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mercoledì 5 giugno 2013

Indignatevi!



Stéphane Hessel, Indignatevi!, Torino, Add Editore, 2011, pp. 61, ISBN 978-8896873-25-0.

Gli eredi del Consiglio Nazionale della Resistenza [organismo nato durante la seconda guerra mondiale con l’obiettivo preciso di stilare un programma di governo in previsione della liberazione della Francia dal nazismo ndr] non avrebbero avallato le attuali politiche xenofobe e razziste nei confronti dei sans-papiers, le espulsioni, gli attacchi allo Stato sociale. Ne è certo Stéphane Hessel che, tramite questo breve libretto, ha voluto affidare alle generazioni del XXI secolo,  le sue più importanti riflessioni sull’attualità e sul mondo contemporaneo. Riflessioni che oggi, a pochi mesi dalla sua scomparsa, risultano un prezioso testamento spirituale.
Quando i nostri politici ci dicono che non ci sono abbastanza risorse per le politiche sociali volte a tutelare i cittadini più deboli, mentono – dice Hessel – perché dalla Liberazione ad oggi «la produzione di ricchezza è considerevolmente aumentata» (p. 9). Piuttosto è la società del «sempre di più» (p. 13), della privatizzazione, della produttività e del consumo ad ogni costo a ledere i diritti umani nel nome di una competitività ogni giorno più spietata e disumana.
Manca ai giovani del nuovo millennio, l’indignazione che ha contraddistinto tutte le azioni più importanti dei giovani della generazione di Hessel. Questa assenza di rabbia e la rassegnazione che ne consegue, sono due facce della stessa medaglia: l’immobilismo, l’incapacità di incidere nei processi e di determinare il cambiamento, perché «quando qualcosa ci indigna […] allora diventiamo militanti, forti e impegnati» (p. 10). L’autore accenna al suo percorso di vita, alle letture che l’hanno formato – il pensiero libertario di Sartre, le opere di Hegel e Benjamin – regalandoci delle sintesi preziose e molto incisive del pensiero dei filosofi più importanti che ha avuto modo di studiare e approfondire nell’arco della sua lunga vita.
Oggi come ieri, la capacità di indignarsi produce quell’impegno indispensabile a combattere alcuni dei mali peggiori del mondo postmoderno: il divario sempre più forte tra ricchi e poveri e l’emancipazione dai totalitarismi. Lo sapeva bene Hessel che – tra l’altro – aveva contribuito, insieme con Eleanor Roosevelt, John Peters Humphrey e Charles Malik, alla stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 a Parigi: i diritti universali devono essere rispettati dagli Stati membri dell’ONU e nessuno può rifugiarsi dietro l’alibi della piena sovranità per eludere i principi fondamentali del rispetto dell’individuo.
Ispirandosi al contenuto di quella Dichiarazione, Hessel non può che condannare la politica israeliana nei confronti dei palestinesi. Tacciato di antisemitismo dal «Bureau National de Vigilance Contre l’Antisémitisme» – accusa che Hessel ha peraltro sempre respinto fermamente ricordando le sue origini ebraiche per parte di padre – ha conosciuto di persona i campi profughi dei palestinesi cacciati dalle loro terre, ma anche Gaza che ha definito fermamente «una prigione a cielo aperto» (p. 21). Pur non giustificando Hamas, Hessel ci invita ad una riflessione più complessa sulla violenza che, spesso, non è altro che l’esito di situazioni disumane, impossibili da tollerare. Il terrorismo diventa dunque una forma di «esasperazione» che annulla ogni speranza. Non si tratta di perdonare i terroristi ma di comprenderli. Perfino Sartre – pur avendo in tante occasioni riflettuto su come l’unico modo per porre fine alla violenza fosse il ricorso alla violenza stessa – alla fine della propria vita arriverà «a interrogarsi sul senso del terrorismo e a dubitare della sua ragion d’essere» (p. 25). La speranza deve necessariamente ritornare ad essere la vera protagonista del cambiamento e la non-violenza la migliore strada percorribile sia da parte degli oppressi che da parte degli oppressori. Per intraprendere questo cammino verso un futuro migliore è necessario il rispetto assoluto dei diritti umani la cui violazione deve suscitare sdegno e reazione nelle nuove generazioni.
Indignatevi! È diventato così il manifesto di un’epoca buia, un invito ad alzarsi, combattere e denunciare ogni qualvolta ci si trova dinanzi a un’ingiustizia. Tradotto in 30 lingue e venduto in 4,5 milioni di copie quest’opera ha ispirato il movimento degli Indignados d’Europa e America.
Il testo contiene anche – per scelta dell’editore – due appendici molto importanti: l’Appello dei Resistenti alle giovani generazioni dell’8 marzo 2004 (pp. 43-47) di cui Hessel è uno dei firmatari e La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (pp. 48-61).

