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venerdì 25 aprile 2014

Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana

Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945), a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, Prefazione di Enzo Enriques Agnoletti, Torino, Einaudi, 1952, 346 pp.


sabato 19 aprile 2014

19 aprile 1869: L'uomo che ride di Victor Hugo (a cura di Piero Canale)

Il 19 aprile 1869 esce per i tipi dell'editore Libraire Internationale, L'homme qui rit, romanzo di Victor Hugo. L'opera narra la storia d'un saltimbanco inglese sotto il regno di Anna Stuarda, conosciuto con il nome di Gwynplaine, orribilmente mutilato che poi, scoperto discendente d'una grande famiglia inglese, i Clancharlie, ed entrato in possesso dei suoi titoli e beni, si fa carico del disagio del popolo oppresso con cui ha vissuto. Brutalmente è questa la trama del libro, sebbene non sia un romanzo a lieto (non vi svelo il finale, state tranquilli).
Il romanzo, iniziato nel 1866, terminato ufficialmente il 23 agosto 1868, viene pubblicato l'anno dopo: è l'ultima grande opera di Hugo, scritta durante il suo esilio nelle isole anglo-normanne nella Manica.
Victor Hugo nacque a Besançon, una città della Francia orientale, il 26 febbraio del 1802. Era figlio di Léopold-Sigisbert, stipettaio di Nancy, divenuto generale napoleonico. Non entro nel merito della biografia e della produzione letteraria di Hugo[1] - non ne avrei le competenze e le forze - ma mi piaceva condividere con i lettori di Libido Legendi, alcune pagine di questo romanzo, forse poco conosciuto, o comunque sovrastato per fama da I Miserabili e Notre-Dame de Paris.
Il romanzo doveva intitolarsi Per ordine del re (che diventò poi il titolo della seconda parte del libro), quasi un'analogia - seppur con le ovvie cautele - con la vita dello scrittore, deputato all'Assemblea Nazionale, che fu esiliato per le aspre critiche a Napoleone III.
Le pagine che voglio riportare, l'intervento di Gwynplaine alla Camera dei Lord, sono molto vicine agli interventi di Hugo all'assemblea.[2] C'è la politica, ci sono gli ideali, c'è il romanzo. Una differenza che per lo scrittore forse viene meno, si sfalda. In occasione dell'anniversario della pubblicazione del romanzo, propongo un ampio stralcio estrapolato dal romanzo:

