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giovedì 5 giugno 2014

Basilico Palermo andata e ritorno

Elisa Fulco, Basilico Palermo andata e ritorno. Gabriele Basilico in conversazione con Ferdinando Scianna, Palermo, Edizioni di Passaggio, 2007, 159 pp., ISBN 978-88-901726-2-5.

Il libro è il racconto visuale della Palermo degli anni ’90 attraverso l’obiettivo di Gabriele Basilico, riproposizione delle 37 foto che erano state esposte al Loggiato San Bartolomeo per la mostra Palermo Città (18 maggio-18 giugno 1998). Le foto, in rigoroso bianco e nero, mostrano alveari-dormitorio (non monumenti!), trafficato tessuto urbano, squarci postbellici nelle murature del centro storico, invasivi cartelloni pubblicitari, lisci intonaci con graffiti politicizzati, e così via.
A queste immagini ne sono state aggiunte altre a colori, che non avevano trovato posto in mostra: il porto della Cala, il cielo serotino, i banchetti degli ambulanti. L’umanità è quasi assente – e comunque sempre di contorno –, sostituita dalle macchine in sosta, vere protagoniste che popolano vicoli e slarghi. È qui, nel dettaglio degli intonaci scrostati e nelle connessure delle basole della pavimentazione stradale, che più si coglie la formazione di Basilico, architetto fotografo.
Le pagine di tutto il libro sono binate, alternando immagini a pagina intera con i brani di una conversazione fra Gabriele Basilico e Ferdinando Scianna, altro fotografo grande narratore della palermitanità della gente di Palermo. «Perché Scianna? Per quella particolare qualità di ‘distanza’ che si stabilisce tra i due e che pure sembra farli incontrare da qualche parte: due fotografi che portano avanti delle ricerche del tutto antitetiche, l’una centrata sui luoghi e l’altra sul vissuto e gli abitanti dei luoghi […]. L’uno noto per un linguaggio visivo classico e sobrio, l’altro noto per la carnalità dell’approccio alle cose» [p. 9]. E questa dicotomica contrapposizione si coglie proprio in una domanda diretta di Scianna al collega sull’assenza della presenza umana. La risposta è chiara: «Per me il vuoto non è lo spazio dove manca qualcosa o qualcuno, è uno spazio costruito che, a causa dell’assenza degli uomini, diviene protagonista di se stesso» [p. 36]. Dunque spazio vuoto, silenzioso, non monumentale, mai giudicato né criticato, in una fotografia descrittiva, anzi ‘documentaria’; la committenza di queste foto (Elisa Fulco, Joselita Ciaravino, Massimo Cucchiara) sentiva la necessità di «un’immagine di rottura, di un’esperienza che aiutasse a restituire la realtà in maniera diversa, senza sguardi compiaciuti sul passato storico della città. Un’esperienza che mostrasse infine il volto della città nuova facendo a pezzi l’iconografia consueta di Palermo: i vicoli, i mercati, il fascino del degrado» [p. 121].
In conclusione: non è un libro da sfogliare distrattamente, perché non ha allietanti immagini da cartolina e il testo è sì una dissertazione breve, ma pesante da leggere per i ‘non addetti ai lavori’. Bisogna ponderare le immagini e calarsi nel silenzio, pronti alla sensazione di estraniamento di un genere di fotografia ‘altra’, per non dare un frettoloso giudizio di ordinarietà o, peggio, squallore.

Eloisia Tiziana Sparacino


Dono dell'editore



Muscodol

Alessandro Musco, Muscodol, Palermo, Novantacento edizioni, 2014, 95 pp. (I libri di S), ISBN 978-88-96499-46-7.

Senza doverci spostare troppo indietro nel tempo, se questa raccolta fosse stata pubblicata tre mesi fa, durante la sua lettura avrei di certo inviato un messaggio al professore Musco con scritto: - Prof., sto leggendo la raccolta Muscodol e mi sto divertendo un sacco! - ; e lui sicuramente mi avrebbe risposto con un: - Agostella! - è così che mi chiamava, con il soprannome che devo a lui, per altro - Ammuccamu! – tipico suo intercalare, per esprimere un compiacimento lieto e da condividere.
Questa più che una recensione canonica, vuole essere un pretesto per scrivere un ricordo di una persona che tanto ho ammirato, un buon amico, nonché un esempio di rigore e precisione sul lavoro.
Il volume Muscodol, pubblicato in questi giorni dal gruppo editoriale Novantacento ed allegato alla rivista «S», è la raccolta degli articoli scritti da Alessandro Musco, nello spazio dedicato alla sua rubrica all’interno del medesimo periodico e su LiveSicilia.it, rubrica che curava da poco meno di due anni e bruscamente interrotta nel marzo scorso, a causa della sua improvvisa scomparsa.
Gli articoli rivelano uno spaccato realistico e crudo di quella sicilianità, che tanto amava, nella consapevolezza delle innumerevoli falle che perdono acqua da ogni settore: politica, lavoro, occupazione, forma mentis.
Alessandro Musco scrive con un gusto che definirei “auto-ironico”, da siciliano «radicato ed incarcato» [p. 83], come si definiva lui stesso e come si definisce all’interno di uno degli articoli contenuti nella raccolta.
Accostandosi al testo, il lettore non può che sorridere di un riso amaro e malinconico sulle disgrazie più profonde della Regione Siciliana, unica regione con «l’aggettivo che fa la differenza» [p. 15], come viene spiegato in uno dei contributi.
Un’ironia sferzante e pungente, che cede il passo a sottili e celate parole ed intendimenti non detti, e nonostante ciò evidenti alle menti più lucide ed attente. Un flusso di scrittura rapido, dai voli pindarici e dalle argute associazioni mentali.
Musco era ciò che scriveva: schietto, diretto, mai offensivo, ma allusivo, e per questo in grado di colpire e far ugualmente sentire offeso chi si trovava ad essere dalla parte del torto; per ritrovare i medesimi giri retorici e le uguali abili doti nell’arte della parola occorre risalire fino ai retori dell’antichità classica, protagonisti indiscussi della sua formazione personale, dei suoi studi e dei suoi interessi, che manteneva vivi ed in continuo aggiornamento, non smettendo mai di apprendere, pur essendo ormai un affermato docente di Storia della filosofia medievale presso l’Università degli Studi di Palermo. Fino alla fine è stato anche Presidente e anima dell’Officina di Studi Medievali.
Spesso, quando noi giovani collaboratori andavamo via dall’Officina a tarda sera, lo trovavamo concentrato ed estraniato a scrivere al suo pc, forse il suo prossimo articolo da pubblicare proprio su «S»; notandoci sulla soglia della porta della sua stanza, interrompeva la scrittura e ci salutava con il suo solito ampio sorriso, che partiva dagli occhi e si espandeva fino a noi, mischiando qualche parola in siciliano, idioma a lui caro e ricorrente anche negli articoli di questa raccolta.
Questo volume sarebbe stato per lui un gradito omaggio, ancor più per la premessa in esso contenuta, redatta dal figlio Alberto, il quale riporta la personale visione del padre, scevra da stereotipi o da etichette accademiche, e semplicemente descritto come figura paterna.
È un volume che consiglio a tutti di leggere: a chi non conosceva Musco per provare ad immaginare la straordinaria personalità di quest’uomo; ai siciliani per riuscire a leggere con leggerezza e piacere alcuni aspetti rognosi della Sicilia; ai non siciliani per capire che si può – e si deve –  sorridere di ciò che, in realtà, ci penalizza e ci paralizza; e soprattutto lo consiglio a chi, come me, ha conosciuto Alessandro Musco, per tentare di rivivere, per un’ultima volta ancora, il particolare ed unico sapore che avevano le chiacchierate assieme a lui.
Il professore poteva permettersi di criticare la Sicilia ed i siciliani, perché sentiva viscerale e predominante la sua appartenenza a questa terra Sicula, ed è questo l’aspetto che predomina all’interno di ogni articolo della raccolta.
Pagine intense e fitte di cronaca e di politica, attualissime e ben comunicate al lettore.
Solo una volta il tono si sposta verso la formulazione di un desiderio personale, all’interno dell’articolo dedicato idealmente alla Befana, in vista della conclusione dell’anno. Musco dichiara il desiderio di non volere ricevere per tutto il nuovo anno «sorprese di nessun tipo, misura o dimensione e neppure novità impreviste» (p. 83) per sé e per la sua Sicilia; mentre, invece, quasi facendosi beffa di questa piccola richiesta, il nuovo anno ha portato l’imprevisto più inatteso e più definitivo che si potesse aspettare: il nuovo anno ha portato via con sé il professore Musco.
Eppure credo che, se anche avesse saputo ciò che lo attendeva dopo appena due mesi di questo 2014, avrebbe scritto esattamente le stesse parole, così da farle citare o riportare postume da qualcuno, in suo ricordo, come in un malinconico ed ironico scherzo teatrale, quasi da finale di romanzo. Una teatralità senza maschera.
Professore, posso solo aggiungere che, purtroppo, la sua richiesta personale non è stata rispettata, però le assicuro che il resto del desiderio, quello riguardante la Sicula terra, procede alla grande! Infatti non è ancora cambiato nulla, le buche stradali sono ancora lì e della fila alle poste non possiamo che lamentarcene.
Confesso, infine, che mi mancherà domani non potere commentare assieme al Prof. questa simpatica raccolta, magari davanti a un bello caffettino, come eravamo soliti fare.