Alessandra Mangano


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La scomparsa di Patò


Andrea Camilleri, La scomparsa di Patò, Milano, Mondadori, 2000, 253 pp., ISBN 978-88-04-48412-8.

21 marzo 1890, Venerdì santo.
A Vigata si sta svolgendo la sacra rappresentazione comunemente chiamata “ Mortorio”.
Vi partecipa , nel ruolo di Giuda, il ragioniere Antonio Patò, stimato direttore della locale “Banca di Trinacria”.
Finita la rappresentazione, di Patò si perdono le tracce.
Scomparso.
Si mette quindi  in moto un microcosmo deputato alla risoluzione del caso.
Si mettono in moto anche altre componenti: burocrazia, poteri politici, convenzioni sociali, desiderio di rispettabilità, ambiguità comunicative...
Non è altro che un’indagine, potremmo concludere; Camilleri ci ha abituati al metodo di lavoro di Montalbano.
Ma qui Camilleri si diverte sfacciatamente, mostrandoci per quali vie, spesso contorte, perverse e contrarie al  più elementare buonsenso, si può procedere.
Per carità, nessun giudizio ...
Alla verità, nonostante tutto, si arriva sempre. Prima o poi.
Ma la verità deve essere “politicamente corretta” e perciò  si procede a cambiare le carte in tavola.
Della scomparsa di Patò viene data la versione che tutti si aspettano: un malaugurato incidente, niente da ricondurre alla volontà dell’integerrimo funzionario, marito amorevole e padre responsabile di lasciarsi trascinare dal vortice della passione …
La particolarità del romanzo sta nel fatto che esso è stato costruito sulle “carte”. E sì, è tutta una raccolta ordinata e sapiente di documenti scambiati tra rappresentati delle istituzioni, personaggi autorevoli, professionisti (questore, carabinieri, prefetto, giornalisti, direttore di filiale, un primario, un sottosegretario di stato, un avvocato, un capo di gabinetto del ministro dell’interno, …).
Chi legge deve compiere diverse operazioni interessanti: cercare le connessioni tra i vari documenti, chiedersi il reale significato di alcuni messaggi più o meno ufficiali,scoprire che lo stesso concetto può essere espresso con vari registri..
Non è affatto una lettura banale.
Bisogna essere molto vigili.
Non lasciarsi mai prendere in giro.
E … soprattutto … stare al gioco!
E pensare che tutto nasce da un involontario suggerimento di Leonardo Sciascia, in A ciascuno il suo:

“Cinquant'anni prima, durante le recite del “Mortorio”, cioè la Passione di Cristo secondo il cavalier D'Orioles, Antonio Patò, che faceva Giuda, era scomparso, per come la parte voleva, nella botola che puntualmente, come già un centinaio di volte tra prove e rappresentazioni, si aprì: solo che (e questo non era nella parte) da quel momento nessuno ne aveva saputo più niente; e il fatto era rimasto in proverbio, a indicare misteriose scomparizioni di persone e di oggetti”.

Giusi Trupia


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L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello



Oliver Sacks, L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Milano, Adelphi, 2001, 318 pp., (Gli Adelphi, 190), ISBN 9788845916250.

