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sabato 5 ottobre 2013

Operazione Husky

Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino, Operazione Husky. Guerra psicologica e intelligence nei documenti segreti inglesi americani sullo sbarco in Sicilia, Roma, Castelvecchi, 2013, 273 pp., (RX, 59), ISBN 9788876159695.

Operazione Husky è una raccolta di documenti prodotti dagli apparati di intelligence statunitensi e britannici, che riguardano lo sbarco alleato in Sicilia nel 1943.
Giuseppe Casarrubea, storico, e Mario José Cereghino, giornalista, pubblicano sessanta documenti conservati negli archivi di Kew Gardens (in Inghilterra) e College Park (negli Stati Uniti). I documenti riferiscono il lavoro dei servizi segreti alleati dal 1940 all'autunno del 1943, per preparare lo sbarco in Sicilia (la cosiddetta "Operazione Husky"), infiltrando agenti segreti (spesso italo-americani) nel territorio siciliano e dell'Italia meridionale, stabilendo contatti amichevoli e rassicuranti con la popolazione locale e le personalità influenti e utili alla causa alleata (antifascisti, mafiosi, clero, nobili, etc.).
Le carte esaminate e pubblicate possono essere consultate, in copia cartacea e digitale, anche presso l'Archivio Casarrubea di Partinico, in Provincia di Palermo, http://casarrubea.wordpress.com/archivio/ (last access: 26/09/2013).
I dossier britannici e americani contengono valutazioni sulla popolazione siciliana (usi, costumi, indole, ma anche fedeltà al regime fascista, adesione alla guerra, grado di malcontento, etc.), informazioni e pareri su personalità ed esuli siciliani negli Stati Uniti (come Vanni Buscemi Montana e Max Corvo, ad esempio), rapporti degli agenti segreti, manuali di comportamento per le truppe che occuperanno l'isola e veri e propri piani di attuazione dello sbarco.
Il libro si divide in due parti: Una guerra segreta [pp. 5-93] e Documenti 1940-1943 [pp. 99-257].
La prima parte è una ricostruzione della vicenda dell'ideazione, della programmazione e della realizzazione dello sbarco in Sicilia, attraverso un'opera di taglio e cucito tra i vari documenti, che sono poi riportati nella seconda parte.
Il libro, nonostante si presenti come un'opera di «storia – quella vera» [p. 93] – è, tuttavia, privo di riferimenti bibliografici e di un degno apparato di note che non si limiti a citare i documenti pubblicati nel volume.
La mancanza di una bibliografia e la presunzione di ergersi contro gli «improbabili alfieri della storiografia accademica» [p. 93], fanno sì che non vi sia nel libro una vera e propria contestualizzazione ed esegesi delle fonti consultate. Inoltre, una buona bibliografia sull'argomento Sicilia-Fascismo-Mafia-Seconda Guerra Mondiale avrebbe, di certo, aiutato gli autori di Operazione Husky nell'avvalorare conclusioni e intuizioni, che essi rivendicano, ma che sono già state avanzate e confermate storicamente con le fonti, proprio da quegli «accademici da salotto», almeno dieci anni prima dalla pubblicazione di questo libro. Ad esempio, sulla commistione tra Fascismo e Mafia in Sicilia – che gli autori dichiarano di aver smascherato attraverso le carte – hanno già scritto, solo per citarne alcuni, S. Lupo in Il Fascismo. La politica in un regime totalitario (Roma, Donzelli, 2005); M. Di Figlia in Alfredo Cucco: storia di un federale (Palermo, Associazione Mediterranea, 2007); G. C. Marino, Le generazioni italiane dall’Unità alla Repubblica (Milano, Bompiani, 2006).
Inoltre, nonostante l'importanza dei documenti editi, l'arroganza del general reader, che pretende di scoperchiare e mettere a nudo le "verità", inficia non poco il valore storiografico dell'opera. Infatti, sarebbe stato opportuno – giacché gli autori riferiscono di conoscere gli archivi e di «affidarsi con umiltà all'antica e sana metodologia del dubbio» [p. 93] – indicare quali sono stati i criteri di selezione dei documenti, in che lingua sono redatti, chi li ha tradotti, quali documenti non sono stati trascritti e quali non sono stati scelti e per quali motivi, cosa è stato omesso dietro gli "[...]", qual è la consistenza dei fondi archivistici consultati, il perché della scelta di questi archivi piuttosto che di altri.
Per le perplessità elencate sopra, ritengo Operazione Husky, un'opera deludente dal punto di vista storiografico, poiché scritta forse con la presunzione di arrivare al grande pubblico senza dare validi strumenti di interpretazione e lettura, sebbene si riconosca agli autori il merito di aver lavorato su una parte di documenti fondamentali per la comprensione della storia italiana e siciliana.