Agostina Passantino





La biblioteca dei "libri liberati" intitolata a Sandra Novelli (a cura di Eloisia Tiziana Sparacino)

«I libri hanno un'anima e possono aiutarci a liberare la cultura. Allora perché tenerli chiusi nelle nostre cantine quando possono diventare compagni di strada di tante persone che non possono permettersi di comprarli?»
Con queste parole si apriva, nell'autunno del 2012, la campagna Dona un libro per liberare la cultura, promossa dall'associazione Librido - Laboratorio di Studi e Servizi Culturali. L'obiettivo era quello di creare una biblioteca di quartiere, grazie alle donazioni di cittadini, editori, istituzioni e biblioteche.
Perché creare una biblioteca? Le ragioni sono tante: da quelle personali dei singoli soci di Librido, a quelle personali dei donatori dei libri "liberati", a quelle fortemente culturali e sociali, che spingono dei laureati e degli esperti in materie biblioteconomiche a mettere gratuitamente a disposizione le loro competenze a favore della città. Tuttavia preme di più sottolineare l'importanza di una biblioteca nei quartieri periferici delle grandi città, come Palermo.
La biblioteca è un «facilitatore della conversazione»[1] e poiché la conoscenza si crea tramite la conversazione, ogni biblioteca è coinvolta nei processi di diffusione e di trasferimento di conoscenza. É chiaro che da questo punto di vista la biblioteca smette di essere un deposito di conoscenza e diventa un soggetto di disseminazione della conoscenza stessa.
La biblioteca di quartiere vuole essere un punto di riferimento, quale luogo di incontro, rinascita, riscatto sociale, educazione, formazione, confronto. Per questo motivo il motto di una biblioteca di quartiere può racchiudersi in quattro brevi parole: «di tutto per tutti». Ogni genere di conoscenza e di informazione deve pertanto essere fornita a tutti senza distinzione di età, razza, sesso, religione, nazionalità, lingua o condizione sociale. I servizi che una biblioteca intende offrire al quartiere e ai cittadini devono necessariamente essere alla portata di tutti, anche (e soprattutto) a chi non frequenta la biblioteca, in modo da contribuire smantellare un sistema di pensiero che tende alla ghettizzazione e alla marginalizzazione sociali, che sempre più è cifra del mondo post-moderno.
L'idea di biblioteca di quartiere è quindi quella di uno spazio condiviso, persino nell’uso dei cataloghi e nell’interazione sul web (come avremo modo di spiegare più avanti), che ha il compito di dare voce alla cultura locale e quella straniera (con riferimento agli immigrati); di documentare la cultura contemporanea; di alfabetizzare fornendo risposte di prima informazione su qualunque area tematica e di formare supportando i percorsi formativi di autoapprendimento.
La biblioteca deve garantire il pluralismo della società contemporanea ed essere in grado non solo di insegnare ma di dimostrare in modo pratico che la diversità è una ricchezza culturale e che non solo vanno abbattute le barriere economiche, ma anche e soprattutto le barriere ideologiche e culturali tra i cittadini e le informazioni. 
La biblioteca di quartiere ha come principale target i giovani e i bambini. Spiegare e far conoscere alle nuove generazioni cosa è una biblioteca e in che modo servirsene. Far conoscere le collezioni e i vantaggi, le possibilità di conoscenza, divertimento e accrescimento date gratuitamente (prestito di libri, dvd, cdrom, fumetti, navigazione su internet). E soprattutto far sentire e dimostrare che la biblioteca è un luogo d’incontro e confronto attivo, dov’è possibile passare del tempo in un ambiente accogliente, piacevole e sicuro.
La biblioteca di quartiere non vuole essere qualcosa di straordinario: mira semplicemente ad essere libera, imparziale, universale, intergenerazionale, inclusiva, gratuita, finanziata, sociale, amichevole, centrata sull’utente, locale, interculturale e multilingue, multimediale, contemporanea, reticolare…in una parola? Vuole essere pubblica e svolgere la propria attività all'interno del quartiere nel pieno rispetto di quanto sancito dall'articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Dopo un anno e mezzo la campagna Dona un libro per liberare la cultura ha dato il suo frutto più sperato. Giorno 22 maggio 2014 è stata inaugurata la biblioteca nell'Istituto Comprensivo Crispi-Cocchiara-V.Veneto di via Barisano da Trani (PA): il Consiglio d'Istituto, con a capo il dirigente dott. Giusto Catania, ha voluto credere nel progetto dell'Associazione Librido, offrendo i locali e le strutture. La biblioteca, oltre ad essere rivolta agli studenti dell'istituto, sarà anche accessibile ai cittadini del quartiere, garantendo l'apertura pomeridiana. Il progetto prevede inoltre la catalogazione del patrimonio librario su SBN, polo nel quale sono presenti ancora pochissime biblioteche scolastiche.
Saggi, romanzi, libri di testo, fiabe, enciclopedie, racconti, vocabolari, testi universitari, atlanti e monografie "liberati" si sono affiancati al fondo bibliotecario scolastico preesistente, pronti per essere ordinati, collocati, catalogati in rete e resi fruibili a tutti.
Nella cerimonia di inaugurazione il dirigente dott. Catania, ha scoperto una targa che intitola la biblioteca a Sandra Novelli, docente dell'Istituto da poco scomparsa.
Oggi, fra applausi e lacrime, è nata una biblioteca. E come scriveva Marguerite Yourcenar: «Fondare biblioteche è un po' come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l'inverno dello spirito».