La mente è un universo. Il dolore è un universo. Attraverso la mente e il suo dolore è possibile scoprire l'anima imperscrutabile e la sua molteplicità. L'uomo non è solo memoria, sinapsi e processi neuronali. C'è dell'altro.
Non sono un medico e poco conosco della mente e dei suoi arcani meccanismi, quindi mi ritengo il meno adatto a esprimere un parere su questo libro.
Oliver Sacks è un medico, un neurologo credo, che annota le sue esperienze e le sue riflessioni generate dal contatto con i pazienti. Non si tratta di un romanzo, bensì di un diario vero e proprio, che racconta fatti realmente accaduti. Conosco tuttavia niente dell'autore-medico, ma quello che le pagine di questo libro narrano è l'umanità, la pazienza e l'amore verso i pazienti. Spesso abbiamo un'idea infida dei medici. Forse conoscere un medico come Oliver Sacks, ci aiuterebbe a cambiare idea.
Non voglio (o meglio non posso) addentrarmi sulle anamnesi e sui pareri medici, ma voglio di certo tenera a mente le anime dei pazienti del dottor Sacks.
In queste pagine nessun malato è lasciato solo o abbandonato o deriso. Ognuno è accettato con la dignità di essere umano che tutti meritano, pur rispettando la natura e le peculiarità di ciascun protagonista.
Ogni episodio narrato è una scomposizione e rappresenta, a mio avviso, un aspetto fondamentale di qualsiasi persona. Tutto ci riguarda, tutto ci forma.
Qualcuno un tempo mi disse che l'anima è come un albergo fatto di stanze vuote. Bisogna riempirle di ospiti, affinché l'incuria e la vacanza non rovinino per sempre la struttura. Le stanze di quest'albergo sono rivolte ai personaggi che incontriamo nella lettura. Essi, nei momenti di sconforto, saranno i nostri migliori e autentici amici e consolatori e consiglieri. Credo che alcune di queste stanze spettino di diritto ai pazienti del dottor Sacks, ai "Gemelli", a Josè, a Martin, a Rebecca, a Ray, al dottor P., a Jimmie, a Natasha K., a Bhagawhandi e agli altri. Uomini e donne dall'anima profonda, capaci di insegnare a vivere nonostante la loro esistenza sia difficile e la loro forza vitale sia per certi versi inspiegabile.

Piero Canale


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Non ti muovere



Margaret Mazzantini, Non ti muovere, Milano, Mondadori, 2002, 295 pp., ISBN 978-88-04-48947-2.

Si può banalizzare la trama di qualsiasi romanzo. Seguendo questo principio, Non ti muovere è la storia di un tradimento … ma neanche per sogno.
Margaret Mazzantini ci racconta tre vite di donna guardate attraverso la vita di un uomo. Un uomo che finalmente, in un momento tragico della sua vita (il gravissimo incidente di cui è rimasta vittima la figlia), trova il coraggio di guardare spietatamente anche la sua.
C’è la relazione coniugale più o meno banale, semplice: appassionata in certi momenti, in via di esaurimento in altri. C’è il rapporto con la figlia, sempre tenero, anche se a volte un pò distante.
E c’è soprattutto il rapporto con Italia, la donna del caso, la prostituta, la negazione della sensualità, la reietta. Ed è proprio in questa strana relazione, all’inizio rabbiosa e brutale, poi sempre più umana ed accorata, che il protagonista della storia ritrova la sua umanità.
Attraverso un percorso molto tortuoso, egli si impegnerà faticosamente, dolorosamente e, a volte anche contro la sua volontà, prima a vedere e poi a rispettare l’umanità dell’altra.
In tutto ciò le altre due figure femminili (Elsa, la moglie ed Angela, la figlia) non restano sullo sfondo, non sono creature di contorno, vivono della loro vita e hanno la possibilità di imporsi con le loro risorse che nascono dalla personalità, dai sentimenti, dalle certezze acquisite.
Italia, invece, queste risorse non le ha: sa solo di essere un mucchietto d’ossa, un corpo consumato che tutti possono usare; è questa la sua certezza e in questa rimane, senza opporvisi, fino alla fine.
La fine, tragica, le riconsegnerà, anche se troppo tardi, tutta intera la sua dignità.
Ma il romanzo si impone anche per un’altra scelta dell’autrice, un particolare che può anche sfuggire: è scritto in prima persona, a parlare è il protagonista. Si tratta di un uomo. Margaret Mazzantini è una donna, ma lo dobbiamo ricordare ad ogni pagina, perché lo si dimentica facilmente.

Vincenzo Bagnera


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Fortuna, il buco delle vite



Jolanda Buccella, Fortuna, il buco delle vite, Maserà di Padova, Ciesse, 2012, pp. 592, ISBN libro 978 88 6660 0442.