Piero Canale



Gli scarafaggi non hanno re

Daniel Evan Weiss, Gli scarafaggi non hanno re, traduzione di Bruno Amato, Milano, Feltrinelli, 2010, 242 pp., ISBN 978-88-07-81607-9.

Probabilmente, se non fosse stato per il consiglio di un amico, questo libro non lo avrei mai letto. Sì. E pensare che nel corridoio di casa mia, dove sono posizionati buona parte dei libri di mia madre, ci sarò passato davanti milioni di volte. Mi sarei perso un capolavoro.
Questo libro racconta la storia della tranquilla vita di una banda di scarafaggi, che viene sconvolta dall’arrivo della fidanzata del proprietario dell’abitazione, ossessionata dalla pulizia. A questo punto iniziano le mille peripezie dei poveri insetti per sfuggire alla quasi certa estinzione.  Si viene a ribaltare, quindi, ogni schema tradizionalmente e convenzionalmente fissato: quelle bestioline, facili prede del nostro orrore, diventano gli eroi, mentre gli esseri umani si trasformano in carnefici irrazionali. Tutto ha ovviamente lo scopo di simpatizzare – “blattofobici” compresi – con degli esseri che, per nostra natura, detestiamo.
Peccato che nessun blattofobico prenderebbe mai in mano un libro sulla vita di uno scarafaggio.  
L’autore vuole mettere in evidenza, a tutti i costi, la crudeltà degli uomini e, di conseguenza, la scrittura si adatta subito a questo punto di vista: una scrittura rapida, sprezzante, incisiva e cruda. Spesso sembra quasi che l'autore stesso inserisca punte di insensato razzismo e, per tale ragione, il libro diventa a tratti frustrante. Lo scrittore tratteggia lo scarafaggio protagonista, Numeri, in maniera magistrale, riuscendo ad ottenere una perfetta mimesi del modo in cui questi insetti pensano e sentono il mondo circostante. Il racconto è insieme divertente e inquietante e, probabilmente, la prossima volta che sentirete l’istinto di schiacciare qualche insetto a casa vostra ci penserete due volte…

Vincenzo Bagnera




Più lontano ancora

Jonathan Franzen, Più lontano ancora, Einaudi, Torino, 2012, 300 pp., ISBN 978-88-06-21324-4.