In principio era il caos...
Con impegno...
Con tanto impegno...
Gli scaffali si riempiono dei libri "liberati"
Cerimonia commemorativa di Sandra Novelli
Il dirigente scolastico Giusto Catania e il marito di Sandra Novelli scoprono la targa
Biblioteca "Sandra Novelli"



[1] R. David Lankes, Joanne Silverstein, Scott Nicholson, Information Institute of Syracuse, Syracuse University’s School of Information Studies. 

La carta più alta

Marco Malvaldi, La carta più alta, Palermo, Sellerio, 2012, (La memoria; 875), 198 pp., ISBN 88-389-2608-5.

Un libro si compra perché è un must di stagione e lo hanno letto tutti, e non puoi sfigurare con il tuo parrucchiere. O perché piace la copertina, perché è scritto bene, perché ha una bella trama, perché te lo raccomanda qualcuno, o perché…sì.
Questo libro non è (per ora) un obbligo sociale, però appartiene alla collana ‘La memoria’ della Sellerio, con la grafica minimalista colorata che piace sempre, e sta comunque bene sul tavolinetto fiancodivano. Motivazione anche frivola, dite? Se non bastasse l’autore, Marco Malvaldi ha evidentemente letto tanto – e bene! – di filosofia e letteratura, ma la sua scrittura chiara e discorsiva è leggibile e godibile ‘a strati’, dal ragazzo al lettore smaliziato. La citazione di striscio, la metafora palese, l’aggettivazione talvolta colta alternata al linguaggio informale, ma mai pesante, creano il piacere intellettivo anche della ‘caccia al tesoro’ e del rimando evocativo.
La trama è accattivante: nella provincia toscana, al tavolinetto sotto l’olmo del classico baretto in centro, quattro arzilli vecchietti si riuniscono quotidianamente a giocare, fumare, sparlare e bere con buona pace del barrista Massimo. Ed è con gli occhi di quest’ultimo che viene raccontata, ironicamente e spietatamente, la quotidianità cittadina: la vicina Gorgonoide («un comodino di un metro e cinquantacinque con una ghigna da incrinare i vetri, che presumibilmente non aveva mai salutato nessuno in vita sua: una cosa antropomorfa di aspetto gretto», p. 13); la ex che ritorna («la mai troppo rimpianta banconista, Tiziana dai capelli ramati e dalle puppe spettacolari», p. 12); i litigi degli irriducibili vecchietti nonno Ampelio, il Rimediotti, il Del Tacca e Aldo («A parte Aldo, tutti gli altri giovincelli hanno da tempo festeggiato il ‘doppiaggio’, ovvero il fatto di aver passato più anni in pensione che a lavorare: una di quelle tradizioni italiche d’altri tempi che piano piano sono destinate a sparire, nonostante l’aumento della durata della vita media», p. 23).
Loro sono stati già protagonisti delle opere precedenti di Malvaldi: La briscola in cinque (2007), Il gioco delle tre carte (2008), Il re dei giochi (2010), sempre per i tipi di Sellerio. Anche qui, con battute, indiscrezioni e critiche corrosive, sono loro la vera fonte di notizie che permettono a Massimo, immobilizzato in ospedale, di ricreare e dipanare il mistero di un giallo che ha sconvolto la pace della città. La tecnica ‘investigativa’ sarebbe la più classica, quella deduttiva, britannica e razionale di Poirot e Holmes, se solo non fosse così intrisa di italianità, e l’empatia scatta immediata.
Se ancora questo libro non ve lo ha consigliato nessuno, rimedio io: è vivace, intelligente, spiritoso, mai becero né volgare. E se ancora volete sapere perché leggerlo: perché sì.


Eloisia Tiziana Sparacino



Un ragazzo

Nick Hornby, Un ragazzo, Milano, Tea, 2007, 265 pp., ISBN 978-88-7818-880-8.

La stravaganza e la spensieratezza che avevano caratterizzato i due primi romanzi di Nick Hornby – scrittore inglese classe ’57 – ossia Febbre a 90° e Alta fedeltà, non mancano in questo terzo volume, che invece, rispetto ai precedenti, sembra essere il frutto di una più matura rielaborazione critica personale dei temi afferenti alla sfera emozionale e sentimentale.
Questo romanzo racconta una storia d’Amicizia (la “A” maiuscola non è un errore di battitura) tra due persone anagraficamente molto distanti tra loro: uno è Will, “giovane” trentaseienne, fresco, alla moda (“COOL” dice lui), ma allo stesso tempo cinico e immaturo, senza alcuna voglia di invecchiare; l’altro è Marcus, ragazzino di dodici anni, figlio di genitori separati, molto maturo per la sua età, che non ha molti amici ed è bersaglio di soprusi da parte dei bulli di turno. La storia si svolge in una uggiosa Londra degli inizi degli anni ’90: Will è impegnato a infilarsi nei letti di mamme single, anche a costo di inventarsi un fantomatico figlio di Ned. È a questo punto che intervengono nella sua vita Marcus e sua mamma, Fiona: in un primo momento, Will non vuole avere niente a che fare con loro, ma col passare del tempo, imparano gli uni dagli altri. O meglio, l’uno ha bisogno dell’altro: Will insegna a Marcus ad agire come un dodicenne, e Marcus, a sua volta, insegna a Will a diventare uomo.
Il libro è molto divertente. Il lettore si trova a condividere empaticamente le emozioni dei personaggi in maniera spontanea, perché questi sono molto ben descritti in quello che fanno, pensano o dicono: insomma, sono al 100% reali: a tratti hai quasi l’impressione di poterli rivedere e ritrovare in persone che hai avuto la possibilità di conoscere durante la tua vita.
Una lettura particolarmente piacevole che ti sorprende per la profondità delle riflessioni, scritte in un linguaggio molto semplice e fluido.
Solo una domanda resta senza risposta alla fine del volume: chi è il “ragazzo” del titolo? Sarà Will o sarà Marcus?


Vincenzo Bagnera



Miley Cyrus. C’era una volta Hanna Montana

Michele Monina, Miley Cyrus. C’era una volta Hanna Montana, Reggio Emilia, Imprimatur, 2014, 128 pp., ISBN 978-88-6830-089-0.