Quando ho ricevuto in regalo il romanzo di Jolanda Buccella, sono rimasta un tantino turbata: 592 pagine scritte da un esordiente mi sono sembrate davvero tante. Ho iniziato ad osservarlo con una certa freddezza, non mi piaceva nemmeno il titolo, non capivo il nesso con l’immagine di copertina raffigurante una bellissima donna immersa in una natura lussureggiante . Poi, invece, l’ho aperto, ho cominciato a leggerlo e non sono più riuscita a fermarmi.
La protagonista di questo romanzo - che impareremo anche a conoscere col soprannome di Piccoletta la barbona e quello di Fortuna - è J.. Tre nomi per tre vite totalmente diverse l’una dall’altra. Iniziamo a leggere di lei quando è ancora una simpatica ragazzina con i capelli rossi e gli occhi verde smeraldo, affetta da una grave malformazione alla colonna vertebrale: la spina bifida – quel buco della vita - che influenzerà in modo negativo il legame fondamentale tra la bambina e sua madre Anita, splendida ex ballerina costretta ad abbandonare il sogno di danzare nei migliori teatri del mondo per accudire la figlia. Un rapporto difficile, costellato dal visibile astio della madre per la carriera irrimediabilmente compromessa e dalla sofferenza della piccola J. sommersa dai sensi di colpa. Dolore smorzato parzialmente dall’amore di nonna Umberta Prima Rizzutelli, una donna un po’ eccentrica ma dal cuore d’oro che riesce a carpire tutte le migliori qualità della nipotina.
Dopo un’adolescenza dilaniata da gravi disturbi alimentari, sorti in seguito alla morte di Umberta, J. trova il coraggio di reagire: fugge dalla casa natìa e si rifugia a Roma nella speranza di poter dare un taglio netto al passato. Nella capitale troverà, però, una nuova e amara dose di sofferenza. Sola e senza soldi si ritrova a vagare per le strade di una città fredda e ostile. Così J. – spogliatasi della vita precedente e divenuta Piccoletta la barbona - vivrà più di dieci anni, quasi senza accorgersene, lottando spietatamente per la sopravvivenza. È quasi allo stremo delle forze quando finalmente arriva la svolta: l’incontro improvviso e inaspettato con Nadir, affascinante medico ruandese che, giorno dopo giorno, riuscirà a restituirle un posto dignitoso nella società e a darle l’opportunità di conoscere il significato più autentico della parola amore.
Una donna, tre vite vissute con dolore, passione, angoscia e speranza che si svolgono in un crocevia di luoghi: dall’Italia del piccolo paesino in provincia Salerno e della splendida capitale al Ruanda dilaniato dal terribile genocidio dei tutsi, avvenuto nell’aprile del 1994.
      Tre vite profondamente diverse l’una dall’altra che, come un complicato puzzle, si ricompongono davanti agli occhi della donna - ormai condannata a morte in un’anonima prigione ruandese - intenta ad afferrare i fantasmi del passato. Tra lutti devastanti, abbandoni insopportabili e amori negati che l’hanno trascinata nella disperazione più profonda, insegnandole comunque a rialzarsi ogni volta con maggiore determinazione, questo romanzo - per certi versi crudo, spietato, avvincente e capace di lasciare con il fiato sospeso - regala al lettore una sfumatura di emozioni forti e inaspettate fino all’ultima pagina.
La giovane autrice è riuscita nel difficile tentativo di scrivere una storia lunga ma mai ripetitiva, toccando temi di forte impatto sociale come la disabilità e i disturbi alimentari senza per questo correre il rischio di risultare retorica.
La sua scrittura, semplice ma efficace, riesce a coinvolgere il lettore e a farlo immedesimare  nelle storie dei personaggi raccontati sempre in modo geniale e con dovizia di particolari.

Marta Lodetti


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Buenos Aires 22



Benedetta Tomasello, Buenos Aires 22. Poesia di un amore sincero, Roma, Edizioni Libreria Croce, 2012, pp. 88, (Ozio sapiente), ISBN 978-88-6402-167-6.

