Visualizzazioni totali

mercoledì 20 marzo 2013

Il Ghota di Cosa nostra



Piergiorgio Morosini, Il Ghota di Cosa nostra. La mafia del dopo Provenzano nello scacchiere internazionale del crimine, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, 203 pp., ISBN 978-88-498-2373-8


Può una sentenza diventare un’accurata analisi del mondo di Cosa nostra, della sua struttura, dell’organizzazione interna e perfino della sua storia? Questa domanda non è né nuova né insolita:  quando l’autorevole storico Carlo Ginsburg decise di “rivedere” le carte del processo Sofri – nel suo saggio Considerazioni in margine al processo Sofri – si aprì un dibattito molto acceso e interessante sulla “sovrapposizione” tra la figura del giudice e quella dello storico. Tale sovrapposizione produrrebbe inevitabilmente – a dire di alcuni –  la menomazione di entrambe le funzioni. Non ci sembra questo il caso. Anzi, lo stralcio della sentenza di primo grado emessa dal giudice Piergiorgio Morosini il 21 gennaio del 2008, nel procedimento penale a carico di Adamo Andrea, mette in luce, in modo chiaro e autorevole, i rapporti di Cosa nostra con la società; le complicità e le coperture degli ambienti politici, economici e sociali. Sorge immediatamente spontaneo, leggendola, l’accostamento tra il giudice e lo storico; basta andare a rivedere quanto lo studioso Francesco Renda ha sottolineato, in diverse occasioni, nei suoi scritti sulla mafia e cioè che Cosa nostra affonda le sue radici nella società, stabilisce con essa solidi e duraturi rapporti, cerca complici con vari ceti sociali, con la politica, con le pubbliche istituzioni e perfino con la Chiesa. La mafia non solo si nutre di questi rapporti, ma sono tali rapporti a darle perfino un’identità forte[1]. La sentenza, dunque, non fa che confermare con nettezza le analisi storiche e il testo del giudice Morosini ci dimostra come sia assolutamente naturale che, a volte, un giudice possa anche – seppur involontariamente – divenire storico.
      Tra quelle carte possiamo osservare il delinearsi di un percorso in cui due mafie agiscono in parallelo: quella arcaica del boss Provenzano e quella borghese delle nuove generazioni (p. IX). I due piani non solo si intersecano ma mostrano il modo in cui l’una finisce per diventare imprescindibile per l’altra.
L’operazione Ghota, da cui il libro prende il titolo, porta innanzitutto a smascherare l’intero sistema di appoggio e di protezione di cui godeva Provenzano prima dell’arresto. I pizzini ritrovati nel suo covo, infatti, spalancheranno le porte del carcere anche a professionisti insospettabili e naturalmente a politici di spicco.
Il momento dell’arresto di Provenzano è delicato: il vecchio boss è ormai stanco e braccato; continua ad essere oggetto di rispetto ma non più incondizionato; nell’ambiente di Cosa nostra, tutti sentono avvicinarsi ormai il momento dell’abdicazione. É questa la fase in cui la storia della mafia cambia: è necessario che l’organizzazione criminale ritorni sullo scacchiere internazionale, dopo gli anni di Riina e dei corleonesi. Ne è ben consapevole Lo Piccolo che su questa “internazionalizzazione” punta tutto, perfino la sua candidatura alla leadership di Cosa nostra, finendo inevitabilmente per scontrarsi con l’ala corleonese capeggiata da Anotonino Rotolo, capo mandamento di Pagliarelli. Agli arresti domiciliari – dopo aver congegnato metodiche dalle più artigianali alle più raffinate per sfuggire sia ai controlli delle forze dell’ordine sia ai suoi potenziali nemici – Rotolo continua a comandare e disporre, non sapendo di essere, invece, intercettato.
Binnu è una figura complessa e al tempo stesso cruciale nella svolta che si determinerà all’indomani del suo arresto; di lui Morosini ci dice che sembra un personaggio uscito dal Tractatus politicus di Spinoza: uno che, insomma, riesce a sottomettere offrendo paura ma anche ricchezze, un vero maestro nella strategia del bastone e della carota. Sottomissione in cambio di vantaggi e benefici, è questo il suo metodo.  Non a caso è a lui che si deve la creazione, all’interno di Cosa nostra, di un vero e proprio welfare secondo il quale i mandamenti più ricchi, avevano l’obbigo di redistribuire i profitti a quelli più poveri, evitando così faide legate agli affari.