«Milord Fermain Clancharlie, barone Clancharlie e Hunkerville».
Gwynplaine si alzò:
«Non contento» disse.
Tutte le teste si voltarono.
«Chi siete? Da dove venite?».
Gwynplaine rispose:
«Dal baratro. Chi sono? Sono la miseria. Milord, devo parlarvi.
Milord, voi siete in alto. Sta bene. Non si può fare a meno di credere che Dio abbia le sue ragioni per volerlo. Voi avete il potere, l'opulenza, la gioia, il sole immobile al vostro zenit, l'autorità illimitata, il godimento esclusivo, l'immenso oblio degli altri. E sia. Ma sotto di voi c'è qualcosa. E anche sopra, forse. Milord, vengo a portarvi una notizia. Il genere umano esiste.
Io sono colui che viene dalle profondità. Milord, voi siete i grandi e i ricchi. È pericoloso. Approfittate della notte. Ma state in guardia, c'è una grande potenza, l'aurora. L'alba non può essere vinta. Arriverà. Sta già arrivando. E ha in sé un irresistibile fiotto di luce. E chi impedirà a questa fionda di scagliare il sole nel cielo? Il sole è il diritto. Voi, invece, siete il privilegio. Abbiate paura. Il vero padrone di casa sta per bussare alla porta. Chi è il padre del privilegio? Il caso. E chi è suo figlio? L'abuso. Né il caso né l'abuso sono solidi. Hanno entrambi un pessimo domani. Io vengo ad avvertirvi. Vengo a denunciarvi la vostra stessa felicità. È fatta dell'infelicità altrui. Voi avete tutto, ma il vostro tutto è fatto nel nulla degli altri. Milord, io sono l'avvocato senza speranza, difendo una causa persa. Questa causa, la vincerà Dio. Io non sono niente, sono solo una voce. Il genere umano è una bocca e io sono il suo grido. Voi mi ascolterete. Vengo ad aprire davanti a voi, pari d'Inghilterra, le grandi assise del popolo, questo sovrano che è vittima, questo condannato che è giudice. Mi piego sotto il peso di ciò che ho da dire. Da dove iniziare? Non so. Ho raccolto nella vasta diffusione delle sofferenze, la mia sconfinata arringa sparsa. Che farne? Mi opprime e io la riverso alla rinfusa qui davanti. Avevo previsto tutto questo? No. Voi siete stupiti, anch'io. Ieri ero un guitto, oggi sono un lord. Giochi profondi. Di chi? Dell'ignoto. Tutti dobbiamo tremare. Milord, tutto l'azzurro è dalla vostra parte. Di quest'immenso universo voi vedete solo la festa; sappiate che c'è anche l'ombra. Per voi io sono lord Fermain Clancharlie, ma il mio vero nome è un nome da povero, Gwynplaine. Io sono un miserabile tagliato nella stoffa dei grandi da un re, il cui capriccio volle così. Ecco la mia storia. Molti di voi hanno conosciuto mio padre, io non l'ho conosciuto. Egli è prossimo a voi per il suo lato feudale, mentre io gli sono vicino per il suo lato proscritto. Ciò che Dio ha fatto è un bene. Sono stato gettato nel baratro. A che scopo? Perché ne vedessi il fondo. Sono un sommozzatore che riporta a galla una perla, la verità. Parlo perché so. E voi mi ascolterete, milord. Io ho provato. Ho visto. La sofferenza, no, non è una parola, signori felici. La povertà? Ci sono cresciuto. L'inverno? Mi ha fatto battere i denti. La fame? L'ho patita. Il disprezzo? L'ho subito. La peste? L'ho avuta. La vergogna? L'ho trangugiata. E la rivomiterò davanti a voi e questo vomito d'ogni miseria vi schizzerà sui piedi e divamperà. Ho esitato prima di lasciarmi condurre in questo posto in cui sono, perché altrove ho altri doveri. È il mio cuore non è qui. Ciò che è accaduto dentro di me non vi riguarda; quando l'uomo che voi chiamate l'usciere della verga nera è venuto a prendermi da parte di colei che chiamate regina, per un momento ho pensato di rifiutare. Ma mi è sembrato che l'oscura mano di Dio mi spingesse in questa direzione e ho obbedito. Ho sentito che era necessario che venissi tra voi. Perché? Per via dei miei stracci di ieri. Era per prendere la parola tra i sazi che Dio mi aveva messo tra gli affamati. Oh! Abbiate pietà! Oh! Questo mondo fatale in cui credete di vivere, voi non lo conoscete; siete così in alto da starne fuori; vi dirò io com'è. Di esperienza ne ho. Arrivo da sotto. Posso dirvi quanto pesate. Voi, i padroni, sapete cosa siete? Ciò che fate, lo vedete? No. Ah! Com'è tutto terribile. Una notte, una notte di tempesta, piccolo, abbandonato, orfano, solo nell'immenso creato, ho fatto il mio ingresso in quell'oscurità che chiamate società. La prima cosa che ho visto è stata la legge, sotto forma di una forca; la seconda è stata la ricchezza, la vostra ricchezza, sotto forma di una donna morta di freddo e di fame; la terza è stata il futuro, sotto forma di una neonata agonizzante; la quarta è stata il bene, il vero e il giusto, sotto le spoglie di un vagabondo che aveva per unico compagno ed amico un lupo».
Osservò per un momento quegli uomini che ridevano.
«Allora voi insultate la miseria. Silenzio, pari d'Inghilterra! Giudici, ascoltate l'arringa. Oh! Vi scongiuro, abbiate pietà! Pietà di chi? Pietà di voi stessi. Chi è in pericolo? Voi. Non vedete che siete su una bilancia e che su un piatto c'è il vostro potere e sull'altro la vostra responsabilità? Dio vi pesa. Oh! Non ridete. Meditate. L'oscillazione della bilancia divina è il tremore della coscienza. Voi non siete cattivi. Siete uomini come gli altri, né migliori, né peggiori. Vi credete dèi, ma se vi ammalaste domani, vedreste la vostra divinità rabbrividire di febbre. Siamo tutti uguali. Mi rivolgo agli spiriti onesti e ce ne sono; mi rivolgo alle menti elevate e ce ne sono; io mi rivolgo alle anime generose e ce ne sono anche tra voi. Voi siete padri, figli e fratelli, dunque spesso provate tenerezza. Chi tra voi stamattina ha guardato svegliarsi suo figlio è buono. I cuori sono tutti uguali. L'umanità non è altro che un cuore. Tra chi opprime e chi è oppresso non c'è differenza a parte il luogo che occupano. I vostri piedi calpestano teste umane, non è colpa vostra. È colpa della Babele sociale. Costruzione difettosa, tutta a sbalzi. Un piano opprime l'altro. Ascoltate ciò che vi dico. Oh! Voi che siete potenti, siate fraterni; voi che siete grandi, siate dolci. Se sapeste tutto quello che ho visto! Ahimè! Che tormento, giù in basso! Il genere umano è in prigione. Quanti dannati innocenti! Manca la luce, manca l'aria, manca la virtù; non c'è speranza; e, cosa temibile, si aspetta. Rendetevi conto di queste miserie. Ci sono creature che vivono nella morte. Ci sono ragazzine che iniziano a otto anni con la prostituzione e finiscono a venti con la vecchiaia. La severità penale, poi, è spaventosa. Parlo un po' a caso, non seguo un ordine. Dico quello che mi viene in mente. Non più tardi di ieri, io che sono qui, ho visto un uomo nudo e incatenato, con un mucchio di pietre sul ventre, spirare sotto tortura. Lo sapete voi? No. Se sapeste quello che accade, nessuno di voi oserebbe essere felice. Chi di voi è stato a Newcastle-on-Tyne? Ci sono uomini nelle miniere che masticano carbone per riempirsi lo stomaco e ingannare la fame. Nella contea di Lancaster, Ribblechester, a forza d'indigenza, da città è diventata un villaggio. Non trovo che il principe Giorgio di Danimarca abbia bisogno di centomila ghinee in più. Preferirei far accogliere dall'ospedale l'indigente malato senza fargli pagare in anticipo la sepoltura. Nel Caërnarvon, a Traith-maur come pure a Strafford, non si può prosciugare la palude per mancanza di denaro. Le fabbriche tessili sono chiuse in tutto il Lancashire. Disoccupazione ovunque. Lo sapete voi che i pescatori di aringhe di Harlech mangiano l'erba quando la pesca va male? Lo sapete che a Burton-Lazers ci sono ancora lebbrosi braccati, a cui si tirano fucilate se escono dalle loro tane? A Ailesbury, città di cui uno di voi è lord, la carestia è permanente. A Penckridge nel Coventry, di cui avete appena beneficato la cattedrale e arricchito il vescovo, non ci sono letti nelle capanne e si scavano buche nella terra per farci dormire i bambini, che invece di iniziare dalla culla, iniziano dalla tomba. Io ho visto queste cose. Milord, le imposte che voi votate, sapete chi le paga? I moribondi. Ahimé! Voi sbagliate. Siete sulla cattiva strada. Aumentate la povertà del povero per accrescere la ricchezza del ricco. Bisognerebbe fare il contrario. Come, prendere a chi lavora per dare allo sfaccendato, prendere al pezzente per dare a chi è sazio, prendere all'indigente per dare al principe! Oh! Sì, ho un vecchio sangue repubblicano nelle vene. Tutto questo mi fa orrore. I re, li detesto! E le donne, come sono sfrontate! Mi hanno raccontato una triste storia. Oh! Odio Carlo II! Una donna che mio padre aveva amato si è data a questo re, mentre mio padre moriva in esilio, prostituta! Carlo II, Giacomo II; dopo un buono a nulla, uno scellerato! Cosa c'è in un re? Un uomo, un essere debole e meschino, schiavo dei bisogni e delle infermità. A cosa serve un re? Questo sovrano parassita, lo rimpinzate. Questo verme della terra, voi lo trasformate in un boa. Questa tenia, la trasformate in un drago. Pietà per i poveri! Aggravate le imposte a profitto del trono. State attenti alle leggi che decretate. State attenti al formicaio dolente che schiacciate. Abbassate gli occhi. Guardate ai vostri piedi. O grandi, ci sono anche i piccoli! Abbiate pietà. Sì! Pietà di voi! Perché le moltitudini agonizzano e chi sta in basso, morendo, fa morire anche chi sta in alto. La morte è venir meno che non risparmia nessun membro. Quando scende la notte, nessuno conserva il suo raggio di luce. Siete egoisti? Salvate gli altri. La perdita della nave non può lasciare indifferente nessun passeggero. Non c'è naufragio degli uni senza inabissamento degli altri. Oh! Sappiatelo, l'abisso è per tutti.
È allegra questa turba di uomini! Bene. L'ironia contrapposta all'agonia. Le risate che oltraggiano il rantolo. Sono onnipotenti! Può darsi. Sia pure. Si vedrà. Ah! Io sono uno di loro. Ma sono anche uno dei vostri, o poveri! Un re mi ha venduto, un povero mi ha raccolto. Chi mi ha mutilato? Un principe. Chi mi ha guarito e nutrito? Un morto di fame. Sono lord Clancharlie, ma rimango Gwynplaine. Sono uno dei grandi ma appartengo ai piccoli. Sono tra quelli che se la godono e sono con quelli che soffrono. Ah! Questa società è falsa. Un giorno verrà la società vera. Allora non ci saranno più signori, ci saranno creature libere. Non ci saranno più padroni, ci saranno padri. Questo è l'avvenire. Niente più genuflessioni, niente più bassezza, niente più ignoranza, niente più uomini come bestie da soma niente più cortigiani, niente più servi, niente più re, solo luce! Nel frattempo, eccomi. Ho un diritto, ne faccio uso. È un diritto? No, se lo uso per me. Sì, se lo uso per tutti. Parlerò ai lord da lord. O fratelli miei che state in basso, dirò loro la vostra miseria. Mi alzerò stringendo nel pugno gli stracci del popolo e scuoterò sui padroni l'indigenza degli schiavi e loro, i favoriti e gli arroganti, non potranno più sbarazzarsi del ricordo degli sventurati, e liberarsi, loro che sono principi delle brucianti piaghe dei poveri e tanto peggio se sono putrescenti e piene di parassiti e tanto meglio se piovono su dei leoni!
Chi è quella gente in ginocchio? Cosa fate lì? Alzatevi, siete degli uomini.
Io predìco.
Che ci faccio qui? Vengo a essere terribile. Sono un mostro, voi dite. No, sono il popolo. Sono un'eccezione? No, sono come chiunque. L'eccezione siete voi. Voi siete la chimera, io sono la realtà. Io sono l'Uomo. Sono lo spaventoso Uomo che Ride. Ride di cosa? Di voi. Di se stesso. Di tutto. Cos'è il suo riso? Il vostro delitto e il suo supplizio ve lo sputa in viso. Io rido, che vuol dire: Io piango.
Questo riso che ho sulla faccia, ce l'ha messa un re. Questo riso esprime la desolazione universale. Questo riso significa odio, silenzio forzato, rabbia, disperazione. Questo riso è il frutto delle torture. Questo riso è un riso coatto. Se Satana ridesse in questo modo, il suo riso condannerebbe Dio. Ma l'eterno non somiglia ai mortali; essendo l'assoluto è giusto; e Dio odia ciò che fanno i re. Ah! Voi mi prendete per un'eccezione! Io sono un simbolo. O stupidi onnipotenti, aprite gli occhi. Io incarno tutto. Io rappresento l'umanità così come l'hanno fatta i suoi padroni. L'uomo è mutilato. Quello che hanno fatto a me, l'hanno fatto al genere umano. Gli hanno deformato il diritto, la giustizia, la verità, la ragione, l'intelligenza, come a me gli occhi, le narici e le orecchie; come a me, gli hanno messo nelle cuore una cloaca di collera e di dolore, e sulla faccia una maschera di allegria. Dove si era posato il dito di Dio, s'è appoggiato l'artiglio del re. Mostruosa sovrapposizione. Vescovi, pari e principi, il popolo è qualcuno che soffre intimamente e ride in superficie. Milord, vi dico che il popolo sono io. Oggi, voi lo opprimete, oggi voi mi schermite. Ma l'avvenire è un cupo disgelo. Ciò che era pietra diventa flutto. L'apparente solidità si tramuta in sommersione. Uno scricchiolio ed è finita. Verrà un momento in cui una convulsione spezzerà la vostra soppressione, in cui un ruggito risponderà ai vostri schiamazzi. Quel momento è già venuto - e tu c'eri, padre mio! -, quel momento divino è venuto e si chiamava Repubblica, l'hanno cacciato, ma tornerà. Nell'attesa, ricordatevi che la serie dei re armati di spada è stata interrotta da Cromwell armato di scure. Tremate. Si avvicinano soluzioni incorruttibili, le unghie tagliate ricrescono, le lingue strappate prendono il volo e diventano lingue di fuoco sparse al vento nelle tenebre e urlano nell'infinito; gli affamati mostrano i loro denti inattivi, i paradisi costruiti sugli inferni vacillano, si soffre, si soffre, e ciò che è in alto tentenna e ciò che è in basso si schiude, l'ombra vuole diventare luce, il dannato mette in discussione l'eletto, è il popolo che viene vi dico, è l'uomo che sale, è l'inizio della fine, è la rossa aurora della catastrofe, ecco che c'è in questo riso che vi fa ridere! Londra è una festa perpetua. E va bene. L'Inghilterra è da un capo all'altro un'acclamazione. Sì. Ma ascoltate: Tutto ciò che vedete sono io. Le vostre feste sono il mio riso. I vostri pubblici divertimenti sono il mio. I vostri matrimoni, sagre e incoronazioni sono il mio riso. Le vostre nascite principesche sono il mio riso. Il tuono che avete sopra la testa è il mio riso». [Victor Hugo, L'uomo che ride, prefazione di Jean Gaudon, traduzione di Donata Feroldi, con un saggio di Robert Louis Stevenson, Milano, Mondadori, 1999, pp. 630-42].