Non conosco personalmente Benedetta Tomasello e non conosco la sua storia. Buenos Aires 22. Poesia di un amore sincero è carico di indizi, di cifre nascoste di una vita, di una famiglia, di una casa. Averlo letto, mi fa pensare che ci sia più che uno spaccato timido e mal celato della vita dell'autrice, in questo racconto così appassionato e carico di sentimenti e di storie di famiglia. Un senso di famiglia, che in molti ricorre, l'insieme delle sciagure e dei sentimenti e dell'unione forte dei legami di sangue. Il pane condiviso, le mani strette, la violenza delle parole.
Non è tuttavia un libro duro, o che si abbandona alla sterile elegia di un tempo passato: Buenos Aires 22 è anche una poesia d'amore, è soprattutto un componimento d'amore. Un amore grande, che va oltre l'unione di due persone. È la lirica che accompagna e contraddistingue la vita e la sorte di molti siciliani, costretti all'emigrazione, a cercare un lavoro, a contrastare la lontananza di un amore e la nostalgia dei familiari. Mi vengono in mente le foto e gli altarini degli emigranti italiani all'estero. La vita vera e sofferta è presente nelle pagine di questo volumetto. E forse ancora in questo tra mattoni e un pub e un ricordo di un asilo o dell'arena, scaturisce il sentimento profondo che ha portato Benedetta Tomasello a porgere la mano a una stella - forse quella buona stella del papà - che brillerà «eternamente anche se in cieli diversi».

Piero Canale


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L’agenda rossa di Paolo Borsellino



Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, L’agenda rossa di Paolo Borsellino, prefazione di Marco Travaglio, Milano, Chiarelettere, 2007, 238 pp., ISBN 978-88-6190-014-1.

Negli ultimi anni molto è stato detto e fatto per celebrare l’eroica figura di Paolo Borsellino. Molto poco, invece, si sa dell’ultimo periodo della sua vita, ovvero quei famosi 56 giorni che separano la strage di Capaci dall’esplosione di via D’Amelio, quando qualcuno decide la sua condanna a morte.
In questi ultimi giorni si torna a parlare della famosa agenda rossa di Paolo Borsellino. Cosa conteneva questo documento scottante che il magistrato palermitano portava sempre con sé? Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, in questa pubblicazione del 2007, ricostruiscono e delineano, uno dopo l’altro, gli ultimi 56 giorni di vita di Borsellino servendosi delle carte giudiziarie, delle testimonianze dei pentiti, delle confidenze di familiari, colleghi e investigatori.
Vengono fuori delle pagine al cardiopalma in alcune delle quali si possono veramente rintracciare stralci di quell’agenda maledetta dove Borsellino annotava le riflessioni e i fatti più segreti. Qualcuno ebbe fretta di farla sparire: ma chi poteva sapere che quel documento, che tra l’altro il giudice utilizzava da poco tempo, gli serviva per annotare i suoi pensieri e i fatti più scottanti? Borsellino poco tempo prima di essere assassinato, confidò, in lacrime, di essere stato tradito da un amico. Chi è questa persona? E perché dopo la strage di Capaci nessuno degli investigatori nisseni, che si occupavano dell’eccidio, ebbe l’accortezza di interrogare Borsellino che, com’è noto, doveva sapere molte cose? Sicuramente, dopo l’uccisione di Falcone, era diventato un soggetto troppo scomodo che sapeva troppo e soprattutto annotava troppo.
In quell’agenda doveva essere scritto tanto. Chi incontrava, chi intralciava il suo lavoro in procura, le verità che andava scoprendo. Lasciato solo negli ultimi giorni della sua vita, soprattutto da uno Stato se non complice volutamente indifferente, disse: «Ho capito tutto…mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia…Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».

Biagio Bertino


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La versione di Barney



Mordecai Richler, La versione di Barney, Milano, Adelphi, 2004, 490 pp., ISBN 978-88-459-1570-3.

"Senti, Miriam è a Toronto, e tu sei qui. Divertiti un po'".
"Non capisci".
"No, sei tu che non capisci. Alla mia età non rimpiangerai
le marachelle che hai fatto, ma quelle che non hai fatto".


