pp. 240-241].
Le ultime righe sono dedicate a Gaetano Filangieri, emblema di un riscatto mancato, perché naufragato nell'immobilismo della politica borbonica, ma lungimirante e lucido nelle idee.
Libro che va letto, che gli insegnanti dovrebbero leggere e spiegare agli studenti, affinché le nuove generazioni comprendano sin da subito i problemi del proprio territorio e riflettano sul destino del Sud e dell'Italia, poiché solo se consapevoli potranno essere quella via del riscatto e della speranza.

Piero Canale


Per approfondire la questione consiglio la lettura di A. Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, Roma-Bari, Laterza, 2014; P. Bevilacqua, Breve storia dell'Italia meridionale dall'Ottocento a oggi, Roma, Donzelli, 2005; Giampaolo D’Andrea-Francesco Giasi (a cura di), Luigi Sturzo-Antonio Gramsci. Il Mezzogiorno e l’Italia, Roma, Edizioni Studium, 2012; R. De Lorenzo, Borbonia Felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Roma, Salerno, 2013; S. Lupo, L'unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Roma, Donzelli, 2011; Id., Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 2004; L. Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Roma, Donzelli, 2007; Id., La Sicilia e l'unificazione italiana. Politica liberale e politica locale 1815-1866, Torino, Einaudi, 2004; A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna, Il Mulino, 2004; C. Triglia, Non c'è Sud senza Nord. Perché la crescita dell'Italia si decide nel Mezzogiorno, Bologna, Il Mulino, 2012.




Storia di una Matita

Michele D’Ignazio, Storia di una Matita, Milano, Rizzoli, 2012, 120 pp., ISBN 978-8817055659.

L’idea alla base di Storia di una Matita nasce da un gioco di parole: «Vorrei avere la vita temperata come una matita». Una frase isolata, un’intuizione non sviluppata, ma è stata come una molla. Perché non scrivere la storia di una matita? Lapo, il protagonista principale, da quando era bambino ha un grande sogno: diventare un illustratore. Ci spera talmente tanto che una mattina, in maniera rocambolesca, il suo corpo si trasforma in una gigantesca matita: «Fu il mignolo della sua mano sinistra a dirigersi verso la narice destra. Gira e rigira, scava e riscava, a un certo punto, Lapo sentì un odore. Era l’odore delle sue matite. “Ah! Fantastico”, sussurrò» [p. 18].
Pochi secondi dopo, Lapo si accorge che al posto del suo dito mignolo c’è una matita gialla bellissima e ben temperata. Qualche ora dopo, la trasformazione è completa. La sua testa è diventata una gigantesca punta di grafite e anziché pettinarsi deve temperarsi.
Non ha una faccia e per uscir di casa ha bisogno di un viso con degli occhi, delle orecchie, una bocca... una faccia per ogni circostanza, per ogni emozione: ne disegna più di un centinaio e ben presto si rende conto che non bastano.
E come si muove? Non avendo due gambe, non può più camminare. Però scivola, lasciando punti, linee, segni che infine diventano disegni, disegni bellissimi.
Storia di una matita è un racconto sulla capacità di sognare, ma anche sulle controindicazioni che il sognare porta con sé. Racconta inoltre la scoperta di un talento, ma la necessità di capire anche come poterlo utilizzare. È un cammino di crescita in cui Lapo incontrerà molti altri personaggi: la vicina di casa Rosa, con il suo cagnolino Stella che sempre abbaia; il magnate che prima gli dà un lavoro e poi vuole renderlo famoso; la dolce Mirella di cui timidamente si innamora.
Storia di una matita racconta le avventure tragicomiche di Lapo che, con coraggio e ingenuità, si lancia alla scoperta di un mondo che ha un gran bisogno di essere ridisegnato e in cui, a sorpresa, non è il solo a essersi trasformato in un oggetto.  
«Guarda che non c’è nulla di strano», continuò la madre, «anch’io ho rischiato di trasformarmi in una padella, quando passavo troppo tempo a cucinare. E poi, quando mi hanno dato il lavoro a scuola, mi stavo per trasformare in un quaderno a quadretti. Sarebbe stato un grosso problema. Ma per fortuna non è successo…» [p. 94]

Ulteriori immagini e info: http://storiadiunamatita.wordpress.com/

Michele D’Ignazio






Io ero l'Africa

Roberta Lepri, Io ero l'Africa, Roma, Avagliano Editore, 2013, 171 pp., ISBN 978-88-8309-380-7.