Un viaggio lontano, più lontano ancora, alla riscoperta di sé. Il bisogno/desiderio di allontanarsi da un mondo sempre più rumoroso, assordante e invadente. Facebook, Twitter, l’assalto alle vite altrui, voci gridate dentro ai telefonini, esibizione dei sentimenti. Si può scappare portando con sé pochissimi oggetti, indispensabili alla sopravvivenza, e le ceneri del grande David Foster Wallace scrittore di straordinario talento ma, prima di tutto, amico. E lì, su un’isola del Pacifico meridionale, a ottocento chilometri dalla costa del Cile centrale, cominciare un’avventura piuttosto insolita che ha come obiettivo quello di combattere la noia quotidiana e di provare a capire le ragioni della vita, dei propri fallimenti, della morte e del suicidio, ma anche ripercorrere le tappe dei primi romanzi e analizzare il contesto nel quale sono stati prodotti. Le correzioni, ad esempio, nasce da un momento di estrema confusione tanto nella scrittura, quanto nella vita privata di Franzen. Affinché il romanzo possa vedere la luce, è necessario che lo scrittore diventi un’altra persona e che si liberi dalla depressione, dalla vergogna e dai sensi di colpa.
Nascono così le 21 riflessioni di Franzen. Un libro insolito, eterogeneo, versatile che ci riguarda tutti perché non è a noi che parla, ma di noi, del nostro stare nel tortuoso e complesso mondo contemporaneo; della natura e del rispetto delle altre specie; dell’amicizia e della sconfitta, della fine dei sentimenti; ma anche dei libri – dai racconti di Alice Munro, alle pagine di Christina Stead, Donald Antrim, Frank Wedekind, Dostoevskij – di cui Franzen ci regala delle straordinarie recensioni.
Più lontano ancora è anche un libro sulla scrittura, o meglio, su come essere scrittori oggi, ai tempi dei sentimenti on-line. Scrivere significa essere e divenire [p. 116]: essere leali con se stessi e divenire sinceri. Questa fuga, che Franzen inizia dopo la tragica morte del suo grande amico Wallace, spinge lo scrittore ad affrontare, finalmente, sentimenti che fino a quel momento aveva preferito tenere chiusi dentro un cassetto. E, in fondo, cos’è scrivere se non questo tirare fuori la parte più nascosta di noi stessi? Veicolare pensieri e sentimenti? Ritornare all’amore reale? Perché – e questo è il sottile fil rouge che unisce le 21 riflessioni del testo – il mondo di Facebook ha sostituito all’amore reale il concetto più vile e narcisistico del piacere. La maggior parte delle persone, oggi, è instancabilmente dedita a un disperato desiderio di piacere, anche a costo di sacrificare la propria integrità. [p. 7] Così, mentre siamo indaffarati a recitare il nostro film, finiamo per perdere di vista quella vita vera in cui è impossibile piacere sempre. Perché nella vita vera siamo sicuramente meno appariscenti dell’ultima foto sul profilo e, forse, un po’ meno brillanti del nostro ultimo stato sulla bacheca ma, proprio per questo, molto più veri e autentici. Il problema è che spesso è proprio questa autenticità a paralizzarci e spaventarci perché «il vero io di un individuo non potrà mai piacer[e] da cima a fondo»[p. 8]. Dunque, l’amore spaventa la tecnologia perché ha il potere di smascherare la menzogna.
Scrivere in questo contesto diventa, quindi, un esercizio estremamente difficile e a volte perfino opprimente: sostituire alla pagina web del nostro social network preferito un foglio bianco, significa, infatti, accettare di passare dall’altra parte della barricata: abbandonare il sentiero dell’apparenza per entrare in quello più complesso e articolato del confronto con noi stessi e con la nostra mediocrità, col nostro non detto, col vissuto che porta con sé gli innumerevoli errori, le paure, le frustrazioni, le ansie. Mettersi a nudo può essere catastrofico, oppure, al contrario, può generare capolavori. Le opere d’arte nascono quando l’uomo smette di apparire forte e inizia a piegarsi sotto la mole violentemente feroce della paura della vita e del timore della morte; quando, cioè, ritorniamo ad essere umani.
Con questo libro, Franzen ci regala il suo ennesimo capolavoro. Riflettendo sul mondo e sulle sue cose, ci restituisce la genuinità della vita e dei sentimenti. Ognuno di noi avrebbe bisogno di trascorrere un po’ di tempo su quell’isola sperduta del Pacifico. Ma se non riuscissimo a farlo, almeno una volta nella vita, questo libro è qui per ricordarci che non occorre scappare dal rumore per ritrovare silenzio ed equilibrio. Basta soltanto smettere di aver paura di essere noi stessi.


Alessandra Mangano




Le due zittelle

Tommaso Landolfi, Le due zittelle, a cura di Idolina Ladolfi, Milano, Adelphi, 1992, 114 pp. (Piccola Biblioteca Adelphi, 292), ISBN 978-88-4590-922-1.