La biografia di Miley Cyrus, scritta da Michele Monina e pubblicata nel febbraio 2014 da Imprimatur, è la storia di uno shock. Il 25 maggio 2013 l'America subisce uno shock. La popstar Miley Cyrus si esibisce sul palco degli MTV Video Music Awards. Canta il suo ultimo singolo We Can't Stop. Ha 20 anni. Da quando ne aveva 14, interpreta Hanna Montana in una fortunatissima serie Disney Channel. Per tutta la sua adolescenza incarna la ragazza americana grintosa ma virginale, figlia dell'America più “bianca” e tradizionalista. Miley viene dal Tennessee. È figlia del cantante country Bill Ray Cyrus, il massimo del nazionalpopolare, il “Claudio Baglioni d'America”. Miley è cresciuta sotto i riflettori. Recita per la prima volta a 9 anni, a fianco del padre nel telefilm Doc. A 11 anni fa parte del cast di Big Fish di Tim Burton. A 13 anni vince il provino con la Disney. Diventa Hanna Montana. Per i suoi 16 anni i genitori le organizzano una festa di compleanno, che poi è anche un megaevento e un megaconcerto a Disney World. “Miley” è il suo soprannome. In realtà si chiama Destiny Hope. Destino e Speranza. “Miley” invece sta per “Smiley”. Sorriso. Il suo sorriso puro, pulito, luminoso ha incantato mamme e figlie, ha rassicurato genitori e insegnanti. È stata Hanna Montana, la brava ragazza acqua e sapone. Ha toccato il tetto del mondo tante volte, con la parrucca biondo angelo di Hanna Montana. I suoi dischi in cima alle classifiche.
Adesso si è tagliata i capelli e irrompe sul palco degli Mtv Video Music Awards con un body rosa confetto e un orsacchiotto marrone stampato sul seno. Si muove un po' scomposta, fa qualche movimento un po' volgare, come i rapper dell'hip hop, ma niente di preoccupante. Da un annetto si è un po' “sporcata” con la musica nera. Ha fatto alcune collaborazioni con Snoop Dogg e altri rapper. Si sta evolvendo. Ma Miley resta sempre Hanna Montana. Come no.
I ballerini sono travestiti da orsacchiotti. Immensi orsacchiotti. Poi è un momento. Miley si sfila il body con l'orsacchiotto. È un gesto da spogliarellista consumata. Da night club. Da bordello. Miley resta seminuda sul palco. Solo un microscopico bikini color carne che le copre davvero poco. Sul palco irrompe allora il cantante Robin Thike, che ha fatto scandalo con il suo ultimo video Blurred Lines, pieno di donnine nude, che a un certo punto compongono con i palloncini la scritta “Robin Thike has a big dick”. Miley Cyrus e Robin Thike cominciano a ballare sul palco. I movimenti di Miley sono spudorati, sfacciati, espliciti. Rivela la sua padronanza del twerking, lo sculettamento sfrenato ed eccessivo, che finora era stata prerogativa delle donnine seminude nei video hip hop. Miley sculetta e si strofina contro Robin Thike. Di fatto simulano un rapporto anale. Poi Miley gioca, con modalità assolutamente non-innocenti, con l'americanissimo gadget a forma di guantone da baseball con l'indice puntato. È lo scandalo. C'è rumore, clamore, stordimento. L'esibizione di Miley è un'esplosione, che ancora oggi riverbera nel mondo dello spettacolo. Miley Cyrus ammazza Hanna Montana a colpi di twerking. L'America è sotto shock.
L'inventore del gadget del guantone attaccherà Miley per la “profanazione” di un' “icona”. La comunità hip hop attaccherà Miley per “appropriazione indebita” del twerking. Ci saranno polemiche infinite su quanto Miley sia femminista o squallida o grottesca o cinica o consapevole o pericolosa o puttana o idiota o geniale o chissacosa. Intanto Miley Cyrus scalzerà Lady Gaga dal trono di Nuova Regina del Pop. Lady Gaga (classe 1986) invecchierà di colpo e le sue provocazioni sessuali diventeranno d'un tratto obsolete. Perché Miley Cyrus (classe 1992) non ammicca, non evoca. Miley Cyrus espone. È totalmente esplicita. Prende a piene mani dall'immaginario porno. Non erotico, non soft-core, no. Proprio porno porno. Miley Cyrus fa cose che Lady Gaga se le sogna. Da quel 25 agosto in poi:
1)       Canterà totalmente nuda nel video di Wrecking Ball. Leccherà un martello e cavalcherà una gigantesca palla di ferro – quella delle ruspe – sempre totalmente nuda;
2)       Poserà seminuda per il fotografo Terry Richardson, colui che ha girato anche il video di Wrecking Ball. Indosserà impensabili perizomi che le coprono a malapena l'inguine. Mostrerà la lingua e si toccherà fieramente i genitali guardando dritto verso lo spettatore;
3)       Poi sul palco. Gli scandali durante i concerti. A Natale farà twerking con Babbo Natale;
4)       Farà sesso orale con un enorme fallo di plastica;
5)       Farà sesso orale con una bambola gonfiabile (con attributi maschili);
6)       Farà cantare la propria vagina (però in playback).

Risultati? Un successo clamoroso. Aveva toccato il tetto del mondo come Hanna Montana e ora quel tetto lo sfonda come Miley Cyrus. Vendite dei dischi alle stelle. Concerti sold-out. Centinaia di milioni di visualizzazioni su youtube. È La Nuova Regina Del Pop. Occupa il trono che fu di Lady Gaga, Britney Spears e Madonna (già nel 2011, comunque, Rolling Stones incoronava Miley Cyrus “regina del pop”, mentre nel 2010, secondo Forbes, è “l'adolescente più ricca del mondo”. Nel 2013 invece, secondo Maxim, è “la donna più sexy del mondo”).

IL PORNO

Monina, come sempre avviene nei suoi libri, non giudica, non interpreta, non spiega. Espone i più possibile i fatti e fornisce spunti di riflessioni.
La storia di Miley Cyrus è emblematica di un Mondo Che Cambia. Cosa significa, infatti, questo straordinario successo di Miley Cyrus? Forse lo sdoganamento definitivo del porno? Il porno di massa? La presa d'atto – il dato di fatto – che per il pubblico americano (e occidentale) l'immaginario porno è ormai entrato nella cultura popolare? Miley Cyrus d'altronde – scrive Monina – appartiene a quella generazione “post-internet” in cui il web ormai è una cosa scontata. Il web in cui il porno è sempre stato parte fondamentale, un pilastro. A metà degli anni '90, infatti, più della metà delle ricerche avevano contenuti hard. Mentre adesso, tra i 50 siti più visitati del mondo 2 sono porno. L'industria del porno online, secondo una relazione ONU del 2012, sfiorerebbe addirittura i 96 miliardi di dollari. Miley Cyrus – 22 anni – sta cavalcando l'onda, dunque. E sta dimostrando di conoscere benissimo i gusti dei giovani e dei giovanissimi. Finora tutte le sue mosse sono state un capolavoro di marketing. E un segno dei tempi.