C'è questo tizio di circa sessant'anni, non troppo straordinario, che nella sua vita ha vissuto un po' di eventi straordinari. Si chiama Barney ed è canadese. Di Montréal, per la precisione. Ha avuto tre mogli, di cui una (la prima) morta suicida, un amico, tanto genio quanto fallito, della cui scomparsa è stato accusato, e soprattutto ha frequentato, durante la sua bohème parigina, un tizio che ha avuto la ventura di diventare uno scrittore famoso e la pessima idea di scrivere un libro di memorie (Il tempo, le febbri – il titolo lascia intendere con miracolosa chiarezza di che razza di scrittore stiamo parlando), pieno di menzogne su Barney. O almeno: menzogne a detta di Barney. Che decide, quindi, di mettersi a scrivere a sua volta (infrangendo un solenne giuramento) per stendere la propria autobiografia. Ossia, la propria versione della propria vita.
Se Barney racconti bugie o meno, non ci è dato saperlo. Che sia sincero, invece, è una certezza.
Nel suo ultimo lavoro, dato alle stampe nel 1997 (2001 in Italia), Mordecai Richler (1931-2001) celebra la vita nella sua pienezza contraddittoria, fatta di gioia e dolore, povertà e ricchezza, amore e tradimento, giovinezza e vecchiaia, memoria e oblio. Presta al suo protagonista una serie di vizi, tratti biografici, visioni del mondo e tic che gli sono propri (il whisky, i sigari, l'origine ebraica, l'umile estrazione sociale, la verve polemica, per nominarne alcuni) e crea un personaggio a cui manca soltanto un documento d'identità perché si crei la ressa di ambasciatori che vogliono offrirgli la cittadinanza onoraria della propria nazione.
Molti hanno visto nella vita di Barney una autobiografia romanzata e camuffata di Richler, dimentichi del fatto che, per scrivere un libro come questo, con un personaggio così fortemente caratterizzato, bisogna pur attingere da qualche parte; e da dove, se non dalla propria vita?
Certe cose si imparano leggendo, altre semplicemente vivendo: si può imparare dalle pagine di un libro come si convive per una vita col senso di colpa per aver causato il suicidio di una donna fragile e insopportabile che si è sposata più per dovere che per amore?
Si può imparare come sopprimere il rimorso per avere dilapidato un patrimonio inestimabile di sentimenti tradendo l'unica, straordinaria donna che si sia mai realmente amata?
Si può capire come ci si sente a vedere il più dotato dei propri amici, quello per il cui talento si prova la più smisurata ammirazione e la più sfrenata soggezione, affannarsi ostinatamente a trasformare se stesso nelle macerie di ciò che avrebbe potuto essere? E che profonda antipatia si può arrivare a provare per un altro che, sopperendo con l'ostinazione al talento, diviene un'istituzione della letteratura inglese contemporanea?
No. Ma Richler dimostra, una volta per tutte, che uno scittore realmente bravo può agevolare notevolmente il lettore in un'impresa del genere. Uno scrittore realmente bravo e di una certa età. O, quantomeno, con una buona dose di vissuto alle spalle. Chi scrive propende per la prima ipotesi: certi libri si possono scrivere, senza cadere nel manierismo, solo dopo aver vissuto un certo numero di anni.
È innegabile che, lasciandosi trasportare dalla prosa equilibrata e raffinata dell'autore canadese, caratterizzata da periodi a volte anche ampi, ma mai prolissi, trasudante cultura ma senza accenni di cedimento alla stucchevolezza, venga quasi da pensare “questo tizio vorrei conoscerlo e sentirlo parlare per ore”, sorprendendosi nel ricordare che il tizio in questione non esiste. E, meglio ancora (forse il risultato migliore che un certo tipo scrittore possa auspicarsi), la lettura di certe pagine dense di battute fulminanti e personaggi delineati con pochi, essenziali tratti, riempie il lettore di una insopprimibile voglia di guadagnare la porta di casa e ficcarsi nel folto della vita, nella folla di personaggi, il più possibile simili a quelli del libro, che ognuno sa dove trovare, se conosce veramente certi luoghi della propria città.
E, a proposito di città, anche questo romanzo di Richler è ambientato a Montréal, sua città natale, della cui evoluzione, nel corso delle proprie opere, ha steso un ritratto vivissimo, partendo dal nucleo della comunità ebraica (di personaggi che vi appartengono, di termini Yiddish, di ironia giudaica sono pieni tutti i suoi libri, compresso quello in questione), a volte limitandosi ad essa, altre (come in questo caso) con uno sguardo rivolto all'esterno (le vicende narrate si svolgono in due continenti).
Nonostante Barney sia schifosamente ricco e notevolmente scafato, deve arrendersi alla malattia che lo priverà dell'ultimo, persa la moglie e l'intimità dei figli, tesoro che gli rimane: la memoria. Ebbene sì, il nostro soffre di alzheimer. E Richler ha sparso indizi lungo tutta la storia, tanto che, ad un certo punto, terminare la sua autobiografia diverrà per Barney una lotta contro il tempo. Per nostra fortuna, il personaggio di Richler la vince. Altrimenti, senza nessuno a raccontarla, sarebbe stato un po' come quando Boogie (l'amico idolatrato da Barney) racconta l'incipit del suo, eternamente incompiuto, romanzo:
(...) il protagonista sbarcava dal Titanic, approdato senza incidenti al molo di New York dopo una traversata inaugurale. E qui veniva abbordato da una cronista, che voleva sapere come era stato il viaggio.
Risposta: “Noiosissimo”.