[1] Rimando alla scheda Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/victor-marie-hugo/ (ultimo accesso: 19/04/2014).
[2] Victor Hugo, Discours à l'Assemblée nationale (1848-1871), http://www.assemblee-nationale.fr/histoire/victor_hugo/discours.asp (ultimo accesso: 19/04/2014).

venerdì 18 aprile 2014

Addio a Gabriel Garcia Marquez. Un momento di solitudine lungo cent'anni

Giunge da Città del Messico la notizia della scomparsa di Gabo.[1] Così lo chiamavano gli amici. Gli amici, che sono, invero, tutti coloro, che si sono persi tra le pagine di Gabriel Garcia Marquez, che hanno pianto, che hanno sudato, che hanno ricominciato più e più volte a leggere Cent'anni di solitudine. Nomi e paesi lontani, che oggi i critici chiamano realismo magico, ma che in realtà è la solitudine dell'uomo di fronte a un'idea di progresso che lascia l'individuo inerme di fronte a quei "giganti" che brutalmente governano le vite, sradicano, spremono le ricchezze e le anime. Macondo è il mondo.
Non è un caso che il romanzo più celebre e denso di Gabo (e forse anche del XX secolo) esca nel 1967 (in Italia è pubblicato nel 1968 da Feltrinelli nella traduzione di Enrico Cicogna). Non è un caso, poiché è difficile credere alle coincidenze, quando nel mondo una generazione è pronta a fare una rivoluzione, e un mondo è descritto con tutte le storture, le stranezze, le difficoltà, le "magie", i sentimenti e le generazioni che passano e cuociono sotto il sole ardente e si piegano sotto la pioggia e si inchinano alla morte. L'America Latina è soltanto un teatro, forse quello più truce di una modernità altera che nega i popoli e la natura dell'uomo. Soltanto l'istinto della sopravvivenza risulta - perdonatemi il gioco di parole - sopravvivere. Rimane un uomo diverso, ma che nello stesso tempo è uomo perché sopravvive nel seme e nell'amore. Amore, ricordi e una rivoluzione di Bolìvar non compiuta. Sogni che sono già nostalgia. Oggi saranno più di cento gli anni che questo momento di solitudine darà all'anima del mondo.

Piero Canale

A voi l'incipit di Cent'anni di solitudine.

Tutti gli anni, verso il mese di marzo, una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita.
Uno zingaro corpulento, con barba arruffata e mani di passero, che si presentò col nome di Melquìades, diede una truculenta manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l'ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia. Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici, e tutti sbigottirono vedendo che i paioli, le padelle, le molle del focolare e i treppiedi cadevano dal loro posto, e i legni scricchiolavano per la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi, e perfino gli oggetti perduti da molto tempo ricomparivano dove pur erano stati lungamente cercati, e si trascinavano in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di Melquìades. "Le cose hanno vita propria," proclamava lo zingaro con aspro accento, "si tratta soltanto di risvegliargli l'anima." José Arcadio Buendìa, la cui smisurata immaginazione andava sempre più lontano dell'ingegno della natura, e ancora più in là del miracolo e della magia, pensò che era possibile servirsi di quella invenzione inutile per sviscerare l'oro della terra. Melquìades, che era un uomo onesto, lo prevenne:  "Per quello non serve." Ma a quel tempo José Arcadio Buendìa non credeva nell'onestà degli zingari, e cos i' barattò il suo mulo e una partita di capri coi due lingotti calamitati.
Ursula Iguaran, sua moglie, che faceva conto su quegli animali per rimpinguare il deteriorato patrimonio domestico, non riuscì a dissuaderlo. "Molto presto ci avanzerà tanto oro da lastricarne la casa," ribatté suo marito. Per parecchi mesi si ostinò a dimostrare la veracità delle sue congetture. Esplorò la regio ne a palmo a palmo, compreso il fondo del fiume, trascinando i due lingotti di ferro e recitando ad alta voce l'esorcismo di Melquíades. L'unica cosa che riuscì a dissotterrare fu una armatura del quindicesimo secolo con tutte le sue parti saldate da una crostaccia di ruggine, la cui cavità aveva la risonanza vacua di un'enorme zucca piena di sassi. Quando José Arcadio Buendìa e i quattro uomini della sua spedizione riuscirono a disarticolare l'armatura, vi trovarono dentro uno scheletro calcificato che portava appeso al collo un reliquiario di rame con un ricciolo di donna.
A marzo tornarono gli zingari. Questa volta traevano un cannocchiale e una lente grande come un tamburo, che esibirono come l'ultima scoperta degli ebrei di Amsterdam. Misero a sedere una zingara a un'estremità del villaggio e collocarono il cannocchiale sull'entrata della tenda. Per cinque reales, la gente poteva chinarsi sul cannocchiale e vedere la zingara a portata di mano. "La scienza ha eliminato le distanze," proclamava Melquìades. "Tra poco, l'uomo potrà vedere quello che succede in qualsiasi luogo della terra, senza muoversi da casa sua." In un mezzogiorno ardente fecero una mirabile dimostrazione con la lente gigantesca: misero un mucchio di erba secca in mezzo alla strada e le appiccarono il fuoco mediante la concentrazione dei raggi solari.
José Arcadia Buendìa, che ancora non era riuscito a consolarsi dell'insuccesso delle sue calamite, concepì l'idea di utilizzare quell'invenzione come arma di guerra. Melquìades, di nuovo, cercò di dissuaderlo. Ma finì per accettare i due lingotti calamitati e tre pezzi di denaro coloniale in cambio della lente. Ursula pianse di costernazione. Quel denaro faceva parte di un cofano di monete d'oro che suo padre aveva accumulato in tutta una vita di privazioni, e che lei aveva seppellito sotto il letto in attesa di una buona occasione per investirle.
José Arcadio Buendìa non cercò nemmeno di consolarla, completamente assorto nei suoi esperimenti tattici con l'abnegazione di uno scienziato e perfino a rischio della propria vita. Mentre cercava di dimostrare gli effetti della lente sulla truppa nemica, espose sé stesso alla concentrazione dei raggi solari e patì scottature che si trasformarono in ulcere e guarirono solo dopo parecchio tempo. Nonostante le proteste di sua moglie, messa in apprensione da un'invenzione così pericolosa, poco mancò non incendiasse la casa.
Passava lunghe ore nella sua stanza, facendo calcoli sulle possibilità strategiche di quella sua arma inusitata, finché riuscì a comporre un manuale di una stupenda chiarezza didattica e di un irresistibile potere di convinzione. Lo spedì alle autorità, allegandovi numerose testimonianze sulle sue esperienze e vari fascicoli di disegni illustrativi, affidandolo a un messaggero che attraversò la sierra, si perse tra pantani smisurati, risali fiumi impetuosi e fu sul punto di perire sotto il flagello delle belve, del paludismo e della disperazione, prima di riuscire a raggiungere una, strada di allacciamento con le mule della posta. Nonostante il viaggio alla capitale fosse in quei tempi poco meno che impossibile, José Arcadio Buendìa si riprometteva di intraprenderlo non appena il governo glielo avesse ordinato, allo scopo di dare dimostrazioni pratiche della sua invenzione alle autorità militari, e addestrarle personalmente nelle arti complicate della guerra solare. Per molti anni attese una risposta.
Alla fine, stanco di aspettare, si lamentò con Melquìades de l fallimento della sua iniziativa, e lo zingaro diede allora una prova convincente di onestà: gli restituì i dobloni in cambio della lente, e gli lasciò inoltre delle mappe portoghesi e diversi strumenti di navigazione. Scrisse di suo pugno una succinta sintesi degli studi del monaco Hermann, che lasciò a sua disposizione perché potesse servirsi dell'astrolabio, della bussola e del sestante. José Arcadio Buendìa trascorse i lunghi mesi di pioggia chiu. so in uno stanzino che aveva costruito in fondo alla casa perché nessuno turbasse i suoi esperimenti. Tralasciò completamente i propri doveri domestici, rimase nel patio per notti intere a sorvegliare il corso degli astri, e fu sul punto di contrarre un'insolazione mentre cercava di stabilire un metodo esatto per trovare il mezzogiorno.
Quando fu esperto nell'uso e nel maneggio dei suoi strumenti, ebbe una nozione dello spazio che gli permise di navigare per mari incogniti, di visitare territori disabitati e di allacciare rapporti con esseri splendidi, senza bisogno di lasciare il suo laboratorio. Fu in quel periodo che prese l'abitudine di parlare da solo, vagando per la casa senza badare a nessuno, mentre Ursula e i bambini si rompevano la schiena nell'orto per coltivare il banano e la malanga, la manioca e l'igname, la ahuyama e la melanzana. Improvvisamente, senza alcun preavviso, la sua febbrile attività si interruppe e fu sostituita da una specie di allucinazione. Rimase come stregato per parecchi giorni, continuando a ripetere a sé stesso a bassa voce una filza di sorprendenti congetture,incapace egli stesso di dar credito al proprio raziocinio. Alla fine, un martedì di dicembre, verso l'ora di pranzo, esplose in un colpo solo tutta la carica del suo tormento. I bambini avrebbero ricordato per il resto della loro vita l'augusta solennità con la quale il padre si sedette a capotavola, tremante di febbre, consunto dalla veglia prolungata e dal fermento della sua immaginazione, e rivelò la sua scoperta: "La terra è rotonda come un'arancia". [Gabriel Garcia Marquez, Cent'anni di solitudine]







