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mercoledì 12 marzo 2014

Lettera aperta al sindaco di Roma Ignazio Marino

Palermo, 11 marzo 2014


Carissimo Sindaco Marino,
ho letto con ammirazione e piacere quanto da lei proposto stamane in merito alla sottrazione dei senzatetto dalla strada.
In effetti è verissimo quanto lei dice quando lamenta che per questa povera gente disperata "serve anche un'occupazione per impegnare il proprio tempo".
Quale migliore occupazione, di fatto, se non quella dell'inserimento lavorativo all'interno del circuito bibliotecario e, nella fattispecie, all'interno della Biblioteca Comunale di Roma.
Di certo sapranno organizzarla con metodo e con i giusti criteri della scienza biblioteconomica.
Adesso mi balena una splendida idea.
Credo che abbandonerò il mio precario lavoro da bibliotecaria di quartiere, che tanto ho sudato, dopo il conseguimento di una laurea in lettere classiche, molteplici specializzazioni nel settore biblioteconomico e master universitari, per venire nella nostra bella Capitale a fare la vagabonda; scelta che consiglierò vivamente anche ai miei colleghi più o meno giovani, i quali credono ancora che un lavoro in biblioteca si possa conseguire grazie allo studio e alla passione, quando invece pare che basti semplicemente essere dei bohémien – non mi si accusi di razzismo nei confronti di chi sta peggio, lungi da me, le mie sono solo vane parole in libertà – per aggiudicarsi un’assunzione nel circuito delle biblioteche, senza sottoporsi ad alcuna prassi concorsuale.
Lei ha ragione quando lamenta che "ogni anno per i pensionamenti perdiamo il 10-15% del personale" nelle biblioteche, ma sa meglio di me che si tratta del decorso naturale di ogni cosa non solo in campo lavorativo – l’essere ciclicamente rinnovati, e noi giovani specializzati continuiamo a pensare che grazie alla nostra conoscenza e professionalità, potremo un giorno godere di quanto seminato con fatica e speranza, per raccogliere i frutti di un lavoro in un ambito pertinente ai nostri studi. È a noi, pertanto, che andrebbero riservati questi posti vacanti.
Mi rivolgo anche a lei, Rita Cutini, assessore capitolino alle Politiche sociali, perché di certo c'è  "bisogno di persone da impiegare in diversi ruoli" per toglierli dalla strada, ed è un’emergenza grave che tocca l’interno Paese.
Io non voglio qui fare la paternale o avere la presunzione di fare proposte al posto vostro, che meritevolmente ricoprite alte cariche, voglio piuttosto mettervi a conoscenza del fatto che io – come del resto molti altri ragazzi e ragazze della mia generazione e dotati della medesima specializzazione sarei anche disposta a ricoprire posizioni inferiori, come possono essere l'usciere o l'assistente di sala di biblioteche o archivi, piuttosto che essere costretta a cercare lavori avulsi dal nostro settore, altrettanto dignitosi ma che vanificano interamente i nostri studi e le nostre speranze, costringendoci ad impieghi quando abbiamo la fortuna di trovarli – di volantinaggio, di consegna-pizza a domicilio, o di aberranti call-center.
C’è anche da chiedersi cosa si intende per i “diversi ruoli” che si andrebbero a ricoprire perché, nel beneficio del dubbio, non è detto che io non stia travisando il tutto, ipotizzando mansioni e competenze non meglio specificate nelle vostre intenzioni. Desidero solamente capire meglio.
Per concludere, non voglio con questa mia lettera criticarvi, anzi ammiro quanto state facendo per i senzatetto uomini e donne che meritano alloggio e dignità offrendo loro un’alternativa reale alla miseria anche attraverso il riscatto offerto dal lavoro; vi dico soltanto che se il problema di Roma è rappresentato dai posti vacanti lasciati nella rete delle Biblioteche da chi va in pensione, io due-trecento persone specializzate da segnalarvi che possano ricoprire diversi ruoli, posso fornirveli.

Una bibliotecaria


mercoledì 5 marzo 2014

Cronaca Dannata. Intervista a Marco Pomar (a cura di Nino Fricano)

Marco Pomar, Cronaca Dannata. Diario semiserio di due anni vissuti pericolosamente, Palermo, Leima, 2013, 192 pp., ISBN 978-88-98395-06-4.

Garry Kasparov, campione di scacchi, bloccato e malmenato dalla polizia russa. È stato difeso dai pedoni (settembre 2012).
Inventata una crema per tornare vergini. Va a ruba tra le sette sataniche (settembre 2012).
La Sicilia abolisce le province. Da domani sarà divisa ufficialmente in mandamenti (marzo 2013).
Papa Francesco predica bene ma Ratzinger male (luglio 2013).
Bobby Solo all'ospedale. Ennesimo caso di malasanità (ottobre 2013).
Multata in via Montenapoleone la 500 di Lapo. Era andato a passeggiare Elkann (ottobre 2013).

Pubblicato da Leima Edizioni, Cronaca Dannata è un diario satirico dell'autore palermitano Marco Pomar. Quasi 200 pagine a colori nelle quali alle freddure e ai brani satirici di Pomar – tutti di ottimo livello, tra la risata amara, l'irriverenza cinica e il nonsense giocoso – si affiancano le vignette di Dario Corallo e i fotomontaggi di Mimmo Calabrò. Un'operazione intelligente che fornisce una narrazione “diversa” del panorama politico nostrano dal 2011 a oggi. Tanti piccoli pezzi per un puzzle che, nel complesso, risulta originale e divertente, oltre a fornire notevoli spunti di riflessione. L’Associazione LIBRidO ha intervistato l'autore.

Scrivi racconti – a volte anche “seri” – e scrivi satira. Cosa ti riesce più facile? Quali sono gli approcci al “momento creativo”? Che importanza hanno, nella tua vita, le due formule?

Sono due cose, ovviamente, molto diverse. Il racconto breve è una storia con un inizio e una fine; può essere comico, ironico, sarcastico, amaro, commovente, o avere dentro tutto questo e anche altro. La battuta satirica è una revolverata, rapida e secca. Mi piacciono entrambe, mi è difficile scegliere. Direi che anche nei miei racconti più “seri” si trova sempre una nota di dissacrazione. Odio chi si prende troppo sul serio, nella vita e nella scrittura. Nella mia vita di scrittore sono due momenti ugualmente importanti, dal momento che i social ti costringono alla sintesi.

Da quanto tempo scrivi racconti? E satira? Qual è stato il tuo percorso?