Le due zittelle è un racconto di Tommaso Landolfi – scrittore italiano nato a Pico, in provincia di Frosinone, nel 1908 – comparso per la prima volta ad episodi tra le pagine del quindicinale «Il Mondo», rivista fiorentina edita per i tipi di Vellecchi.
Il testo era suddiviso in sei parti ed ha occupato i numeri dall’11 al 16, a partire dal 1° settembre 1945 fino al 17 novembre dello stesso anno.
Lo scritto mostra uno spaccato di vita vissuta tra le polverose vie di una piccola provincia italiana, dove l’esistenza è scandita dall’osservazione rigida ed intransigente di regole e precetti, da seguire un po’ per inclinazione naturale, un po’ per compiacere il volere altrui, regole che spesso rischiano di diventare catene pericolose, come in questo caso.
Lilla e Nena sono le due pie zittelle, anch’esse grigie, come grigia e monotona è la vita che conducono in casa, in compagnia dell’anziana madre malata, nel perpetuo ricordo del fratello defunto ormai da tempo e presto sostituito – per non dire rimpiazzato – dalla compagnia di Tombo, una vivace scimmia che ne ha preso il posto quanto negli affetti, tanto nelle attenzioni morbose e quotidiane delle tre donne, una sorta di riempitivo palliativo per colmare la mancanza lasciata dal lutto.
La monotonia abitudinaria è la loro serenità quotidiana, fino al giorno in cui non accade un fatto che sconvolge per sempre l’ordine e gli schemi dei giorni uguali ai giorni: la scimmia, né per dispetto, né per malafede, ma tacitamente mossa da quella cosa che, mi si permetta, tutti chiamano semplicemente istinto animale, offende ed intacca la sacra formula rituale che si conviene nelle Chiese, ossia macchia di blasfemia il rito dell’Eucarestia, inscenando balletti e desinando cibi consacrati; azione da giustificare e da riporre nel dimenticatoio quasi contemporaneamente, se il buon senso ci consente di discernere il concetto che chi si è macchiato di tale onta, altro non è che un animale. Ma così non avviene.
La sacrilega viene presto giudicata da un impietoso tribunale, composto di due uomini di fede: il giovane padre Alessio, spinto ad operare ancora secondo teneri impeti di amore nei confronti del prossimo e di Dio, e monsignor Tostini, anziano conservatore ed attento osservante delle regole ecclesiastiche.
Accusato e disprezzato, al reo è riservata la malaugurata sorte che lo conduce a subire il gesto estremo del sacrificio, compiuto per mano di una delle amate sorelle, in cui riponeva affetto e fiducia.
Tra l’angoscia e le lacrime delle sorelle, fratricide e sofferenti, ma rispettose dei precetti morali, si chiude lo scorcio sulla polverosa esistenza delle due zittelle, ormai divenuta piatta nel nome di un empio sacrificio, nella stretta osservazione di umane convenzioni. Un sacrificio invano, poiché al reo non era dovuto conoscere, e meno che mai rispettare, i precetti cui è venuto meno.
Uno spaccato provinciale di fine secolo, definito da Montale, nel risvolto della prima edizione, uno dei «maggiori “incubi” psicologici e morali della moderna letteratura europea».

Agostina Passantino




Fare memoria. Per non dimenticare e per capire

Rita Borsellino, Fare memoria. Per non dimenticare e per capire, a cura di Laura Soletti, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2002, 64 pp., 978-88-7246-548-6.

In questo libro viene proposto l’intervento di Rita Borsellino all’incontro per la legalità, organizzato a Lucca dal Ce.I.S. – Gruppo “giovani e Comunità”, al quale la sorella del magistrato ha partecipato con grande motivazione.
Dopo una breve introduzione di Laura Soletti, dove viene ripercorso il terribile periodo delle stragi del ’92, Rita Borsellino è preceduta da una breve presentazione di Massimo Toschi, docente di Storia e Filosofia presso il Liceo scientifico Vallisneri di Lucca, che conobbe la Borsellino nel 1997, in occasione di un altro incontro tenutosi sempre a Lucca: “In memoria di Giovanni Falcone: la fatica della legalità”.
Rita Borsellino comincia il suo intervento ricordando la sua famiglia, i suoi quattro fratelli e raccontando come la sua vita sia cambiata totalmente da quel 19 luglio 1992. È da quel giorno, infatti, che decide di assumersi la responsabilità di «portare avanti la memoria di Paolo» [p. 9]. Ricorda come quest’ultimo fu il più giovane magistrato d’Italia a soli 24 anni. Ma allora, erano gli anni ’60, di mafia forse non se ne sentiva nemmeno parlare e non perché non ci fosse, ma semplicemente perché ad alcuni faceva comodo così. E anche lo stesso magistrato si “rimprovera” in una lettera che diventerà il suo testamento spirituale per le future generazioni: «sono ottimista, perché so che questi giovani avranno domani una consapevolezza ben diversa dalla colpevole indifferenza che io mantenni fino ai quarant’anni.» [p. 18]. Questo è un passaggio della risposta, scritta proprio la mattina del 19 luglio 1992, a una lettera che gli era stata inviata da una scuola padovana.
      Poi la memoria sulla vita blindata di Paolo perennemente in pericolo e di come questo, insieme con un gruppo straordinario di colleghi – il pool antimafia coordinato da Antonino Caponnetto – sia riuscito a scardinare la micidiale macchina da guerra chiamata Cosa Nostra, con l’aiuto di “pentiti” del calibro di Tommaso Buscetta.
      Infine, il doveroso e bellissimo ricordo dei ragazzi della scorta che hanno avuto il merito di proteggere, fino all’ultimo giorno, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: «sono delle persone che hanno offerto la loro vita perché la nostra democrazia potesse restare tale» [p. 32].