FEMMINISMO E POLEMICHE

Ma cosa significa l'exploit di Miley Cyrus declinato sotto il segno dell'immaginario sessuale? È degradante per l'immagine femminile? Oppure il contrario? E lei? Sta consapevolmente sfruttando il suo corpo per fare il botto nello show-biz? Oppure è manovrata, sfruttata, plagiata dai cinici affaristi del mondo dello spettacolo?
Interrogativi aperti. A tal proposito c'è stata una polemica durissima tra Sinead O' Connor e la stessa Miley Cyrus, cominciata con una dichiarazione di ammirazione di Miley per la O' Connor (il video Wrecking Ball si apre con una citazione di un suo vecchio video) e finita in una lite stratosferica sui social network. Sinead O' Connor – dopo essere stata “apprezzata” da Miley Cyrus – pubblica una lunghissima lettera aperta in cui, con tono materno e un po' moralistico, si preoccupa per il fenomeno-Miley. “Lo show-biz ti vuole prostituta”. “Tu vali più del tuo corpo”. “È pericoloso lanciare il messaggio che è bello essere prostitute”. Miley risponde su twitter con modalità particolari. Retweetta vecchi tweet della O' Connor, scritti in un periodo in cui la cantante soffriva di disturbi depressivi. Frasi malinconiche, richieste d'aiuto, parole sconnesse. Miley la prende per pazza, in altre parole, e la sbeffeggia sui social network. La situazione degenera. La O' Connor risponde con due lettere infuocate in cui parla apertamente di “bullismo”, in cui chiede “scuse pubbliche a nome di tutte le persone che soffrono o hanno sofferto di disturbi mentali”. E conclude: “Quando finirai in un reparto psichiatrico o in una clinica di riabilitazione sarò felice di farti visita...e non mi abbasserò a prenderti in giro”. Intervengono anche altre due personaggi molto sentiti nel mondo femminista: Amanda Palmer – che sostiene che “probabilmente non c'è nessuno che la sfrutta” e che quindi “Miley regge il gioco”. “Credo che sia tutto farina del suo sacco” - e Annie Lennox, che si dice “preoccupata” per tutti questi “culi e tette usati per vendere”, attaccando internet e la sua fruizione che sta facendo “perdere il concetto di limite (di età ndr)”.

Il dibattito è aperto. La metamorfosi di Miley è femminista o no? Alimenta atteggiamenti e modi di pensare maschilisti e sessisti oppure apre altre strade per l'emancipazione femminile? Monina fa un parallelo con un fenomeno della controcultura di una generazione fa. Evoca i cortometraggi porno di metà anni '80 di Lydia Lunch, idolo della no-wave newyorkese, frontman dei Teenage Jesus and The Jerks. Il film Fingered del regista Richard Kern, che finisce con una violentissima scena in cui Lydia Lunch viene sodomizzata. Questo film e le citazioni al regista Russ Mayer, anche lui idolo di certa controcultura. Tutte le sue scene di sesso violento in cui però è la donna a reggere le fila, a volere quella violenza selvaggia. Film in cui avviene uno strano capovolgimento, in cui sodomia e sesso orale (per esempio) non sono più simbolo di sottomissione sessuale, ma diventano invece bandiere da sventolare, pratiche liberatorie e orgogliose da praticare con gusto della trasgressione. Segni di avvenuta emancipazione. Quindi porno e femminismo. Oppure porno e sessismo. Porno e degradazione. Porno ed emancipazione. Cosa sta combinando Miley Cyrus? Si sta facendo trascinare da cinici affaristi, sta rischiando la salute mentale o sta liberamente esibendo il suo corpo per portare avanti la sua performance? La sua fierezza, la sua violenza nell'aver ammazzato in questo modo Hanna Montana, sono segni di una stabilità e di una forza che le farà “reggere il gioco” anche in futuro? Oppure stiamo assistendo a un salto talmente in alto che avrà una ricaduta dolorosa?

VITA SOTTO I RIFLETTORI

Un'ultima nota. Miley Cyrus – spiega Monina – è letteralmente “cresciuta sotto i riflettori”. La sua vita è sempre stata condizionata dagli impegni di lavoro, dagli orari pazzi dello show biz e dalla sovraesposizione mediatica. Le sue relazioni amorose – il più delle volte tenute nascoste dai manager di Hanna Montana – sono sempre state vissute all'interno di questa dimensione particolare. Fino alle ultime relazioni, rese pubbliche, consumate a furia di tweet e gossip, pettegolezzi e insinuazioni che puntualmente finivano nei tabloid e nei siti internet di tutto il mondo. Scrive Monina: «Essere una popstar di fama mondiale, specie essere una popstar di fama mondiale fin da quando si è bambini, comporta dei sacrifici che sulle prime potrebbero sfuggire, come il venir meno di un minimo di libertà d'azione. Ma soprattutto la privazione, quasi violenta, di ogni rapporto che si possa definire disinteressato, l'accesso al mondo dei sentimenti fini a se stessi. […] Provate voi a crescere davanti alle telecamere, a ritrovare ogni vostro sospiro lì, immortalato da un paparazzo, deriso su questo o quell'altro forum...».


Nino Fricano



L'età dell'oblio

Tony Judt, L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ‘900, Roma-Bari, Laterza, 2011, 484 pp., ISBN 978-88-420-9632-0.