Scrivo da tanto, con continuità da più di 15 anni. La scrittura è un bimbo che cresce solo se alimentato a dovere, diventa adolescente e poi, non sempre, adulto. Scrivere aiuta a scrivere meglio. E avere una risposta dai lettori, un feedback, è importantissimo per riuscire a migliorarsi, a capire cosa funziona di più e cosa meno. Scrivo satira dallo stesso tempo, anche se con gli anni mi è stato più chiaro che quella era la mia cifra stilistica migliore.

Le freddure raccolte in Cronaca Dannata denotano una grande capacità tecnica. Riesci a trovare il gioco di parole giusto per ogni occasione. È una capacità maturata nel tempo e in qualche modo “elaborata” – (ci hai, in qualche modo, studiato su) – oppure ti è sempre venuto così, naturale?

Si parte da una caratteristica, una vena satirica che hai o non hai. Poi tutto ciò va alimentato e, come in ogni cosa, bisogna lavorarci su. La scrittura, come si pensa erroneamente troppo spesso, non è soltanto ispirazione e talento, ma anche tecnica e applicazione.

Cosa ne pensi del bombardamento di satira a cui assistiamo (soprattutto) con Facebook? Mi spiego con un esempio personale: il sito Spinoza.it, quando è nato, mi sembrava una bomba di creatività, qualcosa di veramente nuovo. Adesso però la sua formula viene ripetuta e rilanciata da tutte le parti, tanto insistentemente e ossessivamente che a me sembra che qualcosa si sia perso per strada. E se prima scherzare su tutto, in quel modo cinico e dissacrante, mi sembrava qualcosa di coraggioso e creativo, adesso avverto generalmente come un sottofondo di livore, impotenza e aridità. Ma forse sono soltanto mie impressioni.

Non hai torto. I social network consentono a tutti di dire tutto. Il che è un bene in generale, ma contiene in sé il rischio dell’equiparazione totale, a detrimento della qualità. Sostengo che è difficile riconoscere un diamante se gettato insieme ad un mucchio di pezzi di vetro. Per quanto riguarda il confine tra cinismo dissacrante e livore fine a sé stesso, il confine è sottile ma c’è. È quello del buon gusto.

E cosa mi dici della satira pre-tutto (prima dei social, prima di internet)? Tipo il leggendario Cuore (che conosco per sentito dire) o giornali e allegati di quel tipo?

Io sono cresciuto leggendo prima Il Male, poi Tango e Cuore. Il primo era volutamente sopra le righe, e mischiava trovate geniali ad altre forse troppo forti, con la ricerca dello scandalo a tutti i costi. Tango e Cuore erano il top della satira in Italia, anche per quello di cui dicevamo prima, la mancanza di altri palcoscenici dove esibirsi. Conservo ancora tutti i numeri di Tango in originale. Satira politica e comicità pura insieme.

E in Sicilia? Quali sono le tue ispirazioni? Quali persone hai conosciuto che ti hanno fatto crescere e arricchire culturalmente?

I miei maestri di umorismo sono tutti a caratura nazionale. Da Achille Campanile fino a Stefano Benni e Michele Serra. Per quanto riguarda la scrittura in generale, trovo utilissimo il confronto con altri scrittori de visu, persone con le quali condividere i propri testi, affinando e migliorando il proprio stile. In questo la mia maestra è stata Beatrice Monroy, insieme a tanti altri bravi scrittori usciti dai suoi laboratori.

Una domanda sui "live", i reading che fai in giro per librerie, locali e iniziative simili. Come giudichi questo tipo di formula? Quale utilità e quale importanza?

Li considero una palestra eccellente. Per quanto riguarda la narrativa, la letteratura in generale, non è detto che un buon testo sia altrettanto funzionante se ascoltato e non letto. Nemmeno se a farlo è un grande attore. Aggiunge e modifica sempre qualcosa, e la fruizione cambia completamente. Il libro va letto, insomma, non ascoltato. Diversa è la cosa per brevi testi satirici, che invece ben si prestano a questo gioco. Insomma, se un racconto fa ridere, se funziona, lo farà anche nella diversa formula.

Nino Fricano


Dono dell'editore



La Sicilia e gli alleati

Manoela Patti, La Sicilia e gli alleati. Tra occupazione e Liberazione, prefazione di Salvatore Lupo, Roma, Donzelli Editore, 2013, 227 pp. (Saggine, 230), ISBN 978-88-6036-965-9.

Manoela Patti, dottore di ricerca in Storia contemporanea, pubblica per i tipi della Donzelli La Sicilia e gli alleati, che, nonostante il piccolo formato cartaceo tipico della collana Saggine, si presenta come un libro poderoso.
Poderoso perché il volume si fa onere di rappresentare un ulteriore contributo alla questione storiografica, ancora viva e attuale, della liberazione dell'Italia dal fascismo e della «rifondazione [...] come Repubblica democratica» [p. 217], che ha nello sbarco in Sicilia del luglio del 1943 il suo inizio.
Emerge chiaramente la necessità di collocare i fatti del '43 e del '44 nella storia nazionale e all'interno della Seconda Guerra Mondiale, passaggio che spesso è messo da parte per servire una certa storia che si vuole "separata". L'occupazione alleata della Sicilia non è un fatto siciliano, ma un momento decisivo del conflitto, che ha conseguenze importanti per l'Italia, poiché ne accelera il collasso del fascismo e per le sorti della guerra. Ne è prova il fatto che Inghilterra e Stati Uniti preparino con scrupolosa perizia lo sbarco e l'occupazione, non tralasciando nessun aspetto, dalla strategia militare ai contatti con la popolazione siciliana.
Manoela Patti ricostruisce con altrettanta perizia lo sbarco e le sue fasi preparatorie, partendo proprio dai documenti conservati negli archivi americani e inglesi. Basta guardare l'Elenco delle abbreviazioni [pp. VII-VIII] per comprendere la mole e la qualità del lavoro che sta dietro la pubblicazione di questo libro. Ed è proprio la storia fatta con i documenti e negli archivi a segnare un pregio fondamentale di quest’opera. Solo un attento studio delle carte può contribuire a fare chiarezza su importanti pagine di storia e a smaltire quella serie di mistificazioni e mitologie che appassionano tanto gli amanti del mistero e dei complotti. Un esempio è il famigerato accordo Stati Uniti-Mafia che in questo libro è messo all’angolo proprio dallo studio dei documenti. La mafia è presente in Sicilia al momento dello sbarco, ma gioca un ruolo diverso da quello che la vulgata ha trasmesso.
La Sicilia appare quindi come «laboratorio» politico dove prima che altrove in Italia, si cerca di ricomporre la vita comunitaria. I mesi successivi allo sbarco e l'intero 1944 sono un periodo cruciale che mette alla prova la tenuta unitaria dell'Italia e di cui la Sicilia è parte fondamentale con i suoi protagonisti. Possono sembrare poco chiari i rapporti tra alleati, siciliani e governo italiano, tuttavia bisogna pur sempre ricordare che si è ancora nel pieno della guerra, sebbene siano terminate le operazioni belliche in Sicilia, con tutti i problemi e le emergenze che ne derivano per i civili, per l'economia e la politica. Tutto ciò Patti lo mette bene in luce, facendo un sapiente lavoro di ricostruzione storica, entrando nelle pieghe della politica siciliana e italiana nel delicato passaggio di ritorno dell'isola all'amministrazione italiana.
La Sicilia e gli alleati è un libro denso, che fa chiarezza anche su quei fatti, spesso taciuti, che riguardano i bombardamenti e le stragi alleate nell’isola. Un libro che consiglio di leggere, perché ci aiuta a comprendere cosa vogliono dire Sicilia e Italia all'indomani della Seconda Guerra Mondiale.