Gli italiani che nel dopoguerra emigravano in Somalia e brutalizzavano, picchiavano, facevano i Padroni con gli indigeni. Razzismo, violenza, prepotenza. Altro che “gente di cuore” e cliché simili. Il colonialismo italiano in Africa che è sempre stato feroce e spietato. Le legislazioni coloniali durante la democrazia liberale e poi durante il fascismo erano da meno, in quanto a discriminazione, soltanto alle legislazioni naziste e sudafricane. Una storia sempre non-raccontata dalla storiografia e narrazione “ufficiale”.
Ecco cosa racconta questo gran bel romanzo di Roberta Lepri, scrittrice umbra di nascita ma toscana d'adozione, pubblicato nel novembre 2013 da Avagliano Editore. Racconta questo – uno spaccato storico importantissimo e colpevolmente trascurato – ma non solo. A partire da uno spunto autobiografico, e con grande competenza storica e contestualizzante, la Lepri riesce a comporre un'opera che ha un valore altissimo soprattutto a livello narrativo e – diciamo così – umano.
Un libro che è quasi un capolavoro, sicuramente un'opera davvero intensa, autentica, viscerale e allo stesso tempo ben costruita, sudata e lavorata in ogni minimo dettaglio con evidente amore artigiano.
Un libro che ha solo un difetto: la casa editrice ha deciso di spacciarlo per un libro di avventure, piazzando in copertina una foto da National Geographic e puntando tutto su cose tipo l'esotismo del continente africano, la promessa di grandi emozioni, scenari suggestivi, paesaggi mozzafiato eccetera eccetera. Una scelta un po' troppo “vintage” e – direi – decisamente superata (a livello di marketing) e che poi non rende affatto giustizia a un romanzo che invece è molto più sfaccettato e profondo di un semplice libro di avventure.
La Lepri, infatti, è una scrittrice sapiente e appassionata – di grande qualità e attualità, a suo modo postmoderna – e questo libro riesce a raccontare, allo stesso tempo, una sofferta e coinvolgente storia umana e familiare e insieme a tratteggiare un contesto storico obliato (per chissà quali motivi) dalla narrazione italiana condivisa, ovvero: il colonialismo italiano in Africa, soprattutto quello del dopoguerra in Somalia.
Io ero l'Africa racconta una storia italiana e una storia umana. Una storia di emigrazione e sopraffazione, di scardinamento e disvelamento. Teo e Angela che dalle campagne umbre se ne vanno in Africa, in Somalia, a gestire una piantagione di banane nei pressi di Mogadiscio. Sono gli anni '50 e l'agricoltura delle campagne umbre non rende più niente, la fame e la miseria peggiorano sempre di più, nonostante che in Italia – dicono in televisione – ci sia il cosiddetto Boom Economico. Teo è figlio di un mezzadro di modestissime condizioni economiche. Ha sposato Angela, che è più ricca di lui, più alta di lui, giunonica, imponente e biondissima tanto che Teo la chiama “la Normanna”. Angela però è pure chiamata “la Santa” perché è devota, sottomessa e timorata di Dio, educazione cattolica e addirittura un fratello vescovo. Per loro – per Teo e Angela – l'Africa è occasione di cambiamento e, forse, di disvelamento. Bruciare convenzioni e sovrastrutture sociali. Teo – socialista che in Italia parlava sempre di giustizia ed eguaglianza – diventa padrone feroce e autoritario che picchia i neri. Angela – la Santa – viene investita dalla vastità degli orizzonti della terra d'Africa, viene stravolta a livello intimo da quella natura selvaggia, colori forti, odori forti, Angela che prova attrazione per la pelle dei neri, che si chiede come dev'essere toccare la pelle dei neri, che viene sconvolta dall'erotismo suscitato da Said, guerriero Masai al servizio di Teo, silenzioso, orgoglioso, superiore, quasi astratto. Angela che non prova più vergogna per i suoi istinti – che freme per quelle notti africane che odorano “di foglie umide e di sterco” – tutta presa da una blasfema e inaudita “gratitudine pagana” verso quel cosmo.
La Lepri ha il dono di una lingua di straordinaria qualità: sveglia e agile, elegante ed efficace, mai banale e capace di essere delicata e carezzevole ma anche – quando occorre – feroce, crudele, di una violenza controllata e intelligentissima. Oltre alla lingua in senso stretto, la Lepri riesce sempre – senza sbagliare un colpo – a raccontare personaggi, situazioni e azioni che affondano le loro radici in una sensibilità di scrittrice acutissima e priva di pregiudizi, ideologie, letture stereotipate. Tutto ciò che viene raccontato dalla Lepri è (o dà l'impressione di essere) carne e sangue, roba vera, sentita e in qualche modo – sempre – “vissuta”. Niente di tutto ciò che racconta la Lepri sembra un artificio letterario, un tappabuchi narrativo, una pigrizia scrittoria. La letteratura della Lepri – per questi motivi – è di un'intensità e di un'autenticità che raramente si trovano nei raffazzonatissimi e artificiosissimi Grandi Autori Italiani, e questo libro – con alcuni minuscoli accorgimenti di editing – ha la qualità, l'energia e la freschezza per essere notato a livello nazionale e non sfigurare in competizioni tipo il Premio Strega o queste acclamatissime (e mistificatorie, e disoneste) occasioni di vetrina letteraria.