Eppure il vecchio e onorato boss, a un certo punto, non riesce più a tenere a bada le rivalità interne alla sua organizzazione che – proprio alla vigilia del suo arresto – è sempre più vicina alla resa dei conti con una nuova guerra di mafia che sembra ormai tanto imminente quanto inevitabile. Rotolo è furioso perché è contrario al rientro degli Inzerillo in Italia. Lo Piccolo ne è consapevole: ricorda perfettamente il veto che Totò Riina pose su di loro e sa – da “uomo d’onore” – che i patti, dentro Cosa nostra, non si violano. Ma la consapevolezza non basta, gli Inzerillo servono a svecchiare Cosa nostra, a farla rientrare nel circuito dello spaccio internazionale di droga.  Uno dei temi principali del processo Ghota è proprio il ruolo che Cosa nostra esercita nella rotta Palermo-New York della droga: chiave di lettura fondamentale non solo per studiare il passato della mafia ma anche per capirne le future scelte. 
La droga produce profitti altissimi, conferisce potere, ma garantisce anche dominio ed espansione. In tal senso, riallacciare i rapporti con gli Inzerillo è essenziale per la famiglia Lo Piccolo. Rotolo dal canto suo è spaventato da questo ritorno perché sa bene che «per il sangue di un proprio congiunto non esiste il perdono nel codice di Cosa Nostra» (p.44). Proprio lui è stato protagonista diretto delle stragi con cui Riina, agli inizi degli anni ottanta, ha eliminato scientificamente numerosi membri di quella famiglia, proprio in relazione al controllo delle rotte che portavano la droga in America.
E come si comporta il boss di Pagliarelli dinnanzi a tale eventualità? Parla con Provenzano e in un pizzino gli scrive che non è ammissibile un rientro degli “esiliati” a Palermo. Il vecchio boss temporeggia per poi decretare, alla fine, che forse almeno in occasione della Pasqua, si potrebbe loro concedere una visita. Sembra che il “fantasma” non voglia prendere una posizione chiara e Rotolo, incassato il colpo, decide di fare a modo suo: inizia pertanto a progettare l’omicidio dei Lo Piccolo, padre e figlio. La presenza di Provenzano diventa dunque, sempre più lontana, sempre più sbiadita, quasi spettrale.
Alla fine la guerra si sfiora ma non si concretizza solo perché l’operazione Gotha porterà all’arresto di Provenzano. Mentre l’anno successivo saranno i Lo Piccolo a cadere nella rete degli inquirenti.
Al di là delle logiche interne ai clan, delle faide per la successione e delle guerre intestine, quello che rende interessante la sentenza – che non a caso diventa un libro accessibile anche ai non esperti del settore – è il modo in cui viene raccontata Cosa nostra dagli stessi appartenenti all’organizzazione criminale. Se prendiamo ad esempio le intercettazioni ambientali a casa di Rotolo o qualche “pizzino” ritrovato nel covo di Provenzano, da quelle conversazioni viene fuori una «Cosa nostra dal “vivo”, nel suo modo di essere e di pensare, con tutte le sue ambiguità, le sue contraddizioni e in tutta la sua terribile ingenuità» (p.19); non solo: emerge in modo drammatico quanto la mafia sia garantita da legami di acciaio che coinvolgono tanto la gente comune quanto le alte sfere non solo della politica – in modo trasversale ai partiti – ma anche del mondo delle imprese e della sanità. Le famiglie mafiose sono eterogenee e numerose. Al loro interno non mancano professionisti – dai medici, Antonino Cinà e Guttadauro, agli avvocati – e infiltrati nel mondo politico. Non è un mistero ormai che il salotto di Guttadauro era frequentato, durante gli arresti domiciliari, da numerosi esponenti del mondo politico e della borghesia cittadina.
È questo il modo in cui le due mafie – quella tradizionale e quella nuova – provano a convivere: dopo la stagione stragista di Riina inizia una nuova era in cui Cosa nostra mostra di avere come obiettivo primario l’accumulazione della ricchezza, l’impresa. Guttadauro e Cinà sono il volto della mafia che si innova e che vuole sostituirsi a quella dei vecchi boss «sanguinari e analfabeti» (p. 165); nessuno spargimento di sangue ma la costruzione di una nuova classe dirigente mafiosa che mira a fare affari insieme con e attraverso la politica. Certamente questa commistione esisteva anche ai tempi di Riina ma, in quel periodo storico, la mafia pretendeva la gestione diretta e centralizzata del sistema degli appalti. Già con Provenzano cambia tutto: si preferisce lasciare questo compito alle imprese di riferimento e quindi la presenza di Cosa nostra – seppur sempre forte e incisiva – appare molto più discreta. Meglio trattare con le istituzioni e magari anche «infiltrare mafiosi nella rete dei collaboratori di giustizia per depistare indagini e smontare sentenze già definitive» (p. 70).