Piero Canale


Dono dell'editore



Gli sdraiati

Michele Serra, Gli sdraiati, Milano, Feltrinelli, 2013, 108 pp., ISBN 978-88-07-01834-3.

Esistono i libri che ti fanno piangere. Quelli che ti fanno ridere. Quelli tristi e quelli allegri. Quelli di pura fantasia. Quelli che ti raccontano la cruda realtà. Esistono i libri di guerra. I libri che narrano una storia d’amore. E ancora, quelli che ti lasciano a bocca aperta e quelli che ti lasciano, a tratti, perplesso. Questo libro di Michele Serra, giornalista e scrittore classe ’54, racchiude tutte le caratteristiche prima enumerate.
Gli sdraiati è il nome che Serra usa per identificare la nuova generazione, quella dei nativi digitali, dei sedicenni degli anni ’10 del 2000, che trovano nel divano il loro habitat ideale e nell’orizzontalità “rilassata” la loro posizione preferita. Gli occhi da cui tutto ciò viene osservato sono quelli di un padre che tenta in tutti i modi di essere autoritario, ma si rende conto che questa autorità sarebbe una totale simulazione; capisce, nel corso della narrazione, che non è nella sua indole, che non fa per lui: arriva addirittura ad autodefinirsi “relativista etico”, “dopopadre”.
Ma chi sono queste creature mitologiche? Questi esseri che si aggirano per la casa e le cui azioni non trovano la rituale e culturalmente accettata conclusione circolare? La loro abitazione sarà piena di cassetti e di ante di armadi aperti, migliaia di calzini sparsi ovunque, il lavello pieno di piatti sporchi, i posacenere ricolmi di cicche di sigarette, i vestiti buttati ovunque, «sputi di dentifricio nel lavandino e righe di merda nel water» [p. 87].
Esilaranti le pagine in cui si dipinge la figura del figlio disteso sul divano, trangugiante qualcosa, con tv accesa, cuffie collegate a un iPod nascosto non si sa dove, cellulare nella mano destra, computer sulle gambe, e nella mano sinistra un lembo di una pagina di un libro di chimica: il padre resta attonito, ma allo stesso tempo estasiato alla vista, tanto che non riesce a staccare gli occhi da questa immagine “sovrumana”. Il figlio non aspetta la domanda ma, allo stupore del padre, risponde: «E’ l’evoluzione della specie» [p. 51].
L’adulto si rende quindi conto che la stranezza, la particolarità, la a-normalità sta negli occhi di chi guarda: tutto ciò, questo comportamento, non è né giusto né sbagliato. Semplicemente «prima non si era mai visto» [p. 47].
A separare un capitolo dall’altro degli incisi, a tratti nervosi, a tratti allegri, a tratti collerici del padre nei confronti del figlio, tutti con lo stesso tema: la passeggiata verso il Colle della Nasca. Questo percorso naturalistico è quasi un’ossessione per il genitore, che non comprende la reticenza dell’erede ad addentrarsi in questo viaggio fantastico e stupefacente nei meandri di madre natura.
Il romanzo risulta intenso e carico di significati: ogni frase, ogni espressione, ogni costrutto appare ben calibrato e qualsivoglia parola non sembra essere lì per caso.

Vincenzo Bagnera





L'invenzione della virilità

Sandro Bellassai, L'invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell'Italia contemporanea, Roma, Carocci Editore, 2011, 181 pp., ISBN 9788843061501.