Nino Fricano

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Tutte le recensioni, interviste, interventi (RobertaLepri.it)





La sovrana lettrice


Alan Bennet, La sovrana lettrice, Milano, Adelphi Edizioni, 2007, 95 pp., ISBN 978-88-459-2209-1.

Questo interessante romanzo di Alan Bennett racconta una vicenda, oserei dire, surreale: immaginate che la sovrana d’Inghilterra decidesse tutt’a un tratto di cominciare a leggere. Anzi, non solo leggere, ma divorare libri come fossero cornflakes. Quale la reazione dell’apparato politico-amministrativo inglese? Una reazione particolarmente indignata, visto che i libri pian piano cominciano a scardinare quel sistema costituito da abitudini e consuetudini che scandisce le giornate della monarca.
Tutto comincia in una giornata qualsiasi, in cui la regina, sentendo l’abbaiare dei cani, nota, in un cortile del palazzo non molto familiare, la presenza di un furgone carico di libri: una biblioteca circolante. Qui fa la conoscenza del bibliotecario, Hutchings, e di Norman, unico utente di quella biblioteca. Norman è un ragazzo basso e magrolino, che, per queste sue non-doti estetiche, era stato relegato a lavorare in cucina. Da questo momento in poi tra Norman e Sua Maestà inizia un rapporto affettuoso: il ragazzo dalla cucina viene “promosso” a consigliere “bibliografico“ regio, con l’unico compito di curare, proporre e procurare le letture alla sovrana. Proprio per questa sua mansione poco impegnativa – a detta degli altri – comincia ad essere malvisto, prima dal resto della servitù, quindi dal segretario privato della regina, Sir Kevin Scatchard: proprio questi, approfittando di un lungo viaggio istituzionale della regina, ad insaputa di quest’ultima, lo allontana dal palazzo con l’allettante proposta di andare a studiare presso la prestigiosa Università dell’East Anglia.
Questa scoperta della lettura avviene per fasi. La prima è quella della “rivelazione” e dell’inconsapevolezza di ciò cui si sta andando incontro. Quindi segue quella della percezione della propria reale condizione e della necessità essenziale di qualcosa di nuovo: «Lei, che aveva vissuto una vita diversa dalle altre, scopriva di avere un estremo bisogno di tutto questo. Fra le pagine e dentro le copertine poteva passare inosservata» [p. 30]. Il terzo momento è quello dell’insofferenza per tutto ciò che fino ad allora aveva caratterizzato la sua vita e, di conseguenza, il senso di odio nei confronti dei libri che, di quella vita, ne aveva messo in evidenza l’indigeribile vuotezza: «Era colpa dei libri, e a volte lei si pentiva di aver cominciato a leggerli, a entrare in altre vite. Era come un tarlo, un tarlo nella testa.» [p. 51]
Nel complesso il volume risulta divertente, dalla lettura fluida e scorrevole e ricco di spunti di riflessione, in particolare riguardo al tema della lettura nella vita di ogni individuo. CONSIGLIATO!

Vincenzo Bagnera



I sonetti a Orfeo

Rainer Maria Rilke, I sonetti a Orfeo, a cura di Franco Rella, Milano, Feltrinelli, 1991, 176 pp. (I Classici Universali Economica Feltrinelli), ISBN 978-88-07-82025-0.

Le liriche di Rilke sono un vero e proprio tempio orfico.
La lettura di questi sonetti è una continua catabasi nel mondo dei morti. Un autentico e duro viaggio nelle ragioni più profonde del mutamento: il mutamento che è nello stesso tempo vita, morte e rinascita. Un ciclo perpetuo si compie tra i versi di questi sonetti, che invocano la riverenza panica verso i riti orfici, verso le danze sacre, i profumi e le nebbie. Nulla è più.
La lettura di quest'opera inebria, soffoca e stordisce: troppo dolci risultano i nettari dei ricordi di una gioventù effimera e di un qualcosa "per ciò che non fu mai"; troppo spinte sono le fragranze germoglianti dai fiori che adornano la lira di Orfeo e del poeta; troppo incalzanti suonano i tamburi, che segnano il ritmo della metamorfosi, che il poeta cerca di catturare, ma che continuamente sfugge.
Ne I sonetti a Orfeo molto sfugge al lettore, i testi sono complessi quanto l'architettura dell'opera. Un vero tempio a Orfeo, dio del mutamento.

Lorenzo Cusimano