[1] Gabriel Garcia Marquez, http://www.treccani.it/enciclopedia/gabriel-garcia-marquez/ (ultimo accesso: 24/04/2014).

sabato 5 aprile 2014

La fabbrica degli abiti

Marina Comei, La fabbrica degli abiti. Cesare Contegiacomo e la sua impresa 1905-1985, Roma-Bari, Laterza, 2012, 131 pp., ill., ISBN 978-88-420-9938-3.

Fare storia di impresa nel Mezzogiorno può sembrare ancora oggi, nell'immaginario collettivo, un ossimoro o storia di folli cattedrali nel deserto, quando invece bisognerebbe conoscere meglio il territorio meridionale, ridotto troppo spesso a un unico grande blocco informe e connotato da marchi come il clientelismo, il malaffare, la mancanza di un tessuto industriale, che sono più il frutto di una comodità narrativa per il grande pubblico dei media e della politica da talk-show.
Nell'Introduzione [pp. V-VIII] al libro di Marina Comei, docente di storia economica presso l'Università di Bari, è richiamata all'attenzione la "geografia dello sviluppo economico", quale strumento per comprendere le specificità di una città o di regioni che hanno storie di rilevante crescita economica oppure di marginalità, affinché si possa capire quali siano i meccanismi di sviluppo e crescita in un territorio.
La fabbrica degli abiti non è un manuale di geografia dello sviluppo economico, bensì il risultato di una ricerca fatta negli archivi (da quello di famiglia a quello dell'azienda Contegiacomo presso l'Archivio di Stato di Bari, solo per citarne due tra i più importanti), che trova il suo esito in questo libro e nel racconto della storia dell'azienda di Cesare Contegiacomo, sorta a Putignano nel 1905. Una storia che parte proprio dalla conoscenza del territorio e non da schemi polarizzati e definiti.
Cesare Contegiacomo crea un'azienda di confezioni in Puglia, territorio vivace, volto al commercio e alla manifattura. Un'azienda, all'inizio a conduzione familiare, che nella sua storia, lunga ben 80 anni (è, infatti, del 1985 la dichiarazione di fallimento), acquisisce un forte significato sociale all'interno della comunità putignanese.
L'impresa vive momenti cruciali della storia italiana del XX secolo, come le guerre mondiali, il colonialismo italiano e l'apertura di nuovi mercati, il dopoguerra, il boom economico degli anni Sessanta e la crisi degli anni Settanta, da cui l'azienda però non riesce più a risollevarsi.
È una storia d'impresa che non può non evidenziare gli effetti sociali che un'attività produttiva ha sul territorio, soprattutto se si considerano aspetti interessanti come gli alti livelli di occupazione in fabbrica in un territorio in cui prevale l'industria a domicilio nel settore tessile, o dell'indotto che si sviluppa.
Il libro fornisce, attraverso la narrazione di tutte le fasi della vita dell'azienda di Cesare Contegiacomo, numerosi spunti di riflessione che possono essere punto di partenza per ulteriori ricerche, considerata la mancanza di una vera e propria "tradizione" di studi storici sull'impresa.
Il libro, corredato da una raffinata selezione di fotografie della storia dell'impresa (e – a mio avviso – anche di un'Italia che fu), riporta delle interessanti Appendici [pp. 94-128] con l'Intervista a Cesare Contegiacomo [pp. 95-102], nipote del Cesare Contegiacomo fondatore dell'azienda, a cura di Pietro Sisto, e la fotoriproduzione di alcuni Documenti [pp. 103-128] della storia della fabbrica degli abiti. A seguire una Bibliografia essenziale sull'argomento [pp. 129-132].


Piero Canale



La contea di Modica

Leonardo Sciascia e Giuseppe Leone, La contea di Modica, Palermo, Edizioni di Passaggio, 2009, 152 pp., ISBN 978-88-903703-5-9.

Nel 1983 la casa editrice Electa pubblica un’opera che narra del cuore della Sicilia, la contea di Modica del titolo appunto, per metà facendola spiegare da Leonardo Sciascia, e per metà facendola fotografare da Giuseppe Leone. Questo volume è la sua riedizione del 2009, in occasione del ventennale della morte di Sciascia, con l’aggiunta di altre foto, una nuova veste grafica e una nota di Vincenzo Consolo, altro grande intellettuale siciliano amico di Sciascia.
L’opera che ne è risultata è un bel testo, perlopiù illustrato, che mostra come di base l’essenza della contea è immutata (-bile) – in una sfera quasi atemporale e astratta – nel trascorrere di più di mezzo secolo, dagli anni Cinquanta del Novecento al Duemila. Gli scatti sono quasi sempre in bianco e nero, alternano paesaggi, bambini in gioco, lavoratori nei campi, ambulanti, processioni religiose di Modica, Ispica, Pozzallo, Ragusa, Vittoria, Chiaramonte Gulfi. Non c’è una sequenza temporale o un raggruppamento tematico, in un flusso di microstorie quotidiane raccontate discretamente, senza giudicare, quasi in punta di piedi. Non vi sono didascalie: sotto ogni foto solo un rigo con il paese ritratto e l’anno.
Sciascia nel suo breve saggio spiega come questa, nella definizione siciliana, sia la cosiddetta ‘Sicilia babba’, notando la «curiosa contraddizione: di considerare stupida, e particolarmente stupida, questa parte della Sicilia di cui contemporaneamente si riconosce e si esalta la tranquillità del vivere, il benessere, l’eccellenza dei prodotti. Evidentemente, una sorta di masochismo presiede a un così contraddittorio giudizio» [p. 11].
Il volume si apre con lo scritto di Consolo La contea di Modica. Una nota [pp. 7-10], datato 2009; segue il saggio di Sciascia La contea di Modica [pp. 11-22] del 1983, e quindi le Tavole di Leone [pp. 23-138].
In chiusura sono tradotti in inglese i due testi di Consolo [pp. 139-140] e Sciascia [pp. 141-149].
Si consiglia l’acquisto di questo libro non per il suo valore esornativo, ma perché le fotografie, ancor più dei testi, raccontano tante storie e forniscono spunti di riflessione.

Eloisia Tiziana Sparacino


Dono dell'editore



I Giorni della Parola

Salvatore Lo Bue, I Giorni della Parola. Il vangelo secondo Giovanni e la Poetica, Milano, Franco Angeli, 2013, 127 pp., ISBN 978-88-204-5236-0.