Impossibile recensire in modo puntuale il testo di Tony Judt. Questo volume offre, infatti, una panoramica piuttosto complessa dei protagonisti e dei fatti più importanti del secolo scorso. Intellettuali, politici, papi, persino Stati (come la Francia, l’Inghilterra, la Germania, il Belgio, la Romania) aiutano il lettore a tratteggiare i momenti storici cruciali del Novecento, con le mille contraddizioni annesse, gli eventi più rilevanti, i momenti di impasse e quelli che hanno, invece, determinato le svolte epocali. Non sempre condivisibili, da parte di chi scrive, alcune affermazioni o prese di posizione da parte dell’autore, ma senza dubbio il contributo storico che questo volume è in grado di offrire al lettore è di inestimabile valore.
L’età dell’oblio raccoglie un insieme di saggi composti da Judt tra il 1994 e il 2006. Pur affrontando svariati temi (dal marxismo francese alla globalizzazione), è possibile rintracciare i nuclei principali attorno ai quali ruotano i vari scritti: il ruolo degli intellettuali e delle loro idee e la funzione esercitata dalla storia in un’età definita appunto dell’oblio.
Nell’affrontare queste due tematiche – indubbiamente connesse tra loro – l’autore sottolinea come si sia diffusa, ormai capillarmente, l’idea secondo la quale il passato non abbia più nulla da insegnarci. Questo discutibile atteggiamento ha provocato, innanzitutto, l’oblio della guerra, rimozione, questa, particolarmente diffusa in Europa, specialmente dopo il secondo conflitto mondiale, ma anche in seguito alle terribili guerre civili che hanno martoriato il ventesimo secolo. Diversa è la realtà statunitense, dove si esaltano ancora le imprese belliche e le forze armate. Le ragioni di tale diversità sono da ricercare, secondo Judt, nel fatto che gli USA non hanno mai patito le conseguenze di una sconfitta: il loro territorio non è mai stato invaso né smembrato e, per tale ragione, i nordamericani credono ancora che le guerre alle quali hanno partecipato siano state delle «guerre giuste» [p. 9]. Quindi, se per gli europei la guerra costituisce l’ultima spiaggia cui fare ricorso, per gli statunitensi, invece, è la prima via da intraprendere in caso di risoluzione dei contrasti.
Strettamente connesso al tema della guerra è, poi, quello del declino dello Stato che ha avuto inizio proprio nel ventesimo secolo. La convinzione più diffusa è che lo Stato impedisca, con le sue innumerevoli pastoie burocratiche, con i ritardi, con la corruzione di buona parte dei suoi funzionari, il buon andamento degli affari umani. Di qui l’ingente ricorso alle privatizzazioni, nell’ultima parte del secolo passato, con conseguenze piuttosto onerose sui cittadini.
Ma il Novecento è stato anche il secolo degli intellettuali. Qual è il loro ruolo oggi?  Difficile rispondere a questa domanda in un’epoca in cui la maggior parte della gente crede che le ideologie o i sistemi di credenze siano del tutto scomparsi. Pur rifiutandoci di ammettere che le ideologie siano ormai roba d’altri tempi, bisogna altresì riconoscere che, quelle formatesi nel corso dell’Ottocento e sviluppatesi poi nell’arco del ventesimo secolo, hanno subito un profondo mutamento. Né, d’altra parte, sarebbe possibile immaginare uno scenario diverso. Le paure con cui i cittadini delle democrazie occidentali devono fare i conti oggi sono, infatti, diverse da quelle del secolo scorso: la paura del terrorismo internazionale, della velocità del cambiamento, della disoccupazione ma, soprattutto, il timore che «non solo non possiamo più decidere della nostra vita, ma che anche coloro i quali comandano hanno perso il controllo in favore di forze oltre la loro portata» [p. 23]. Questo punto della riflessione di Judt è cruciale, a mio parere, perché riesce a spiegare il diffondersi – a partire dagli anni successivi alla stesura di questa introduzione e cioè gli anni in cui stiamo vivendo – dell’avanzata dei populismi, della xenofobia, della chiusura delle frontiere. Perfetto corollario, insomma, della politica dell’insicurezza.
L’excursus attraverso le più importanti figure di intellettuali del Novecento, è – per scelta dell’autore – un viaggio attraverso i totalitarismi del «secolo breve»: Primo Levi fra tutti, che cerca le parole per descrivere l’orrore dell’olocausto, stando attento a usare toni “credibili” per i lettori. Perché la tragedia dello sterminio nazista fu anche questa: ci volle tempo prima che qualcuno iniziasse a credere alle vittime. Le prime inibizioni di Levi, in tal senso, aspramente criticate da Jean Améry saranno poi superate, definitivamente, con Se questo è un uomo che si conclude con una inequivocabile accusa di responsabilità collettiva contro quei tedeschi – la maggior parte – che seguirono Hitler [p. 63].
Il tema del totalitarismo è forte anche nell’opera di Hannah Arendt. Esso viene interpretato come «il non plus ultra del controllo e della distruzione dell’essere umano» [p. 79] e, in tal senso, fondamento stesso del regime. Nazismo e stalinismo confluiscono in lei in un unico archetipo. Questa scelta le vale moltissime incomprensioni, attirandole numerose critiche.
È il totalitarismo di Stalin che spinge, invece, Althusser – che pure Judt non esita a tacciare di astruse apologie politiche condite da folli illusioni – a dare del marxismo una «lettura sintomatica» [p. 107]. Né del resto era una novità: a lungo, nel Novecento, molti studiosi presero da Marx quello di cui avevano bisogno, ignorando il resto.
Persino Eric Hobsbawm, nella critica di Judt, vede pregiudicato il suo istinto storico dalla sua “incondizionata” adesione al comunismo. Ciò che nello specifico Judt attribuisce al grande storico, è di non aver mai affrontato «l’eredità morale e politica di Stalin e delle sue azioni» [p. 126].
Sarebbe molto difficile comprendere bene la prima parte del volume se omettessimo di dire che Judt – e chiara appare tale convinzione nel corso di tutto il volume – ritiene che tra gli estremismi di sinistra e quelli di destra, vi sia una «fondamentale affinità» [p. 127]. Non si salva il marxismo che non può certo – a dire dell’autore – sentirsi immune da responsabilità per via del totalitarismo stalinista. Anzi, andando a riprendere l’opera di Leszek Kolakowski e la sua critica feroce al marxismo, Judt si proprone di spiegare ai suoi lettori come le pesanti analogie tra la crisi della fine del diciannovesimo secolo e quella attuale, sintetizzata in parte nella formula marxista dell’«esercito industriale di riserva» [p. 140], potrebbe determinare una rinascita del marxismo come unica chiave risolutiva al declino attuale, come soluzione alla crisi del capitalismo. E ciò per Judt rappresenta, niente meno, che una follia. Proprio perché, coloro che vorrebbero far rinascere il marxismo grazie alla caduta del comunismo, commetterebbero, a suo dire, un errore irreparabile. Quello che però Judt non ci spiega è quale possa essere l’alternativa ai due sistemi, specialmente oggi che il capitalismo sembra essersi incartato in una sorta di spirale perversa, in un labirinto senza via d’uscita, dal quale sembra sempre più difficile venir fuori.
Un altro dramma del Novecento è poi la questione mediorientale, tutt’altro che risolta. Judt fa riferimento a Edward Said e alla sua opera, perché a essa dobbiamo la verità sul trattamento dei palestinesi da parte di Israele, ma anche il riconoscimento della necessità di trovare degli accordi, partendo dall’ammissione dei propri difetti e dei propri errori. Said non esita, infatti, a rivolgere critiche feroci ai leader arabi, in particolare a quelli dell’OLP, accusandoli apertamente di ogni sorta di corruzione e cupidigia; ma non tralascia, per questo, di segnalare tutti gli abusi compiuti da Israele a danno dei palestinesi, con la complicità degli Stati Uniti. La peculiarità della vicenda mediorientale è, tra l’altro, basata sul paradosso vissuto dai palestinesi, di essere «vittime delle vittime» [p. 170]. Sì, perché chi aveva cacciato i palestinesi dalle loro legittime terre non erano i colonialisti occidentali, ma i sopravvissuti all’Olocausto. Questa riflessione, legata anche alle analisi sui puntuali fallimenti di tutte le negoziazioni, ha spinto Said a passare dalla convinzione di una necessaria costruzione di due stati per due popoli, all’idea che fosse meglio, invece, creare uno stato unico secolare per israeliani e palestinesi.  