Biagio Bertino

Storia di un corpo



Daniel Pennac, Storia di un corpo, Milano, Feltrinelli, 2012, 352 pp., ISBN 978-88-0701-921-0

Storia di un corpo è – nella recita che Daniel Pennac ha imbastito con la complicità del lettore – il diario non quotidiano che un uomo ha tenuto del proprio corpo e lasciato post mortem alla figlia. Il diario di un corpo e della sua fisicità – «non un diario intimo, figlia mia, sai quante riserve ho sul resoconto dei nostri mutevoli stati d’animo» [p. 9] – ma proprio una registrazione delle sensazioni che il nostro corpo trasmette fisicamente. Inizialmente poco attratto da questo titolo, ho deciso di acquistarlo per una rara (per me) forma di suggestione: entrato in libreria, infatti, ho aperto questo tomo in offerta e, scegliendo a caso una pagina, mi sono trovato di fronte il giorno della mia nascita. Incuriosito, l’ho letto e, sebbene non sia una giornata memorabile per il protagonista, ho scelto di acquistarlo e ora voglio recensirlo e consigliarlo a tutti perché nessuno perda l’occasione di leggere queste pagine solo perché meno fortunato di me nel trovarvi una data simbolica.
Con la trovata del diario di un corpo altrui, Pennac imbastisce un racconto di ciò che più ci accomuna: il nostro crescere, trasformarci e invecchiare (non so che effetto farà a una donna ma per un uomo l’immedesimazione è fortissima, e sarebbe bello se un giorno un’autrice donna, brava come Pennac, volesse scrivere un libro speculare a questo). Vedere cambiare la nostra interfaccia con il mondo, mutare le nostre sensazioni, scoprire i piaceri e le differenze tra sé e gli altri, il dolore fisico di una perdita perché – e questo è per me il grande segreto del libro – la dicotomia tra anima e corpo non esiste! Raccontando una vita tramite le sensazioni corporee – dalle gioie infantili, alla scoperta del sesso, alla malattia e alla vecchiaia – Pennac ci mostra come tutti i nostri sentimenti e le sensazioni risiedano nel nostro fragile contenitore, mettendo a nudo la vacuità della distinzione tra corpo e mente – o corpo e anima se preferite – che vivono insieme in ogni pagina di questo diario, che parla del corpo e, contemporaneamente, illustra i nostri sentimenti, desideri, valori.
Molto altro ci sarebbe da dire e non tacerò la trovata delle note alla figlia, che rende il tempo del racconto più breve e fruibile, risparmiando ai lettori i periodi di stasi della crescita corporea, o l’invenzione di Dodo, perfetto esempio di come il nostro corpo altro non sia che un’estensione della nostra mente che lo percepisce e di come la nostra mente d’altro non si nutra che di ciò che dal nostro corpo le giunge.
Consiglio questo libro a tutti, sia per godere della felice vena creativa di Pennac (un piccolo gruppo di partigiani che sarebbe stato bene nel suo ciclo Malaussene ci consola con un po’ di già visto) sia perché l’esperienza qui raccolta ne fa un classico d’oggi, che sarà, credo, capace di parlare per generazioni agli uomini. Un solo avvertimento, se temete di invecchiare o vi credete invincibili ai mali del corpo non leggete questo libro, o vi scoverete i primi segni del vostro essere “solo” umani.