L'ultima fatica di Salvatore Lo Bue, docente di Poetica della fu Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo, si intitola I Giorni della Parola. Il vangelo secondo Giovanni e la Poetica. Voglio precisare che non si tratta in questo libro di questioni teologiche o di fede, ma di Poetica. Poetica che Aristotele definisce scienza, rigorosa operazione creativa e che indaga l'origine, il divenire e il manifestarsi dell'atto di poesia. Per Lo Bue, infatti, la struttura della narrazione evangelica (in questo caso quella del vangelo di Giovanni) ripropone i principi della poetica aristotelica.
Nel vangelo di Giovanni noi abbiamo la rappresentazione di un'azione seria, complessa e compiuta in se stessa, che ha una certa estensione, con uno stile opportuno in ogni sua parte e che racconta una storia che è principio e anima dell'opera, la storia di Gesù di Nazareth.
I fondamenti dell'azione tragica canonizzati da Aristotele si riscontrano nel nodo (δέσις), ossia «tutti questi casi che sono estranei all'azione propriamente detta, e spesso anche taluni di quelli che fanno parte di essa azione, costituiscono il nodo. In altre parole, chiamo nodo quella serie di casi che vanno da ciò che si prende come principio della favola fino a quel punto della tragedia da cui immediatamente si inizia la mutazione da uno stato di infelicità a uno stato di felicità o viceversa»;[1]
e poi nello scioglimento del nodo (λύσις) che avviene attraverso un'azione tragica complessa che comprende sia le peripezie sia il riconoscimento.
Sembrerebbe una passeggiata il lavoro di Lo Bue, che si limita semplicemente ad applicare le rigorose leggi della poetica aristotelica a uno dei quattro vangeli. Tuttavia, il libro mostra un aspetto non secondario, che si rivela invero il problema centrale della poetica del vangelo di Giovanni. E all'autore va il merito di averlo esaminato in maniera attenta. Il "problema" si chiama Prologo del vangelo di Giovanni.
Che vuol dire? Sempre riferendoci all'Aristotele della Poetica, il filosofo greco sostiene che la verità abbandona la ragione della poesia, è cade ogni rapporto tra essenza e parola. L'unica scienza in grado di pensare l'essere in quanto essere è la Metafisica. È tolto pertanto ogni orizzonte celeste alla poesia. La poesia non è più dono del dio, ma soltanto una scienza, un'operazione creativa.
Nel prologo del Vangelo di Giovanni è però scritto:
«In principio era il Logos, / e il Logos era presso Dio, / e il Logos era Dio. / Il Logos era, in principio, presso Dio. / Tutte le cose, per lui, sono venute alla luce / e niente, di tutto ciò che esiste, senza di lui / è venuto alla luce. / La Vita era in lui, / e la Vita era la luce degli uomini: / e la luce illuminò le tenebre, / e le tenebre la rifiutarono. / [...] E il Logos si fece carne / e venne e abitò tra di noi. / Di lui abbiamo visto la gloria, / la gloria di colui che è l'Unigenito, / pieno di grazia e di verità».[2]
È evidente che il Prologo non lascia spazio ad altre interpretazioni: Gesù è la Parola, l'Opera che racconta Dio, che racconta se stessa.
Non può essere la poesia analizzata da Aristotele, lontana dall'essere e dalla verità.
Qual è dunque la libertà del poeta? La libertà dell'autore Giovanni sta nell'essere autore di una cornice che racchiude il quadro che è già fatto, perché è lo stesso Logos a essere racconto e voce narrante.
Lo Bue introduce, quindi, Platone e i dialoghi di Socrate, per realizzare quel paragone che è utile a farci comprendere il superamento della poetica aristotelica, e nello stesso tempo la poetica platonica. Socrate è protagonista delle opere di Platone, Gesù non è protagonista, bensì Opera e creatore.
A complicare ulteriormente la trama del libro è la teoria del «terzo schema». Infatti, per Lo Bue, la poetica evangelica è il superamento della tradizione poetica omerica dove la poesia è poesia dei moti del cuore, poesia del presente, poesia fatta di gesti, di movimenti e di azioni. L'autore riporta come esempio l'episodio del canto XIX dell'Odissea in cui Euriclea riconosce l'eroe. È superamento anche della poesia biblica del Vecchio Testamento, una poesia definita del silenzio, dell'indeterminato, del non detto, «degli spazi interminati, dei sovrumani silenzi» [p. 16], dice Lo Bue. E riporta come esempio il sacrificio di Isacco. E questa è la narrazione biblica che canta soltanto la gloria di Dio unico e solo, e che non tiene conto della vita umana.
Superamento significa anche sintesi e questa sintesi poetica dei due modelli, quello omerico e quello biblico, rappresenta il modello della scrittura giovannea.
Un modello che influisce in maniera potente nella narrazione occidentale e nella poetica occidentale.
Il professore Lo Bue individua cinque elementi che caratterizzano la poetica del vangelo di Giovanni.
1) La scena
che muove sempre da luoghi geograficamente precisi e da scene ben costruite: descrizioni minuziose, movimenti dei personaggi, variazioni psicologiche. Le scene del vangelo sono definite pittura, quasi una forma di realismo che è di matrice omerica;
2) L'incontro
tutto accade nell'incontro, nell'incontro con la Verità. Il vangelo di Giovanni è storia dell'incontro con Gesù che si rivela e si dice e si manifesta e agisce per la salvezza di tutti i viventi (l'incontro con Giovanni Battista, l'incontro con la Samaritana, l'incontro con l'emorroissa, l'incontro con Marta, e con l'adultera);
3) Il dialogo e la rivelazione di sé
negli incontri e nei dialoghi emerge l'elemento di identità tra personaggio e pensiero in cui Gesù è il Logos, Dio è Persona e non forma ed è proprio la rivelazione a muovere gli incontri;
4) L'azione
questo è uno degli elementi che supera veramente gli altri modelli. In questo Giovanni si fa costruttore di scene e non di verità, la verità non ha bisogno di essere costruita, perché la verità è essa stessa e va messa in scena;
5) I personaggi
i personaggi del vangelo sono nuovi e sono determinanti per la letteratura occidentale. Essi sono complessi, ma nello stesso tempo occupano spazi di pochissime battute in dialoghi serratissimi e diventano figure universali. Non ci sono 100 pagine a descrivere la Samaritana, come ad esempio fa Manzoni con la monaca di Monza. Solo pochi versi, che tuttavia sono scolpiti e hanno insieme la concretezza psicologica degli eroi omerici e l'astratta lontananza dei personaggi veterotestamentarii e che superano Odisseo e Abramo, perché parlano e agiscono animanti da quella energia scaturita dall'incontro. Questa è una grande costruzione poetica.
Questa è per grandi, grandissime linee l'analisi della poetica giovannea che fa Lo Bue, tuttavia non sarebbe un libro di Lo Bue, se esso rimanesse chiuso in questa disamina scientifica, di termini canonizzati.
Infatti, a un certo punto inizia la narrazione, perché la poetica - e Lo Bue ce lo ha dimostrato nei precedenti libri - si comprende nei versi non nei termini scientifici, nella lettura del testo.
Il libro quindi racconta gli ultimi tre anni di vita di Gesù, il 28, il 29 e il 30 (è bene ricordare che il vangelo di Giovanni, rispetto ai sinottici, non narra l'annunciazione, la natività di Gesù). Il vangelo di Giovanni, dopo il Prologo, narra l'incontro tra Giovanni Battista e Gesù al fiume Giordano. Gesù è già adulto.
La narrazione è quindi scandita dalle stagioni e dagli incontri. Non entro nel merito della narrazione, poiché non voglio dilungarmi e voglio lasciare ai lettori il piacere di leggere le pagine di questo libro meraviglioso.
Voglio tuttavia soffermarmi su un episodio che ritengo importante nell'economia del vangelo di Giovanni e quindi anche nel libro di Lo Bue.
La morte di Lazzaro, o meglio la resurrezione di Lazzaro, che è un episodio noto del vangelo. Gesù ritarda il suo incontro con Lazzaro, che è malato e nel frattempo muore. Gesù allora si dirige verso il villaggio e resuscita Lazzaro.
Prima del miracolo avviene - attraverso queste parole: «Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Tu lo credi?»; e la risposta di Marta: «Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che doveva venire al mondo» - una prima fase del riconoscimento (l'Άναγνώρισις della poetica aristotelica), ossia il passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza: «riconoscimento è salda visione del destino, evidenza dell'inganno, occhio aperto sull'abisso dei mali, stasi prima della caduta, sapienza finale della propria condizione tragica e umana. E quando accade il riconoscimento, la catastrofe è puro, semplice scioglimento, l'abbandono consapevole alle forze avverse che hanno determinato il mutamento e ora consegnano alla fine».[3] Ciò appare una conferma di quel «terzo schema» chiamato in causa prima. Il Logos stesso opera il suo riconoscimento ed è quindi nello stesso tempo rivelazione di sé.
È necessario sforzarsi di immaginare il lettore o colui che ascoltava il messaggio, la storia di Gesù ai tempi dell'evangelizzazione, quale colpo di teatro riceveva. L'evangelizzazione è un fenomeno storico e la poetica giovannea è certamente uno strumento forte e invincibile in dotazione agli evangelizzatori. Pensate ai popoli pagani, cui veniva raccontato il Logos e l'identità della Persona, quale storia appassionante doveva essere il racconto del vangelo. Chi ascoltava o leggeva per la prima volta, si trovava di fronte alla perfetta narrazione della Verità. Aveva iniziato a sospettare che Gesù fosse il Figlio di Dio, il Messia, tuttavia sono ancora solo segni, ipotesi, fino a quando non avviene il Riconoscimento.
Per chi sa come va a finire la storia è diverso. Non abbiamo il colpo di scena per vari motivi. Chi non conosce la storia, riceve invece un sussulto forte. Non è un caso, che dopo l'episodio della resurrezione di Lazzaro, inizi la Passione, che è il momento della catastrofe (πάθος). Vi saranno l'arresto, le percosse, l'incoronazione e la crocifissione. Le sofferenze prima del riconoscimento definitivo del Logos che in questo caso non dà luogo alla catarsi come vuole l'impianto aristotelico della tragedia, ma alla Salvezza attraverso l'annuncio del regno di Dio che si rende visibile nel sacrificio e nella resurrezione del Figlio.
A questo punto io mi fermo, perché c'è un limite, detto dell'ineffabile, dell'indicibile che soltanto il poeta può tentare di esplorare, rimanendo in equilibrio sul confine che è quello della Parola e del Sacro, per questo voglio chiudere invitandovi alla lettura de I Giorni della Parola.