Molto interessante questo libretto di 200 pagine che, in maniera snella e autorevole, documentata e rigorosa ma di facile lettura, ricostruisce più di un secolo di storia italiana dal punto di vista del maschio “moderno”. L'autore di questo libro, pubblicato nel 2011 da Carocci Editore, è Sandro Bellassai, che insegna storia sociale e culturale all'Università di Bologna. La storia è quella del “virilismo”, ovvero l'ideologia della mascolinità, un -ismo che come tutti gli -ismi è artificio, costruzione, forzatura. E che nasce dalla paura. Il virilismo è quell'impalcatura retorica che il maschio ha dovuto crearsi davanti all'avanzata della modernità – che sovvertiva e rivoluzionava tutto, compreso il rapporto tra i sessi – per restare aggrappato ai suoi privilegi.
Un esempio è quello della superiorità fisica del maschio, che con la rivoluzione industriale e la conseguente meccanizzazione del lavoro di fine Ottocento, cessò – lentamente ma inesorabilmente – di essere fonte di legittimazione del patriarcato e della superiorità maschile all'interno del sistema sociale. Lavorare con le mani, lavorare col corpo, diventò sempre più inutile (si potrebbe dire: “tanto ci sono le macchine che fanno tutto”) e il vero potere – insomma – prese strade diverse rispetto a quelle della forza fisica. Ecco così che quel che non ebbe più senso all’interno del mondo – ma che restò, come retaggio nostalgico, abitudine che è difficile dimenticare, rievocazione di tempi passati e distortamente gloriosi – diventò immediatamente posa, esibizione, ostentazione.
Questo è il virilismo, dunque. La cura del corpo fine a se stessa (le palestre e le associazioni di ginnastica nascono in Europa proprio a fine Ottocento) ma sopratutto l'esaltazione di tutte quelle caratteristiche intese come “specificatamente maschili”: aggressività, forza, violenza, prevaricazione, comando, gerarchia. Caratteristiche che, con l'avanzare della modernità meccanizzata, rischiavano di perdersi del tutto. Ma non è solo questo. In ballo c'era tutto un ordine sociale basato sul patriarcato, tutto il vecchio regime che sembrò sempre più superato, anacronistico. Non a caso le prime rivendicazioni “femministe” (come il movimento delle suffragette inglesi) nacquero proprio in questo periodo.
In questa cornice, Bellassai ci racconta dell'Italia, passando il rassegna le fasi di sviluppo – ascesa, trionfo e crollo – del virilismo nostrano.
C'è il colonialismo, innanzitutto, fin dai tempi di Giolitti, che rappresentò per i maschi italiani un'opportunità per mostrare il proprio “vigore” contro le razze inferiori (il razzismo, scrive Bellassai, è il rovescio della medaglia del maschilismo: è un diritto sopraffare la razza inferiore così come è un diritto sopraffare il sesso inferiore). Il colonialismo italiano, spesso raccontato in modo mellifluo e indulgente, fu invece qualcosa di decisamente crudele e violento e portò, tra l'altro, a una legislazione colonialista foriera del concetto giuridico di “razza” e di “gerarchia di razza”, seconda per crudeltà solo alle legislazioni nazista e sudafricana.
C'è il futurismo, che fece della virilità, della violenza, della sopraffazione, dell'orrore per la mollezza e l'effeminatezza, una mitologia simbolica e teorica.
E poi c'è il trionfo del virilismo in Italia, durante il ventennio fascista, con la sua esplosione retorica e scenografica della mascolinità, le sue parate, le sue dimostrazioni ginniche, le sue politiche per l'incremento della natalità (la donna come moglie e madre), il suo puntare ancora di più sul colonialismo, nel sogno grottesco e fuori-tempo-massimo di un “impero italiano”.
Il declino del virilismo, per l'autore, si registrò dalla fine del fascismo in poi, con l'Italia investita dal “nuovo mondo” simbolico e culturale del consumismo americano e il rilassamento dei costumi conseguente il boom economico degli anni '50. Il colpo di grazia fu nel '68 e negli anni '70. Il movimento giovanile di quel periodo fu il primo movimento collettivo in cui maschi e femmine – soprattutto nelle università – stavano fianco a fianco, in una parità fattuale. Infine l'exploit internazionale – a livello teorico e politico – del movimento femminista, mentre l'Italia entra definitivamente nella modernità tagliando il cordone ombelicale col Vaticano e portando la secolarizzazione della società al suo punto di non ritorno grazie ai referendum su divorzio e aborto.
Poi ci sono gli anni '80 e i decenni successivi, il riflusso nel privato, il crollo del muro di Berlino e delle entità collettive, la disillusione politica, il nuovo edonismo e la nuova etica individualistica e aziendalistica. Nacque il nuovo mito dell' “uomo di successo” che in qualche modo fornì nuovi elementi di legittimazione per l'identità maschile, altre cose a cui aggrapparsi (competizione, performance, aggressività, gerarchia).
Bellassai tratteggia a grandi linee – con una capacità di sintesi degna di nota – la trasformazione del dibattito pubblico in senso “pubblicitario” avvenuta in questa ultima fase storica. Non più ragionamenti, teorie, enfasi retorica, scenografia – come nel caso del fascismo – ma velocità comunicativa, frammenti di discorso, slogan, ironia. La tendenza generale del discorso pubblico – di qualunque tipo: sociale, politico, culturale – di trasformarsi in un flusso continuo di stereotipi e luoghi comuni da utilizzare con dinamiche che sono sempre più simili a quelle del marketing e della pubblicità.
In questo contesto, non ha più senso parlare di “virilismo”, perché non siamo più davanti ad un'ideologia, ma è innegabile che nelle rappresentazioni stereotipate delle pubblicità, dei film, delle serie tv e di tutta la “produzione culturale” si registrino rigurgiti di maschilismo, misoginia, omofobia che sono segno di un ambiente simbolico pieno di dinamiche contraddittorie, scontri, resistenze e slanci in una direzione o nell'altra.
In tutto questo, c'è l'identità maschile che è tutta da ridefinire, in piena crisi, però ormai libera dalla zavorra del virilismo. Nascono riviste come Men's Healt e c'è il boom di vendite per i prodotti di cosmetica maschile. Il maschio in crisi diventa settore di mercato. L'autore focalizza nei protagonisti del film Full Monty del 1997 – operai rimasti disoccupati che decidono di diventare spogliarellisti, da soggetto desiderante a oggetto del desiderio – la perfetta metafora dell'uomo di oggi. Il maschio nudo, spogliato di ogni legittimazione sociale e politica, con i propri ruoli tradizionali (padre, marito, lavoratore) perennemente messi in discussione, e la possibilità di esplorare nuove formule e nuovi assetti psichici e sociali.


Nino Fricano



Storie d'Europa

Marcello Verga, Storie d’Europa. Secoli XVIII-XXI, Roma, Carocci Editore, 2004, 222 pp. ISBN 88-430-2780-8.