Ma Said si spinge oltre: comprende che i veri nemici della pace in Medio Oriente sono gli americani. Non tanto i governi quanto piuttosto l’opinione pubblica statunitense, che si mostra sensibile alla causa israeliana perché non ha mai conosciuto quella palestinese. Per questo, per tutta la vita, Said cerca di tenere sempre vivi in America la questione palestinese e il conflitto mediorientale. Ed è proprio sulla scia delle teorie di Said che Judt formulerà, nel 2006, un articolo molto interessante, pubblicato sul quotidiano liberale israeliano Ha’aretz, che peraltro susciterà molte reazioni critiche. In esso Judt taccia apertamente Israele di immaturità. Successivamente alla Guerra dei Sei giorni (1967), la percezione che gran parte del mondo aveva avuto di Israele, fino a quel momento, cambia radicalmente, come dimostra la diffusione repentina di un nuovo simbolo, destinato ad avere una fortuna universale, e che verrà riprodotto su migliaia di editoriali giornalistici e vignette satiriche: la Stella di David su un carro armato [p. 279]. L’autore afferma apertamente che non è possibile giustificare ogni azione di Israele ricordando Auschwitz. Anzi: non è accettabile la teoria secondo la quale chiunque critichi la politica di Israele, venga tacciato di antisemitismo. E non è accettabile perché, così facendo, Israele finisce per parlare e agire, impunemente, a nome di tutti gli ebrei. In relazione alla violazione delle leggi internazionali nei territori occupati, o all’umiliazione delle popolazioni sottomesse a cui ha confiscato le terre, è come se gli israeliani dicessero: «queste azioni non sono israeliane, ma ebree; l’occupazione non è israeliana ma ebrea; e se questo non vi va giù è perché non vi piacciono gli ebrei» [p. 281].  Israele dunque non cambia e si ostina, immaturamente, a restare immobile sulle sue posizioni. Il punto è, però, che il mondo invece è cambiato. Oggi sono sempre più numerosi i cittadini che considerano lo Stato di Israele alla stregua della Spagna di Franco. E moltissimi di questi cittadini sono statunitensi. Tutto ciò, afferma Judt, dovrebbe far riflettere tanto Israele quanto il Nord America che è l’unico suo sostenitore.
Sugli Stati Uniti e sulla sua storia novecentesca, fatta di ostilità più o meno cruente, l’autore si sofferma a lungo. Da qui l’affascinante report sulla crisi missilistica a Cuba del 1962. La ricostruzione storica e dettagliata dell’evento è condita dalla citazione di numerosi dialoghi tra i protagonisti della vicenda – ricavati dalle registrazioni – che ci forniscono un quadro preciso sia sui rapporti di forza all’interno degli Stati Uniti e tra gli uomini della presidenza Kennedy, sia sulle loro qualità caratteriali e sul loro modo di reagire ai momenti di crisi nelle fasi cruciali e concitate. Solo i fratelli Kennedy, peraltro, sapevano che le conversazioni venivano registrate. Possiamo quindi leggere stralci di discussioni tra il vicepresidente Lyndon Johnson e l’ExComm Mc Namara; oppure tra il Presidente Kennedy e il Generale Wheeler o tra Kennedy e l’ex ambasciatore a Mosca Llewellyn Thompson. Attraverso queste testimonianze dirette, riusciamo a comprendere meglio non solo quella crisi, ma anche i rapporti reali tra il Presidente USA e i militari. Questi ultimi non provavano per lui che un mero sentimento di disprezzo, assolutamente ricambiato, peraltro, con l’aggiunta di una buona dose di sospetto.
Profonda e interessante analisi, poi, è quella che l’autore dedica al confronto tra Europa e Stati Uniti. Colpisce molto la parte dell’articolo – scritto tra il 2002 e il 2006 – in cui Judt fa riferimento a diverse autorevoli voci, secondo le quali un’Europa compatta e unita rappresenterebbe una minaccia agli interessi degli Stati Uniti. Dunque l’America ha tutto l’interesse a bloccare sul nascere questa unione [p. 391]. In effetti, osservando bene quanto sta accadendo oggi, a ben otto anni di distanza da quell’articolo, tale affermazione deve far riflettere. Siamo alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo e l’Europa sembra tutt’altro che una realtà unitaria e solidale, anzi, in molti casi è sentita fortemente come un’entità lontana e persino ostile ai cittadini, tanto che i sondaggi danno l’astensionismo al 40% e le previsioni decretano una pericolosa avanzata dei populismi.
Ritornando, per un attimo, al confronto tra Europa e America esce fuori un quadro mediamente idilliaco della prima, rispetto alla seconda: vi campeggia un continente che, grazie alla lezione appresa nel passato, «non conoscerebbe, se non raramente, il patriottismo belligerante di stile americano» [p. 393]. Eppure l’Europa è una realtà piena di contraddizioni e, spesso, di scelte violente che non si possono omettere: dalla produzione di armi (di cui il nostro continente detiene il triste primato) agli interventi militari (Iraq, Afghanistan, Libia) solo per fare alcuni esempi. Un’Europa che non sembra interessata né alla questione mediorientale, se non per appoggiare la politica statunitense di supporto a Israele, proprio in un momento in cui – come abbiamo visto – le reazioni alla condotta americana si fanno sempre più severe; né alla incredibile emergenza umanitaria delle massicce ondate migratorie provenienti dal continente africano e dalla Siria che, in questi giorni, stanno interessando le coste della Sicilia.
Dinanzi a questo panorama tutt’altro che idilliaco, le conclusioni di questo volume, appaiono di incredibile attualità. Non è casuale, a mio avviso, la scelta da parte di Judt, di una lucida quanto sconfortante analisi, risalente al 1997, del sorpasso da parte della destra neofascista e xenofoba sui partiti di sinistra. In Francia, ad esempio – allora come oggi – sono proprio gli ex elettori di sinistra a votare Le Pen.  Perché? Le parole amare che Judt dedica, alla fine, alla sinistra europea (in particolare ai socialisti) riflettono una condizione attualissima e una ferita ancora aperta che si è già ulteriormente incancrenita: la visione di una sinistra incapace di governare e in permanente protesta. Dice l’autore: «la sinistra non ha idea di cosa potrebbe significare un suo successo politico, se riuscisse a conseguirlo; non ha una visione articolata di una società buona, o semplicemente migliore, di quella attuale. In assenza di una simile visione, far parte della sinistra non è che prendere parte a una protesta permanente» [p. 411]. Come è possibile, del resto, dargli torto? Oggi, poi, che la situazione si fa ancora più pesante – rispetto al 1997 – in considerazione del fatto che i governi hanno un margine limitato di iniziativa politica in materia fiscale e monetaria? Ciò, ovviamente, determina il principio secondo cui, vinte le elezioni, nessun governo rispetta mai gran parte delle promesse fatte in campagna elettorale.
Come salvarci dunque? Judt ci ha lasciati nel 2010, stroncato da una malattia orribile che lo ha tenuto, fino all’ultimo, prigioniero lucidissimo di un corpo ormai morto. In una sua ultima intervista a Charlie Rose, ci dice, tra le tante cose, che la sua paura più grande è quella di venir privato della possibilità di comunicare. Pensiamo che per uno storico questa sia una delle pene più atroci da sopportare. Non possiamo fare a meno di chiederci cosa penserebbe Judt di questi ultimi quattro anni, del modo in cui rileggerebbe la storia del Novecento alla luce degli ultimi eventi, ma soprattutto ci chiediamo se continuerebbe a pensare, con speranza, che lo Stato moderno possa ancora salvarsi, determinando il modo migliore della distribuzione – sia pure soltanto a livello locale – della crescita economica generata dai privati [p. 415].
Consiglio la lettura di questo volume perché – a prescindere dalle convinzioni ideologiche o dagli approcci storiografici – rappresenta un ricchissimo strumento di conoscenza e riflessione sugli uomini e i fatti di un secolo, il Novecento, col quale dobbiamo fare i conti ancora oggi. Perché è soltanto leggendo tra le carte di quel secolo che, forse, possiamo trovare la chiave interpretativa per il presente – del tutto oscuro e ancora in fieri – che ci tocca in sorte vivere. E forse, almeno così si augura chi scrive, la sinistra europea, sempre più divisa dai protagonismi e dall’inettitudine, troverebbe qualche spunto per decidersi, finalmente, ad intraprendere una seria riflessione sulle alternative concrete alla globalizzazione economica, alle sue leggi spietate e alle sue insaziabili richieste.