Piero Canale




[1] Aristotele, Poetica, 1455b 24-28, trad. M. Valgimigli, Roma-Bari, Laterza, 1964, pp. 66-8.
[2] Gv 1, 1-5, 14.
[3] Salvatore Lo Bue, La Musa Drogata. Saggio sulle origini della poetica, Milano, Franco Angeli, 1999, p. 136.

Gesù lava sempre più bianco

Bruno Ballardini, Gesù lava sempre più bianco, Roma, Minimum Fax, 2014, 200 pp., ISBN 88-7521-114-0.


Parlare della storia della Chiesa utilizzando categorie e strumenti del marketing. È il percorso che intraprende questo libro originale, interessante e ricchissimo. Gesù lava sempre più bianco – ovvero: come la Chiesa inventò il marketing di Bruno Ballardini, pubblicitario e teorico della comunicazione. Il libro, pubblicato per la prima volta nel 2000, esce ora nella sua quarta edizione riveduta e aggiornata, con un nuovo capitolo su papa Francesco.
Dunque, il marketing. Questa disciplina che cerca continuamente di ostentare il suo rigore metodologico e la sua correttezza deontologica forse «per via dell'assoluto vuoto di etica che sottintende» [p. 14]. Il marketing che in questa società ormai radicalmente consumistica, risulta «la religione per eccellenza» [p. 12].
Ma c'è pure la Chiesa. Il marketing e la Chiesa. Il marketing della Chiesa. Questo libro spazia in lungo e in largo per la storia della Chiesa, rileggendo la nascita, l'avanzare e l'affermarsi del cristianesimo secondo il punto di vista del marketing. O meglio: parla della storia dell'affermazione del cristianesimo come se fosse la più grande operazione di marketing della storia.
Gli spunti sono tantissimi, e le provocazioni di più. Ballardini ha una cultura notevole e riesce a parlare – con cognizione di causa – di storia, religione, filosofia, estetica, musica. Racconta aneddoti divertenti, si mette a fare il giornalista, accosta notizie e fa collegamenti, disquisisce sul cattivo gusto della Cupola di San Pietro e sulle evidenti illogicità di certi sillogismi che «dimostrano l'esistenza di Dio». E poi parla di marketing, con un certo compiacimento nel parlare di grosse questioni storico-culturali con il lessico tecnocratico ed esterofilo del marketing.
Il libro, oltre alla sua valenza conoscitiva, combatte almeno due precise battaglie intellettuali:
1)       Contro l'Istituzione Chiesa e contro il Cristianesimo nella sua interezza. L'ostilità è palese, sia a livello politico sia a livello teorico-filosofico;
2)       Contro i cosiddetti “guru del marketing”, o più in generale contro gli studiosi di marketing che non tengono in considerazione la storia. Ballardini sembra voler continuamente irridere e smontare chi afferma che il marketing ha inventato questo e quello. Il marketing, dice l'autore, si è limitato a riprendere (e definire, e ridefinire) dinamiche e strategie già abbondantemente utilizzate durante la storia da tantissime entità di diversa natura a partire, appunto, dalla Chiesa.

Tra le tante cose interessanti del libro c'è l'insistere sulla figura strategica di Paolo di Tarso. Ovvero: il primo e più importante Marketing Manager della Chiesa, che ha dettato le regole principali per la diffusione della Marca (il cristianesimo) in tutto il mondo:

«Paolo Di Tarso preparò il terreno alle grandi campagne pubblicitarie successive con un'azione mirata di direct marketing (…) rivolgendosi agli opinion makers, ovvero a coloro che sono in grado di condizionare l'opinione di un grande numero di persone. Un lavoro del genere permise di stabilizzare l'immagine della Marca e preparò proficuamente il terreno allo stadio finale dell'advertising. Paolo dunque indirizzò i suoi mailing a sette forti gruppi di opinione (i Tessalonicesi, i Corinzi, i Galati, i Romani, i Filippesi, gli Efesini, i Colossesi) e a tre leader che avrebbero a loro volta svolto un'azione catalizzatrice verso la Marca (Filemone, Timoteo e Tito). Entusiasta del direct marketing fino a diventarne un fanatico utilizzatore, Paolo fu a tutti gli effetti il primo guru della pubblicità postale (…) Ma Paolo introdusse per primo anche la pubblicità postale nella sua forma più diretta. Non gli mancarono occasioni per stabilire il primato del cristianesimo come Marca, declassando l'ebraismo a una sorta di sottomarca che ha fallito quasi ingannando i consumatori» [p. 99].
Una strategia vincente che sfocerà nell'egemonia culturale e politica del cristianesimo, che si innesta addirittura nell'Impero romano «quando papa Leone I (440-461) arrivò a dichiarare ufficialmente che Pietro e Paolo avevano sostituito Romolo e Remo come patroni di Roma. La Madonna e i Santi avevano nel frattempo rimpiazzato altre divinità pagane già patrone di altre città. Di fatto, la Roma cristiana fu il legittimo successore della Roma pagana» [p. 101]. E questa, detta con il linguaggio del marketing, «è la più grande operazione di positioning (posizionamento ndr) che la storia ricordi» [p.101].
Poi i concili: «Per quanto riguarda il controllo della qualità, la Chiesa istituì a partire dalla prima convention di Nicea (325) l'usanza di riunire periodicamente tutto il management per fare il punto della situazione e rivedere le linee guida a cui si sarebbe ispirata da lì a seguire. La storia dei concili, per quanto contraddittoria, porta con sé la traccia di un'inesauribile ricerca dell'eccellenza che ha preceduto di molti secoli l'invenzione della qualità totale» [p. 41].
E poi? Il giubileo è l'apice del reparto Organizzazione Eventi della Chiesa. È la più grande Festa della Marca che la storia ricordi, la Chiesa è il punto vendita, la messa, l'happening periodico che fidelizza i clienti. Icone, santini, rosari sono la gadgetteria.
Poi c'è la propaganda, la comunicazione e, infine, una riflessione sulla “merce” del cristianesimo. Qual è la merce? Forse la merce è la Marca stessa, Il Cristianesimo, nel suo vortice di significati. E che prezzo ha questa merce? È gratis. E l'autore sembra chiedersi continuamente: e come si fa a resistere ad una merce quando è la merce è gratis?

Nino Fricano



Gocce di Sicilia

Andrea Camilleri, Gocce di Sicilia, Milano, Mondadori, 2009, 91 pp. (Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 641), ISBN 978-88-04-59078-1.