È oggi in atto una discussione, ancora tutta aperta, sull’Europa. Alla vigilia delle elezioni del prossimo maggio, in cui si deciderà che impronta dare a questa variegata e complessa realtà, ci misuriamo con la percezione che dell’Europa hanno gli europei e coloro i quali invece non lo sono ancora ufficialmente e magari auspicano di entrarne a far parte. Le diverse spinte – in alcuni casi attrattive, in altri di vera e propria repulsione – sono lo specchio reale del ruolo che il Vecchio Continente riveste, oggi, nella quotidianità dei cittadini europei.
Non si può certo affermare che questa discussione sia un fatto nuovo e relazionato alle contingenze storiche, poiché sull’Europa gli studiosi si interrogano da secoli, cercando di rispondere a due domande fondamentali: Cos’è l’Europa? Come e perché scrivere la storia d’Europa?
Come ci dice nell’introduzione Marcello Verga – Professore ordinario di Storia Moderna presso l’Università degli Studi di Firenze – questo volume non è soltanto un libro sulle storie d’Europa, scritte dalla metà del XVIII secolo a oggi, ma anche un tentativo di definizione dell’idea di Europa, in quanto essa è prima di tutto un’idea di civiltà [p. 9]. L’interesse dell’autore però non è rivolto alle possibili risposte, quanto piuttosto alla storia dei differenti significati che le domande e le risposte hanno avuto nei vari periodi che intercorrono dal XVIII al XXI secolo.
Uno dei primi temi su cui bisogna soffermarsi, quando si parla d’Europa, è quello relativo alle differenze nazionali, elemento molto importante già a partire dal XVIII secolo. Questa analisi reca in sé una duplice riflessione per certi versi opposta e complementare: l’Europa come insieme di nazioni che condivide una storia e una civiltà e l’Europa divisa in nazioni diverse tra loro dal punto di vista delle tradizioni, delle leggi e dei costumi. Tra Seicento e Settecento, infatti, si è diffusa l’idea di un’Europa frazionata su due assi: uno nord-sud e l’altro ovest-est. Entrambi questi assi sono la rappresentazione di un continente a due velocità. Nel primo caso siamo di fronte ad un’Europa mediterranea arretrata dal punto di vista economico, sociale e culturale a causa del «malgoverno spagnolo e della Chiesa della Controriforma» [p. 16] in opposizione a un’Europa settentrionale più avanzata e stabile; nel secondo caso invece abbiamo un’Europa occidentale, protagonista vera e assoluta della storia europea e della sua civiltà, in contrapposizione a un’Europa – quella orientale – quasi non europea, una sorta di «oriente europeo dell’Europa» [p. 17].
Dinanzi a tale scissione qual è la storia dell’Europa e quali le sue radici? A questa domanda provano a rispondere in tanti, a cominciare da Montesquieu e Voltaire: il primo inserendo il proprio ragionamento nel confronto continuo tra Vecchio Continente e Asia, dal quale, peraltro, trae le differenze tra dispotismo e governo moderato, tra schiavitù e libertà; il secondo partendo dall’idea di una grande repubblica composta da diversi stati, con diverse forme di governo, accomunati da una stessa religione, seppur divisa e «con gli stessi principi di diritto pubblico e di politica, ignoti nelle altre parti del mondo» [p. 19].
È per William Robertson, invece, che la storia d’Europa prende avvio dai barbari i quali occupano i luoghi che fino a quel momento sono appartenuti all’Impero romano d’Occidente. I barbari infatti introducono nuove forme politiche, sconosciute fino a quel momento: tra queste la più importante è proprio il sistema feudale caratteristico non solo di tutti i loro regimi, ma anche dell’Europa medievale e moderna. Le crociate, dal canto loro, offrono ai partecipanti la possibilità di conoscere nuove città, dando vita a importanti processi sociali e culturali oltre che economici.
Tanto Voltaire, quanto Robertson, Hume e Gibbon, sono concordi nel sostenere che le origini dell’Europa moderna non vadano ricercate nell’Impero romano ma nei popoli del Nord e nel risultato del loro incontro con il cristianesimo.
Tra Settecento e Ottocento cominciano poi a diffondersi i concetti di popolo, nazione e nazionalità che diventeranno presto patrimonio della cultura e della sensibilità politica europea. Contestualmente, nello stesso periodo, l’Europa e l’idea di una civiltà europea, sono temi che perdono la centralità avuta sino a quel momento.
Fu François Guizot a riprendere l’analisi del significato di una civiltà europea che, sebbene fosse indubbiamente reale nell’unità di certi caratteri, allo stesso tempo però presentava anche una certa varietà, con caratteristiche differenti da ricercare nelle storie dei diversi paesi europei. Egli, ad esempio, riconosceva alla Francia un ruolo centrale nella formazione della civiltà europea.
Cosa identificava però questa civiltà? Secondo Guizot civiltà e libertà sono valori prettamente europei e in essi dunque vanno riconosciute la storia e la civiltà d’Europa.
Dal mondo romano, innanzitutto, la civiltà europea moderna ha ereditato moltissimi elementi che la contraddistinguono: dalle città – che con le sue regole e abitudini, hanno sancito il principio di libertà – al potere imperiale, principio di ordine e servitù [p. 41]. Vi è poi la Chiesa cristiana e non – si badi bene – il cristianesimo: l’organizzazione e la capacità di affermazione della Chiesa riescono a rappresentare infatti «uno strumento di tenuta morale e di ordine sociale e politico nello sfascio dei poteri determinato dalla caduta dell’Impero d’Occidente» [p. 42].
Ai barbari – continua ancora Guizot – gli europei devono invece l’esercizio della libertà personale.
Il primo grande evento di questa Europa – i cui caratteri fondamentali sono proprio la Chiesa, le città, la monarchia – sono le crociate, senza le quali, afferma Guizot, non esiste l’Europa.
Quindi l’idea di Europa è strettamente legata all’esistenza di una molteplicità di culture – ellenistica, romana, celtica e germanica. Del resto «morte sicura è per l’Europa se tutto è ricondotto sempre e solo all’unità» diceva Burckhardt [p. 48].
È a Henri Pirenne che dobbiamo comunque una profonda riflessione sul senso di un’idea di Europa in quanto Europa delle nazioni e degli Stati e sull’importanza dei sentimenti di appartenenza nazionale nel delinearsi di una storia e di una civiltà europee. Lo storico belga fa partire questa riflessione dal primo conflitto mondiale. Dalla sua analisi emerge come la storia e la chimica siano state le due vere protagoniste della guerra: la prima per averle fornito esplosivi e gas, laddove la seconda, invece, aveva portato giustificazioni e scuse [p. 56]. Ovviamente la provocazione di Pirenne mira a una riflessione più approfondita sul ruolo che gli intellettuali e gli studiosi ebbero nel preparare il clima culturale che portò alla guerra. In particolare, gli storici tedeschi giustificano l’invasione del Belgio da parte del loro Stato.