Dan Skorsky


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Ave Mary



Michela Murgia, Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna, Cles (Trento), Einaudi, 2012, 166 pp. (Super ET), ISBN 978-88-06-21458-6.

Dalla partecipazione ad un convegno in Sardegna sul ruolo della donna è scaturita la  volontà della scrittrice di riflettere più a fondo su questo tema. La Murgia, già vincitrice del Premio Campiello 2010 per Accabadora, è dichiaratamente una cattolica praticante che ha voluto rileggere, a partire dalla figura biblica della Madonna,  la realtà contemporanea femminile. Nell'introduzione ne spiega il motivo: «Sono sempre stata convinta che l'educazione cattolica abbia ancora un ruolo fondamentale nel fornire chiavi di lettura al nostro mondo, e anche quando crescendo molti abbandonano le convinzioni di fede o quando non le hanno mai avute, quell'imprinting culturale non viene mai meno, anzi continua a condizionare il nostro stare insieme di uomini e donne. Con tanta più efficacia di quanto meno viene compreso e criticato» (p. 7).
Sedimentazione – anche inconscia – di modelli (con riferimenti anche alle altre figure femminili bibliche) dunque, ma questo nelle intenzioni vuol essere un «libro di esperienza e non di sentenza»(p. 7). Non è una catechesi, ma la trattazione, in altrettanti capitoli, di sei temi-cardine della quotidianità sociale italiana, cercando di analizzarne le possibili radici nella formazione cristiano-cattolica. La scrittrice asserisce e argomenta così che tali origini, più o meno intenzionalmente, a tratti molto si discostano dalla effettiva narrazione biblica: l'immaginario collettivo nei secoli ha fatto di Maria la Madre e la donna angelicata assunta in cielo come in trionfo di Murillo. Ma in effetti Maria era la timida ragazza annichilita dall'annuncio, dipinta da Rossetti o, come scrivono i testi, una coraggiosa sedicenne che ha scelto autonomamente di dire 'sì' alla domanda dell'Angelo?  La risposta si svela nel corso della lettura.
Tratta il tabù della morte il primo capitolo («L'Italia è una repubblica fondata sulla negazione della morte», p. 10), che implica il “morire” dell'uomo e l'”essere morta” della donna; il secondo è il capitolo della Mater dolorosa, del vincolo cioè che lega la maternità al dolore – sia fisico che spirituale – da Eva in poi. Murgia prosegue, nel terzo capitolo, con l'analisi della “santità” femminile: se prima passava obbligatoriamente dal velo o dalla eroica castità, ora sembra dipendere dalla custodia esemplare del focolare domestico; nel quarto tratta di bellezza, partendo dall'assunto del kalòs kai agathòs e di Dorian Grey, la scrittrice scrive: «sono sempre le donne protagoniste dei messaggi pubblicitari collegati alle disfunzioni corporali, e spesso sono donne non più giovani il cui decadimento fisico è un appetibile terreno di marketing» (p. 89).
Dio è padre o madre? Il penultimo tema affrontato nel volume sembra esser stato risolto da Ratzinger con l'espressione del luterano Bonhoeffer: Egli è il “totalmente Altro”, ma il discorso argomentato è più vasto. L'ultimo capitolo parla di matrimonio, del rapporto uomo/donna tradizionalmente raffrontato a quello Cristo/Chiesa: ma la subordinazione femminile è veramente scritta nella Bibbia? Quale parte è storicizzazione e quale dottrina?
Lo sguardo critico della Murgia non è spassionato, perché, essendo donna, è di parte: ma è di certo sincero, perché «da questa storia falsa non esce nessuno se non ci decidiamo a uscirne insieme» (p.8).

Eloisia Tiziana Sparacino


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