Questo volume raccoglie alcuni scritti originali di Andrea Camilleri comparsi, tra il 1995 e il 2000, sull’Almanacco dell’Atlanta. Nello specifico si tratta di 7 racconti dalla grandissima forza espressiva, che hanno reso Camilleri uno degli scrittori più apprezzati nel panorama letterario italiano: Zù Cola, «pirsona pulita» [pp. 7-21], Chi è che trasì nello studio? [pp. 23-34], Piace il vino a San Calò [pp. 35-44], Il primo voto [pp. 45-59], Ipotesi sulla scomparsa di Antonio Patò [pp. 61-80], Il cappello e la coppola [pp. 81-84], Vicenda d’un lunario [pp. 85-92].  
Tra questi, particolarmente interessante risulta Chi è che trasì nello studio?, in cui Camilleri rievoca, in una Sicilia assolata di metà novecento, la figura di «uno zio magico, “u zz’Arfredu”» [p. 25], medico, come ci dice l’autore, e considerato da tutti quasi un santo. Oltre ad essere stimato santo, lo zio aveva anche la capacità di creare santi: per citarne alcuni, san Callìpedo, san Culario, ma soprattutto san Filàno. Il culto, rigorosamente vietato agli uomini, se non a zio Alfredo, che ne era il Gran Sacerdote, «veniva praticato da ragazze da marito che ancora non avevano lo zito, il fidanzato» [p. 26].
Questo «omone» [p. 25], come ce lo descrive Camilleri, era anche una persona dal gran cuore, tanto che, una volta, «fece costruire a sue spese una vera colonia dove, a sue spese, gli orfanelli potevano soggiornare per un mese» [pp. 28-29]. Nella sua casa della “marina”, assediata in estate da masnade di nipoti, c’era un luogo che attraeva particolarmente il giovane Camilleri: lo studio. Era uno «stanzone stracolmo fino al soffitto di libri e riviste» [p. 31], nel quale il bambino decise di entrare di nascosto, ma acquistando, da quel momento, la stima dello zio. Nei cinque anni successivi egli trascorse molte ore a leggere e rileggere celebri volumi di autori illustri, come «Conrad, Melville, Maupassant, Flaubert, Dumas, Verga, Capuana, Pirandello» [p. 32]. Toccante la conclusione del racconto, in cui lo zio morente assicura al ragazzino che, anche dopo la sua dipartita, avrebbe potuto continuare ad andare nello studio a leggere tutte le volte che avesse voluto.
Molto divertente, ma al tempo stesso pungente, il metaforico racconto Il cappello e la coppola, in cui si narra l’incontro tra un cappello (simbolo della classe dirigente) e una coppola (simbolo della criminalità organizzata).
Ipotesi sulla scomparsa di Antonio Patò è il racconto che, successivamente ampliato e completato con integrazioni ed aggiunte, diede luogo al fortunato romanzo La scomparsa di Patò (2000).
In ogni testo risplendono quell’abilità letteraria, quel linguaggio originale e caratteristico, contemporaneamente ricercato e popolaresco, che lo hanno reso uno degli autori siciliani più apprezzati di sempre.

Vincenzo Bagnera





Luigi Sturzo-Antonio Gramsci. Il Mezzogiorno e l’Italia

Giampaolo D’Andrea e Francesco Giasi (a cura di), Luigi Sturzo-Antonio Gramsci. Il Mezzogiorno e l’Italia, Roma, Edizioni Studium, 2012, 196 pp., (UNIVERSALE Studium 13. Nuova serie. Storia / 2), ISBN 978-88-382-4215-1.