Per Pirenne ci sono comunque dei punti cruciali nella storia Europea che vanno ben oltre il crollo dell’Impero romano d’occidente e l’avvento dei barbari. Innanzitutto c’è la rottura dell’unità del mondo mediterraneo e la separazione tra Occidente e Oriente, determinata dall’invasione musulmana del Mediterraneo e di alcune regioni europee; seguono poi la dissoluzione dell’Impero carolingio al quale è strettamente legata l’elaborazione della civiltà occidentale «destinata a diventare la civiltà del mondo intero» [p. 63], il feudalesimo, la lotta per le investiture e, infine, le crociate dalle quali viene fuori l’Europa dei commerci, dei mercanti e della borghesia.
In questo contesto si articola la riflessione sull’Europa e sulla Germania che Pirenne elabora durante gli anni di prigionia. È proprio a partire dalle posizioni degli storici tedeschi, volte nella maggior parte dei casi a giustificare l’invasione del Belgio da parte della loro nazione, che Pirenne si convince fermamente che la separazione tra potere e ceto intellettuale, tra governo e cultura che l’Europa aveva ereditato dalla Rivoluzione francese, fosse sconosciuta alla società tedesca. È forse questa la ragione per la quale lo storico belga decide di escludere gli storici tedeschi dai lavori del V Congresso internazionale di scienze storiche, svoltosi immediatamente dopo la fine del conflitto.
Nei fatti comunque, La Storia d’Europa che Pirenne scrive in carcere, rimane incompiuta. Secondo Verga le ragioni di questa interruzione sono da ricercare proprio nell’idea di un’Europa la cui identità è strettamente riconoscibile nell’affermarsi degli Stati nazionali. Lui stesso esalta e difende l’indipendenza del Belgio e smentisce categoricamente le pretese del pangermanesimo. Ecco dunque che – in relazione al dramma del suo tempo che lui stesso si ritrova a vivere pienamente da prigioniero – quella stessa idea di nazione e nazionalità che non esita ad esaltare nel caso del Belgio, finisce per trasformarsi in una vera e propria contraddizione, dinanzi allo specialismo della storiografia tedesca e alla diretta espressione di uno sciovinismo estremo che arriva ad ipotizzare perfino un’origine germanica della civiltà europea.
La diffusione di un interesse molto spiccato per le storie nazionali, specie a partire dall’Ottocento, non entra mai in contrasto con la storia d’Europa. Anzi, questa attitudine significa presto il riconoscimento di un'idea di Europa basata su un ‘sistema di Stati’ «destinati a lottare uno contro l’altro per l’affermazione dei loro interessi e delle loro ambizioni» [p. 49].
Nel primo dopoguerra si ridisegna l’immagine politica e culturale di un’Europa: accanto alla tradizionale Europa occidentale, cominciano a delinearsi la Russia della Rivoluzione d’ottobre da una parte ed un’Europa orientale contrapposta ad essa.
Dopo il primo conflitto mondiale, pertanto, l’idea di una storia della civiltà europea – con riferimento esplicito alla parte occidentale dell’Europa e agli Stati nazionali che si erano formati al suo interno – cessa di esistere. Si diffonde l’esigenza di una storia d’Europa coniugata al plurale rivendicata, peraltro, da molti storici tra i quali il rumeno Nicola Iorga che insiste, ad esempio, sull’importanza che Bisanzio ebbe sulla storia dell’Europa occidentale.
È negli anni Trenta del Novecento, invece, che il cosiddetto principio dell’equilibrio – diffusosi già a partire dal Rinascimento – si fa strada in molti storici, tra i quali Chabod. Ed è attraverso tale principio che è possibile regolare i rapporti tra i vari Stati nazionali «ben differenziati [e] ben consci della loro pienezza di sovranità» [p. 94]. Questo equilibrio aveva sempre garantito lo svolgimento della storia Europea nel corso dei secoli e, sempre secondo Chabod, a questo stesso equilibrio bisognava fare ricorso per far sì che tale svolgimento continuasse anche nel XX secolo, in un momento di grande crisi dell’Europa. Il Vecchio Continente, a cavallo tra i due conflitti mondiali, non ha più il primato nel controllo del mondo. Al suo posto nuove potenze, tra tutte gli Stati Uniti e alcune realtà asiatiche, esercitano adesso un ruolo importante.
Alle storie d’Europa come storie di equilibrio tra potenze e di rivalità tra le nazioni, Croce opporrà con la sua Storia d’Europa nel secolo XIX, uscita nel 1932, l’idea di un’Europa in cui prevale l’affermazione di un progetto di pace e cooperazione politica tra i vari Stati. Questa impostazione contribuisce al diffondersi di un concetto d’Europa legato ad una visione di speranza per il futuro: l’Europa diventa un rifugio contro nazionalismi e totalitarismi.
È ad Halecki infine che si deve la proclamazione della fine della storia Europea e dell’inizio della storia Atlantica, posizione questa che verrà condivisa da molti altri storici. Fino agli anni novanta del XX secolo e alla caduta del blocco sovietico, la riflessione sull’Europa ruota tutta attorno all’affermazione dei valori dell’Occidente (libertà, democrazia, capitalismo e libertà d’impresa) in contrapposizione all’esperienza dei regimi comunisti. Ma questo dibattito è tutto interno alla società occidentale e si priva dunque del punto di vista degli storici dei paesi dell’Europa centro-orientale.
In contrapposizione ai totalitarismi del Novecento (Nazismo e Comunismo sovietico) si comincia a fare strada l’idea di un’Europa dalle radici cristiane. La Chiesa diventa in quest’ottica il baluardo della società occidentale e dei suoi valori.
È ovvio che a questa visione si contrapporrà, successivamente, l’idea di un’Europa laica e tollerante, l’Europa dell’Umanesimo, della libertà e dell’Illuminismo.
Nelle conclusioni di questo lungo excursus, Verga ci tiene a sottolineare che il lavoro degli storici europei sulla storia d’Europa è fatto in gran parte da nativi dell’Europa occidentale. Dunque si tratta sempre di una visione parziale della realtà che già reca in sé un’idea univoca di Europa. Se a questo si aggiunge anche il fatto, tutt’altro che secondario, secondo cui l’Europa è stata prima di tutto «una realtà storicamente variabile nel tempo» [p. 147], allora è facile comprendere come mai appaia molto complesso scrivere una storia comune degli europei, malgrado innumerevoli siano stati negli ultimi anni i tentativi da parte di politici e studiosi.
 Se impossibile dunque appare il ricorso alla storia «per esaltare o rivendicare pretese “radici comuni” d’Europa» [p. 179], meglio sarebbe, secondo Verga, dedicarsi a un progetto di storia europea d’Europa come parte di una nuova storia universale.