Cosa nostra per divenire impresa ha dunque bisogno di relazioni e appoggi, del resto «non esiste mafia senza rapporti con la società, con la politica, con l’economia» (p. 138).
La sentenza del Giudice Morosini è del 2008. Oggi i rapporti tra la criminalità organizzata e la politica non solo continuano ad essere intensi ma hanno addirittura subito un mutamento antropologico: basti andare a riascoltare le intercettazioni telefoniche del camorrista che si dice soddisfatto di aver fatto piangere il deputato. La politica, dunque, non solo è complice ma appare persino totalmente sottomessa alla criminalità organizzata. Del resto, in molti casi, il bacino di consensi viene fuori proprio dalle decisioni interne alle organizzazioni criminali e – come è sempre stato – il favore ha un prezzo da pagare, spesso molto alto. Restano forti anche i legami con il mondo delle imprese, soprattutto quelle del Nord, e ciò crea uno scenario da brivido in cui le due categorie geografiche smettono di esistere come opposti, sovrapponendosi in un pericoloso intreccio di interessi, scambi, vantaggi reciproci che hanno dei costi altissimi che finiscono per gravare sulle spalle di tutti i cittadini onesti. Va detto però, che negli ultimi anni, anche gli imprenditori –soprattutto quelli di ultima generazione – hanno mostrato di voler mandare in black-out la spirale perversa del circuito delle estorsioni decidendo, finalmente, di denunciare e di opporsi, così facendo, al giogo del pagamento di questo odioso balzello.
Quale sarà il futuro di Cosa nostra non sappiamo. Molto ancora andrebbe fatto sul piano culturale – spesso trascurato – e non puntare soltanto tutto sulla sfera repressiva. Molto sicuramente potrà incidere anche l’esito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia, aiutandoci a svelare i misteri più profondi di una delle stagioni più tragiche della storia del nostro paese. Quello che è certo – e che questa sentenza spiega in modo chiaro e preciso – è che la mafia non ha futuro senza relazioni parallele col mondo politico ed economico.
Si dice che per trovare un antidoto ai mali è necessario prima conoscerne le cause. Le seconde le abbiamo da anni, attendiamo ancora di trovare finalmente il primo.

Alessandra Mangano


http://angelaallegria.files.wordpress.com/2009/12/scansione0003.jpg









[1] Cfr. F. Renda, Storia della Mafia, Sigma Edizioni, 1997, Palermo.

Nessun commento:

Posta un commento