Bartolo Megna



10 giorni da Beatle



Sergio Algozzino, 10 giorni da Beatle, Latina, Tunuè, 2013, 96 pp., ISBN 978-88-97165-64-4.

«Improvvisamente capii il perché di tutta quella follia: quei quattro ragazzi
 avevano un potere, una sorta di empatia al contrario. Riuscivano a trasmettere
 qualcosa oltre la musica, un sano divertimento che condividevano
tra loro come se fossero un'unica entità» [p. 27]

Parlare di romanzo a fumetti (o graphic novel) è sempre complicato. Primo, perché non è detto che tutti conoscano la differenza con un maxialbo delle grandi parodie Disney; secondo, perché qualcuno pensa alla riduzione "per bambini" di libri "per adulti"; terzo, perché un pennino a china non è un pennello né una penna, e quindi l’opera viene liquidata spesso con "è solo un fumetto". 
Tuttavia c’è anche un pubblico di lettori che in libreria ripone l’Amleto di Gianni De Luca accanto al testo di Shakespeare e Milo Manara accanto a Jorge Amado (si dice che spesso si raccontino storiacce di donne). Io le opere di Sergio Algozzino le custodisco fra le monografie artistiche.  Avere fra le mani Ballata per Fabrizio De Andrè o 10 giorni da Beatle è come leggere la storia delle anime dei due protagonisti, e i cenni biografici sono quasi marginali.
È affascinante vedere la speculare inversione della voce narrante: se Fabrizio è raccontato da una girandola di suoi personaggi, rimanendo il perno muto e invisibile, Jimmie Nicol racconta in prima persona il vortice fantasmagorico che lo travolse nel 1964, quando si trovò per 10 giorni in tour con i Beatles, a sostituire il malato Ringo Star.
L’apice della beatlesmania, un fenomeno di costume che travolse Oriente ed Occidente, è raccontata dall’interno da un protagonista che stenta a credere a ciò che gli succede, e quasi si sente spettatore. Per timidezza infatti Nicol non riuscirà per giorni a guardare negli occhi "i Beatles", entità senza volto che solo con sforzo, infine, "vede" prendendo confidenza. Quando Jimmie torna alla realtà della sua piccola vita, capisce che la grande avventura lo ha cannibalizzato. In lui si alternano rabbia, nostalgia, disperazione, rassegnazione; l’accettazione finale è catartica: meglio esserci stato per poco, che non esserci stato affatto.
Sergio Algozzino varia tratti e campiture, punti di vista e ritmi, in una regia magistrale, che rende quasi superfluo il dialogo: parlano gli occhi, le mani, persino i non-volti. Poi parla tanto anche l’Autore: com’è sua abitudine, in appendice alla storia aggiunge Qualche nota a margine [pp. 91-94], dove commenta i vari episodi, li dettaglia, li spiega. In alcune note lo si sente sorridere, in altre sghignazzare apertamente. Se leggendo traspariva la passione dell’estimatore, ora si scopre lo studio professionale nell’accuratezza delle ricostruzioni, nella documentazione di ogni dettaglio.
Al grande curriculum d’esperienza artistica (disegnatore per la Panini Comics, collaborazioni internazionali, docente alla Scuola del Fumetto di Palermo, art director del magazine Mono, vincitore del Premio Francisco Solano Lòpez ad Etnacomics 2013, etc.) unisce grande passione musicale – è musicista egli stesso – e dunque si capisce perché nel verso di frontespizio compaia fra i ringraziamenti:
«A mio fratello, per avermi fatto ascoltare I Want to Hold your Hand».

Eloisia Tiziana Sparacino

Abbiamo incontrato Sergio Algozzino il pomeriggio della presentazione ufficiale del libro, il 2 Luglio al Nautoscopio di Palermo, parlandogli subito prima che salisse sul palco del concerto/tributo ai Beatles che è proseguito per ore. La videointervista completa la trovate al link: http://youtu.be/Rm6qrPm400M