Alessandra Mangano





Franco Venturi: Uno sguardo alle biblioteche e agli archivi italiani negli anni Sessanta (a cura di Piero Canale)

Franco Venturi: Uno sguardo alle biblioteche e agli archivi italiani negli anni Sessanta (a cura di Piero Canale).

Franco Venturi (1914-1994) storico e profondo conoscitore della cultura e della politica del Settecento, riporta nella prefazione al primo volume di una delle sue più importanti opere, Settecento riformatore, una riflessione attenta sullo stato delle biblioteche e degli archivi in Italia. Era il 1968, l'Italia cresceva economicamente e si poteva a pieno diritto riflettere sul rilancio della cultura italiana.
Oggi le parole di Venturi appaiono ancora troppo attuali, troppo vere. Spesso si fanno appelli – di recente un gruppo di ricercatori e docenti dell'Università di Palermo ne ha rivolto uno alle istituzioni siciliane e palermitane affinché si intervenga sullo stato della Biblioteca Comunale di Palermo e della Regionale siciliana – che, quasi sempre, rimangono inascoltati o giacciono nell'indifferenza della società civile.
Sarebbe interessante conoscere più in dettaglio la reazione alla denuncia di Franco Venturi e se da essa si sia sviluppato un dibattito. Riportiamo, tuttavia, le parole dello storico per farle nostre:

[...] ho vissuto troppo tempo in compagnia di uomini come Genovesi o come Verri per credere, sia pure un istante, che una impostazione teorica, anche giusta, risolva un problema di ricerca storica. Anche nel mondo di Clio è necessario considerar da vicino quel che accade quando si vuol passare dalle parole alle cose. Gli ostacoli che si frappongono alla ricerca non sono soltanto teorici ma pratici. Quelli che trova di fronte chi studia, ad esempio, il Settecento sono di natura ben concreta: le nostre biblioteche, i nostri archivi, i nostri centri e strumenti di lavoro. L'Italia è, ne sono convinto e lo ripeto, uno dei paesi d'Europa dove più larga e approfondita è stata la riflessione, la discussione che accompagna ogni movimento intellettuale e politico. Ma l'Italia è anche uno dei paesi in cui è più difficile e faticoso giungere a contatto con i testi e i documenti in cui questi dibattiti hanno lasciato le loro tracce. Siamo l'unico paese civile a non possedere una biblioteca nazionale, una biblioteca, intendo, in cui ci si possa ragionevolmente attendere di trovare qualsiasi libro e foglio apparso in ogni angolo del proprio paese, dall'invenzione della stampa ad oggi. Le nostre biblioteche, anche quando si chiamano nazionali, riflettono tuttora la secolare suddivisione degli stati e staterelli italiani, ai quali si è sovrapposta una stratificazione unitaria, che ha cento anni soltanto e che non ha modificato nel fondo le ripartizioni regionali anteriori. Difficile trovare una gazzetta palermitana settecentesca a Firenze (del resto, in certi casi, non la troveremo neanche a Palermo), o un foglio di Pesaro a Torino, o un pamphlet napoletano a Milano e così seguitando. E pensare che con i mezzi posti a disposizione dalla tecnica moderna e con un po' di buona volontà da parte delle biblioteche degli antichi stati italiani non sarebbe poi troppo difficile costruire, poniamo a Roma, una biblioteca in cui si trovino tutti gli stampati italiani, in originale o in riproduzione. Ma anche se la ricerca è locale (l'importante, nella storia del movimento riformatore, è uscire dalla dimensione locale e seguire un filo che trapassi le vecchie frontiere), anche se si cercano a Milano cose milanesi e a Napoli cose napoletane, gli ostacoli, le difficoltà, le impossibilità sono innumeri, e sormontabili soltanto con un dispendio grande di energia e di pazienza. Inutile specificare: tutti conosciamo gli orari, i cataloghi delle nostre biblioteche. Quanto ai nostri archivi essi sono, salvo eccezioni, tra i meno inventariati d'Europa. La possibilità pratica di consultarli varia straordinariamente da città a città, quasi che essi vogliano conservare ancora, almeno in un angolo polveroso, quella pittoresca varietà che colpiva l'occhio d'ogni viaggiatore nell'Italia dell'antico regime. Né, inoltre, i regolamenti unitari che si sono sovrapposti all'originaria diversità facilitano generalmente la consultazione di quelle antiche carte. Quanto poi agli archivi privati, salvo, anche qui, belle eccezioni, basterebbe fare il paragone con quello che è stato fatto e si fa in Inghilterra per accorgersi che grandi sono ancora le distanze che ci dividono da una situazione soddisfacente e normale. Ogni volta, in conclusione, che si esce da una nostra biblioteca o da un nostro archivio nasce spontanea la considerazione che l'Italia è un paese così ricco di documenti storici da non aver neppur bisogno di misurare, ordinare, catalogare tanta dovizia. Evidentemente tra noi le terre di Clio rendono benissimo anche a cultura estensiva e non val la pena di irrigarle e di riorganizzarle. Ma i frutti storiografici son poi quelli che possono essere ed è inutile che cerchiamo di paragonarli per quantità e qualità a quelli che nascono in quegli angoli del mondo in cui sono state adottate tecniche intensive. E, disgraziatamente, gli amici agricoltori ci insegnano che le culture estensive tradizionali rischiano molto di rovinare il terreno. Fuori di metafora, biblioteche ed archivi come ne esistono da noi, sono talvolta di altrettanto difficile accesso quanto la biblioteca di Babilonia di Borges e sono insieme depositi nei quali le tracce del passato possono più facilmente obliterarsi, rovinarsi e scomparire.

Non ignoro, naturalmente, che queste nostre biblioteche e questi nostri archivi sono, generalmente, degli strumenti inadeguati, ma affidati alle mani di persone di gran buona volontà, le quali sanno, quasi sempre, spingere la cortesia e la competenza loro fino al punto di creare attorno agli studiosi un'atmosfera di eccezione, che permette di superare gli ostacoli e di lavorare fruttuosamente. Come la monarchia merovingia era un despotismo corretto dal regicidio, così i nostri strumenti di lavoro costituiscono troppo spesso degli ostacoli corretti dal privilegio. Il rituale e più che dovuto ringraziamento che desidero qui rivolgere, in tutta sincerità, a coloro che mi hanno aiutato nelle mie ricerche è accompagnato così dall'augurio che nella mani dei bibliotecari e degli archivisti nostri vengano finalmente posti mezzi e strumenti che permettan di rendere accessibili a tutti, con ben diversi orari e con strutture organizzative completamente trasformate, i luoghi dove si conservano le testimonianze delle idee, delle lotte e delle speranze delle generazioni passate [F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, Giulio Einaudi editore, 1968, pp. XVI-XVIII].

Cattedrale

Raymond Carver, Cattedrale, Torino, Einaudi, 2011, 229 pp., ISBN 978-88-06-19785-8.