Alessandra Mangano

Il trono vuoto

Paolo Viola, Il trono vuoto. La transizione della sovranità nella rivoluzione francese, Einaudi, Torino 1989, 200 pp., ISBN 88-06-11447-6.

Prima dei fatti del 1789 il termine "rivoluzione" indicava un grande atto riformatore che facesse uscire lo Stato dall'illegalità, rendendo una «libertà precedente, forse mai esistita prima di allora, ma in qualche modo radicata nella ragione umana, e quindi nel tacito patto fra chi governa e chi è governato» (p. VII).
La rivoluzione francese fu, invece, un fenomeno innovativo, che colse di sorpresa sia le persone colte e politicizzate, sia «chi era stato da sempre oggetto passivo della sovranità e si trovava ora a esserne collettivamente il soggetto» [p. VIII].
La rivoluzione fu quindi un «trauma della transizione della sovranità». Tuttavia essa è il luogo anche di altre transizioni nelle diverse sfere della politica, dei conflitti sociali e dell'economia.
L'ambiguità del termine "rivoluzione" fa in modo che i contemporanei parlassero di «terminare la rivoluzione» ancor prima dei fatti dell'Ottantanove.
Dal 1789 al 1793 si verificò quel vuoto di sovranità che terrorizzò il popolo. A questo punto si fa forte e storicamente rilevante la posizione dei giacobini. Il giacobinismo, infatti, riuscì a «dirigere la rivoluzione», e «fu l'unica forza politica che si diede da fare concretamente ed efficacemente per essere gruppo dirigente della rivoluzione, e per far valere la propria 'egemonia' sulle forze sociali che erano state evocate» [p. X]. Il giacobinismo non a caso è visto come luogo di nascita della politica moderna.
La transizione della sovranità si concluse, o si avviò a conclusione nel 1793, quando il «trono vuoto» venne rioccupato.
L'analisi compiuta da questo libro propone l'individuazione di due momenti di svolta della rivoluzione francese.
Il primo momento è l'estate del 1789: la rivoluzione si trasforma dal «progetto costituente che si sforzava di terminare la 'rivoluzione', cioè l'illegalità della monarchia, in una catastrofe alla quale non si può, non si sa, addirittura non si vuole opporsi». Il secondo momento è la fine del 1792, quando la rivoluzione ha esaurito il suo andamento catastrofico: allora essa potrà esprimere un gruppo dirigente egemone capace di rioccupare il trono rimasto vuoto.
I due momenti, a giudizio di Paolo Viola, separano le tre fasi della rivoluzione francese: bisogna però badare – ed è l'autore a specificarlo – che non si tratta di tre fasi cronologiche, ma di tre momenti logici.
La prima fase della rivoluzione, alla quale è dedicata la prima parte del libro, è caratterizzata dalla volontà dei dirigenti di terminare l'illegalità con un progetto costituzionale, e quindi di «terminare la rivoluzione». La prima fase è quindi quella dell'«immenso equivoco che caratterizza l'avvio della rivoluzione francese. Ci si proponeva di bloccare la rivoluzione con cui il re tentava di accrescere la propria sovranità, e di riequilibrarne il potere con il ricorso della conservazione, garantita dal consenso popolare, delle antiche istituzioni del regno. E così facendo, si avviava quella transizione della sovranità dal monarca al popolo, che avrebbe sprofondato un paese, mentalmente e istituzionalmente impreparato, verso il baratro della vera e propria rivoluzione» [p. 20].
La seconda fase, alla quale è dedicata la seconda parte dell'opera, è invece quella della «rivoluzione vera e propria, che nessuno si aspettava e che sul momento nessuno seppe fronteggiare: non un progetto, ma una fatalità; negazione di ogni costituzionalismo ma anche di qualsiasi direzione [...]», e quindi quella in cui fu impossibile non «subire la rivoluzione». In questa fase comincia a manifestarsi un movimento popolare dalle sconosciute potenzialità, che era indotto a usare la violenza; ma non era un popolo «assetato di sangue, ma di giustizia, e la giustizia fatta su Luigi XVI gli sembrava che scaricasse la nazione da un pesante fardello; che finalmente compisse la rivoluzione, o piuttosto che finalmente la iniziasse, con l'ambivalenza delle svolte fondamentali della storia, e che la libertà, come una dea dell'antichità, non si potesse propiziare se non col sacrificio di un colpevole» [p. 165].
La terza fase della rivoluzione, alla quale è dedicata la terza parte del libro, vede il tentativo di governare una violenza, di governare la rivoluzione, di occupare il trono vuoto, di «dirigere la rivoluzione», ed era necessario che «il popolo non si scindesse, bisognava che continuasse a operare in corpo unico, mantenendo la sua caratteristica, che si potrebbe definire di società naturale, di rapporto fra fratelli, prevenendo il rischio che i cittadini si isolassero per riaggregarsi secondo raggruppamenti volontari arbitrariamente legati a loro volta da vincoli organizzativi estranei alla legge, che avrebbero minacciato la collettività, perché facilmente utilizzabili dai cospiratori. [...] Senza la difesa dell'unità, o indivisibilità, o fraternità, secondo i giacobini, ma anche secondo i loro avversari, si sarebbero persi gli altri termini della triade: la libertà e l'uguaglianza. Essa diventava così il perno centrale intorno a cui ruotava tutta la politica rivoluzionaria» [p. 220].
Forse è superfluo (e magari banale) dire che ogni fase della rivoluzione francese è legata a uno dei tre termini della formula rivoluzionaria: «Liberté Egalité Fraternité». Sebbene, a conti fatti, alla libertà che mosse la prima fase e all'uguaglianza della seconda fase sopravvisse solo la fratellanza, l'unica «in grado di far sopravvivere il paese e di conservare nei limiti del possibile l'uguaglianza; mentre era incompatibile con la libertà e ne provocò, o non ne impedì la rovina» [p. 220].


Piero Canale