Il Mezzogiorno è sempre stato il grande tema dell’Italia. Se ne sono occupati in tanti, sin dai tempi remoti, come attestano del resto le numerose analisi formulate da storici, intellettuali, giornalisti, politici. Già Antonio Serra, l’economista italiano più originale del Seicento, dedica gran parte dei suoi studi alle condizioni socio-economiche del Mezzogiorno, accusando apertamente i meridionali di scarsa iniziativa imprenditoriale e rivolgendo poi grande attenzione alla carenza di strutture manifatturiere. Quest’ultimo è per Serra un vero problema proprio perché, secondo l’economista cosentino, l’industria è molto più redditizia dell’agricoltura e la buona disponibilità di oro e argento deriva dalla prosperità dell’economia e non il contrario.
Non è un caso che nel recensire questo volumetto – pubblicato dalle Edizioni Studium in collaborazione con la Fondazione con il Sud e la Fondazione Istituto Gramsci – mi venga in mente Serra. L’economista, infatti, non lesina critiche nei confronti degli stessi meridionali, unici responsabili, a suo dire, dell’arretratezza del Mezzogiorno: la totale assenza di spirito imprenditoriale, l’incapacità di mettersi in gioco e di rischiare per investire sono stati a lungo il leitmotiv principale delle accuse rivolte agli italiani del Sud, rei con questo atteggiamento di aver determinato le condizioni di inferiorità in cui versano da secoli. È con Sturzo e Gramsci – e quindi rispettivamente col Partito Popolare e con il Partito Comunista Italiano – che questa prospettiva viene rovesciata con forza, dando inizio a un’analisi meno riduttiva e semplicistica della questione meridionale. Se per certi versi le due riflessioni sembrano coincidere in alcuni punti, per altri esse divergono nettamente, specialmente se si guarda all’approccio ideologico con cui i due grandi protagonisti della storia italiana della prima metà del Novecento, affrontano il tema del Meridione.
Proprio questo è il nodo centrale del libro: Sturzo e Gramsci vengono messi a confronto attraverso la riproposizione di due documenti molto importanti: Il Mezzogiorno e la politica italiana di Sturzo e le Note sul problema meridionale di Gramsci.
Sturzo rivendica, prima di ogni cosa, il merito dei popolari di aver impostato la questione meridionale come problema unitario e nazionale. Nondimeno Gramsci insisterà costantemente nella necessità di una unione tra operai del Nord e contadini del Sud, finalizzata all’abbattimento del potere borghese.
Ciò che accomuna entrambi è sicuramente la profonda avversione nei confronti del “centralismo burocratico” dello Stato unitario e l’inclinazione verso uno Stato delle autonomie che in Sturzo si tradurrà poi nel regionalismo, mentre per Gramsci rimarrà indeterminato [p. 11].
Da subito emerge, dunque, che se nell’analisi del problema tra i due sembra esserci una sostanziale convergenza è poi sulle soluzioni politiche che Sturzo e Gramsci finiscono inevitabilmente per dividersi.
Il meridionalismo di Sturzo è, innanzitutto, qualcosa che accompagna la sua stessa vita e la sua esperienza politica e spirituale con l’isola più a Sud del Paese: il suo approccio al problema del Mezzogiorno matura, infatti, a contatto con i problemi della Sicilia [p.33]. Sturzo non tralascia di ricordare come l’agricoltura svolga un ruolo essenziale nell’isola. La Sicilia, che egli immagina autonoma dal punto di vista amministrativo, avrebbe dovuto trarre capitali dall’iniziativa privata, mentre agricoltura e industria avrebbero dovuto essere strettamente connesse [p. 34].
In quest’ottica, fondamentali diventano, pertanto, il decentramento e il regionalismo. La forzata unificazione nazionale, infatti, crea i presupposti per il mancato sviluppo del Mezzogiorno non solo dal punto di vista economico e politico, ma perfino sul piano culturale e sociale. Le idee che Sturzo si forma sul decentramento e sulla necessità di realizzare un vero e proprio regionalismo nel Paese, sono influenzate dal pensiero di De Viti De Marco, di Gioacchino Ventura e persino di Nitti [p. 38].
Sturzo auspica, inoltre – come poi fa anche Gramsci con la classe operaia settentrionale – il coinvolgimento del movimento cattolico del Nord nella soluzione della questione meridionale. Presto però si accorge dell’assoluta indisponibilità, da parte dei settentrionali, a realizzare tale collaborazione a causa del «cumulo di prevenzioni e diffidenza verso il Meridione» [p. 39].
Questa impostazione diventa comunque centrale nei programmi del nuovo Partito Popolare, assieme alla convinzione che i problemi del Mezzogiorno sono prima di tutto problemi nazionali.
Per far sì che il Meridione diventi davvero un ponte naturale di collegamento tra l’Africa del Nord e l’Albania, la Spagna e l’Asia minore, è necessario, secondo Sturzo, superare prima di tutto il sistema doganale e il regime protezionista che fino a quel momento hanno favorito le industrie del Nord a discapito del Mezzogiorno; successivamente risolvere il tema dell’uniformità legislativa in spregio alle tradizioni giuridico-amministrative dell’isola e, infine, attuare la riforma del sistema tributario che di fatto, così com’era strutturato, non faceva che accentuare lo squilibrio tra Nord e Sud [p. 45].
Il Mezzogiorno necessita poi di una Riforma Agraria e naturalmente di nuovi indirizzi di politica internazionale, in base ai quali si possa unire l’Italia alla Jugoslavia, all’Austria, alla Cecoslovacchia e all’Ungheria, per realizzare un regime di liberi scambi.
L’avvento del fascismo, di fatto, blocca il progetto sturziano. La ragione va ricercata nel fatto che le classi sociali alle quali il prete calatino si rivolge per realizzare il suo programma, ossia la piccola e media borghesia rurale del Mezzogiorno, finiscono per aderire apertamente a Mussolini nel quale vedono l’uomo capace di riportare ordine nel Paese, mettendo a tacere le rivendicazioni operaie e contadine.
Per Sturzo, dunque, Mezzogiorno e Stato non sono due categorie separate ed è proprio questo dualismo che va superato, perché i meridionali sono parte integrante dell’Italia.
Eppure, anche Sturzo crede che i meridionali abbiano le loro responsabilità, riscontrabili non soltanto nell’atteggiamento volto a chiedere di continuo aiuti e interventi allo Stato, ma anche nelle politiche di quanti non sono riusciti nemmeno a capire i veri problemi del Mezzogiorno e, di conseguenza, si mostrano impreparati nel proporre soluzioni efficaci. Né bastano a Sturzo le classiche giustificazioni: la permanenza delle strutture feudali, ben oltre la data ufficiale del loro smantellamento, o la mancanza di una borghesia imprenditoriale audace, come sostiene ad esempio Serra. Secondo il politico popolare è infatti da superare quello «stato psicologico che ci mette in condizioni di inferiorità» [p. 74] affinché gli stessi meridionali possano creare un programma politico della questione meridionale e farlo poi diventare pensiero generale di tutti gli italiani. In un’ottica rovesciata, dunque, almeno per una volta, non bisogna aspettare la soluzione dall’esterno, ma farsi promotori attivi di una strada non solo da percorrere in prima persona, ma da far intraprendere all’intero Paese, nella certezza che i problemi del Sud si ripercuotono a catena anche nel resto del Paese: «La redenzione comincia da noi» [p. 74] afferma con veemenza il prete calatino.
Un tema caldo sollevato da Sturzo e, a mio avviso, di grande attualità politica, è poi il ruolo esercitato dall’alta banca e dalla finanza nel determinarsi delle condizioni economiche del Paese.  Secondo Sturzo, infatti, l’alta banca – che non è mai esistita nel Mezzogiorno – ha sempre mantenuto un dominio molto forte delle principali scelte economiche e industriali del Paese. Le industrie di natura domestica e artigiana, per fare un solo esempio, non sono appetibili per la finanza perché «ven[gono] meno col cadere delle linee doganali interne e non po[ssono] tentare la loro trasformazione industriale, perché lontane dal mercato generale» [p. 92]. Ciò ha finito, inevitabilmente, per determinare nel Mezzogiorno la prevalenza del settore agricolo e, ciò che è peggio, è che non si tratta di un’agricoltura soltanto povera e arretrata ma anche vessata dai latifondisti, dai gabelloti, dalla mafia, dall’abigeato e dalla malaria.
D’altra parte, qualcuno potrebbe obiettare che se lo Stato non interviene con la costruzione di infrastrutture, nessun industriale sarà mai interessato a investire in queste zone del Paese. Questa impostazione, pur partendo da presupposti giusti, non è affatto condivisa da Sturzo, poiché da essa sembra evincersi quel solito atteggiamento, proprio di chi vuole che i problemi del Meridione restino di esclusivo interesse e a totale carico dei meridionali. Dovrebbe invece diventare un problema di tutto il Paese farsi carico e risolvere le contraddizioni del Mezzogiorno, poiché se una parte del Paese è malata, allora tutti complessivamente ne risentono.
Indubbiamente il meridione presenta delle povertà naturali, un clima difficile e una organizzazione sociale e politica piuttosto mediocre. Eppure ci sono state epoche in cui questa parte della penisola è stata florida. Le ragioni, secondo Sturzo, sono da ricercare nel fatto che, in quei periodi di splendore, esisteva una politica mediterranea intesa come «fatti e fenomeni politici sotto l’influsso delle economie prevalenti» [p. 102].
L’unica via per poter salvare il Mezzogiorno dal degrado è, in conclusione, quella di riuscire a dar vita a una politica nazionale orientata al bacino del Mediterraneo e capace di creare a Sud del Paese «un hinterland che va dall’Africa del nord all’Albania, dalla Spagna all’Asia Minore» aprendo traffici, circolazione di scambi etc. [p. 104]. In questo modo «il mezzogiorno può certo trasformarsi da un regime economico passivo ad un regime attivo, a patto che si superino le barriere poste dal regime doganale, dalla pressione tributaria e dalla legislazione uniforme e livellatrice» [p. 116].
Guardando invece al Partito Comunista Italiano e all’elaborazione gramsciana della questione meridionale, già nel 1923 era chiaro a tutti i comunisti che tra «le forze motrici della rivoluzione italiana vi erano anche i contadini del Mezzogiorno e delle Isole» [p. 141].
È a Gramsci, comunque, che si deve l’analisi più lucida della questione meridionale e l’aver messo al centro della politica dei comunisti italiani il tema del Mezzogiorno. Riportare al centro dei programmi e delle proposte del PCI il movimento contadino al Sud della Penisola, ha come effetto immediato, tra l’altro, la piena adesione di Giuseppe Di Vittorio al PCI e la collaborazione di Guido Miglioli (leader del movimento contadino cattolico) con i dirigenti comunisti.
Per Gramsci – la cui riflessione trae spunto dalle critiche che un gruppo di giovani muove, su «Quarto Stato», al PCI e alla sua proposta politica circa la soluzione dei problemi del Mezzogiorno – è chiaro che la borghesia settentrionale è la causa dell’arretramento del Sud e delle isole, sottoposte a un regime di vero e proprio sfruttamento coloniale. È ovvio che la soluzione può venir fuori soltanto da un’alleanza politica tra gli operai del Nord e i contadini del Sud per rovesciare la borghesia dal potere di Stato. In tal senso, la «spartizione meccanica» dei latifondi – che diventerà il tema capitale delle lotte contadine negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra – viene vista criticamente da Gramsci che la considera – da sola – una soluzione effimera. Del resto cosa avrebbe potuto mai fare un contadino, dopo aver occupato una terra incolta o mal coltivata? Senza risorse o macchinari ben poco, eccetto che finire nelle mani di qualche usuraio.
In verità Gramsci inquadra il tema della terra e dei contadini in una cornice ben più ampia: quella cioè della rivoluzione di cui devono farsi promotrici le due classi alleate dei contadini e degli operai, sotto la guida del proletariato industriale [p. 164].
Ma – e qui sta l’intuizione di Gramsci – per far ciò è necessaria innanzitutto una rivoluzione culturale. Il proletariato, infatti, è impregnato della tradizione borghese che si respira dappertutto e – qui coincidendo con l’analisi sturziana – ormai è divenuto luogo comune ben diffuso che il Mezzogiorno sia la palla al piede della penisola e che i meridionali, inferiori per natura, blocchino con il loro lassismo lo sviluppo del Paese.
Secondo la tradizione borghese, diffusasi ormai ampiamente anche presso le classi proletarie, se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è, dunque, del capitalismo o della stessa borghesia ma dei meridionali che sono per natura «barbari», «incapaci» e «criminali» [p. 166].
Gramsci aggiunge, poi, che il Mezzogiorno presenta una grande disgregazione sociale in cui sono presenti tre strati sociali: «la massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali» [p. 182]. Il contadino meridionale è legato al grande proprietario terriero mediante proprio la figura dell’intellettuale. Questa – sebbene Gramsci riconosca che quando si parla di Mezzogiorno non si possa fare un’analisi complessiva e indistinta poiché il Mezzogiorno continentale è profondamente diverso rispetto a quello delle isole – sarebbe però una caratteristica comune all’intero meridione. In sostanza il riferimento è al cosiddetto “blocco agrario” che fa da intermediario e sorvegliante al capitalismo settentrionale e alle grandi banche. Questo ha il compito preciso di mantenere lo statu quo. E chi sono i responsabili di tale immobilismo se non gli intellettuali meridionali che, a detta di Gramsci, hanno avuto il compito di arginare eventuali frane del blocco agrario? Tra questi intellettuali vengono annoverati persino Croce e Fortunato. Il loro settarismo vieta ai meridionali (o intellettuali medi) che cercano di uscire dal blocco agrario, di potersi esprimere sulle riviste principali.
Gramsci, d’altra parte, non nega l’influenza che Croce e Fortunato ebbero su l’Ordine Nuovo e sui comunisti Torinesi, pur rivendicando, però, la rottura completa con quella impostazione a cominciare dal nuovo ruolo che il proletariato deve assumere in qualità di «protagonista moderno della storia italiana e quindi della quistione meridionale» [p. 192].
È ovvio, dunque, che per spezzare il blocco agrario è necessario che il proletariato riesca a disgregare quel blocco intellettuale che ne resta «l’armatura flessibile ma resistentissima» [p. 196].
È attraverso questa disgregazione che è possibile unire il proletariato e i contadini in un’ottica nazionale della soluzione della questione meridionale.
Il testo che parte da una intuizione brillante – il confronto tra due grandi politici e pensatori degli inizi del Novecento, a partire soprattutto dalle loro diverse ideologie – è un valido strumento di consultazione per gli studiosi del Mezzogiorno. I testi di Sturzo e Gramsci sono preceduti da due introduzioni – rispettivamente di Giampaolo D’Andrea [pp. 57-75] e di Francesco Giasi [pp. 139-159] e dalle riflessioni di Giuseppe Vacca [pp. 9-32] e Francesco Malgeri [pp. 33-53].

Alessandra Mangano