La Einaudi ha deciso di ripubblicare le opere di Raymond Carver, scomparso a cinquant’anni nel 1988; questa raccolta di dodici racconti brevi, uscita originariamente nel 1983, è stata sempre considerata – anche dallo stesso autore – la summa del suo stile.
Premetto che ho sempre apprezzato, di per sé, la formula dei racconti, brevi narrazioni autoconcluse, che difficilmente perdono mordente e ispirazione in lungaggini. Non sono più ‘facili’ da comporre, perché devono riuscire significanti in breve spazio e necessitano di talento. I temi qui affrontati, seri e impegnativi, sono quelli del disagio, della incomunicabilità e fragilità umana. Sono le storie che potrebbero stare dietro ai quadri di Hopper, in cui non c’è catarsi o consolazione ma storie crude nella loro quotidianità. Però se nei quadri di Hopper è padrone il silenzio, in queste storie c’è sotteso lo stridio di fondo di una continua macerazione interna.
Non è un libro facile da leggere: è scritto molto bene e risucchia il lettore nella narrazione, ma è sconsigliabile per chi non è sereno. Vitamine è, ad esempio, la storia di un adulterio mancato, nell’indifferenza assoluta degli stessi protagonisti, che affogano nel whiskey la loro desolazione. Il treno narra di solitudini diverse che possono sfiorarsi fin quasi a collidere, quasi a volersi spiegare a vicenda, per poi procedere parallele senza mai toccarsi. Ma ancora intervengono i disturbi psicologici di un reduce dal Vietnam, la minaccia della disoccupazione e dello sfratto, il dolore immane di un lutto, le normali atrocità della vita: atemporali, immotivate, banali. Cattedrale, il racconto che intitola e chiude la raccolta, è invece uno spiraglio in cui si mostra una possibilità di contatto. È la storia dell’incontro di un uomo con l’amico di sua moglie, ospite per una notte in casa loro. La coppia resterà anonima e inqualificata per tutto il racconto ("mio marito", "cara", "caro", "lei"…): «Ho aspettato invano di sentire il mio nome pronunciato dalle dolci labbra di mia moglie: ‘E poi è entrato in scena il mio caro maritino ...’ o qualcosa del genere. Ma niente da fare. Si è parlato sempre di Robert» [p. 216].  Solo dell’ospite dunque si sa il nome, il lavoro, l’aspetto fisico, ma anche che è vedovo, simpatico e soprattutto cieco. Questa menomazione mette in imbarazzo il protagonista, prevenuto e confuso con il diverso, con cui non sa come relazionarsi. Ma è Robert a sciogliere il ghiaccio: con la sua immediatezza, trasforma una semplice conversazione disimpegnata in un contatto vero, quando chiede al suo ospite di descrivergli una cattedrale gotica. Le parole non sono sufficienti, e allora il cieco chiede all’amico che gli disegni la cattedrale su carta, mentre lui gli tiene la mano: dal semplice contatto fisico, nasce incredibilmente una coinvolgente trasmissione empatica che induce fiducia, comunicazione, allegria. Carver sa davvero come coinvolgere il lettore.


Eloisia Tiziana Sparacino

La lettera scarlatta

Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta, Roma, Gruppo Editoriale L'Espresso, 2004, 333 pp. (Ottocento, 11), ISBN 88-89145-11-0.

La lettera scarlatta è la storia di violenza e di ipocrisia. Non voglio forzare in questa "recensione" temi che possono sembrare dettati dal tempo presente. Tuttavia questo romanzo del XIX secolo non riesce a non farmi pensare a due piaghe sociali che oggi contraddistinguono la società occidentale – e in particolare quella italiana – quali la violenza sulle donne e l'emarginazione sociale.
Non si vogliono generalizzare o minimizzare tematiche importanti, si vuole solo affermare la capacità di Nathaniel Hawthorne (1804-1864) di descrivere due fenomeni sociali con abile finzione narrativa – in modo tale da renderli estremamente pertinenti con i nostri tempi – e di spiegare i motivi che si insinuano nei meandri dei meccanismi socio-culturali.
Hester Prynne, la protagonista di questo romanzo, è colei che porta la lettera scarlatta. La lettera scarlatta è un odioso e infame segno della manifesta colpa adulterina della donna. Questo simbolo non rappresenta solo il marchio del peccato e la pena da scontare (Hester Prynne è obbligata a portarla per sempre sul petto, tenendola bene in vista). Esso è la cifra di una società. Non è bene fare paragoni tra epoche e luoghi differenti; è utile però evidenziare come l'amarezza di certe vicende lontane nel tempo e nello spazio, siano ancora oggi perfettamente calzanti e attuali, e siano proprie e connotanti di alcuni ambienti della nostra società.
È odioso parlare di violenza sulle donne nel XXI secolo del mondo cosiddetto "civile", eppure non si può che prendere atto che il cammino è lungo ancora per l'uomo bianco. Per questo motivo, non si può non pensare alla violenza subita da madri, spose, fidanzate e figlie, quando si leggono le azioni di un uomo come Roger Chillingworth, il quale condanna una donna, con il silenzio opportunista e vigliacco, alla dannazione pubblica in quanto "peccatrice", in quanto depositaria della sua stessa colpa perché donna e quindi fautrice della sua stessa pena. Come si fa a non parlare di femminicidio quando Arthur Dimmesdale, "rispettabilissimo" uomo di chiesa, accompagna Hester Prynne, con la bambina di pochi mesi al seno, al patibolo per il pubblico disprezzo, lui che è complice e padre di quella bambina. Due uomini, due complici di un misfatto nei confronti di una donna, che ha amato e che non ha voluto disonorare due uomini, che hanno scelto – nella codardia – di scrollarsi di dosso una responsabilità grande e bruciante: Arthur Dimmesdale, uomo di chiesa; Roger Chillingworth, uomo di scienza.
Dalla pena della donna si generano anche l'emarginazione sociale e il disprezzo. La lettera scarlatta sul petto di Hester Prynne, oltre a essere il marchio della violenza, è anche lo stemma dell'esclusione degli ultimi, di coloro che sono allontanati e messi al bando dall'onorata società, perché diversi, o peggio ancora perché ritenuti diversi a causa di un ricamo sul petto e di una bambina libera e bizzarra. Questa è l'emarginazione che ancora oggi contraddistingue le città occidentali, le città delle metropolitane, dei centri commerciali, degli uffici bancari, dei pub frequentati dalla buona borghesia, dei caffè letterari degli intellettuali. L'adultera è isolata e allontanata come i lebbrosi e gli appestati. E per strada si genera il largo durante il suo passaggio, in piazza si crea un cerchio di vuoto intorno a lei. Tuttavia, in questo romanzo, nell'emarginazione si produce il riscatto sociale, che è conferito dall'onesto lavoro e dall'assistenza e dalla vicinanza ai più deboli. Eppure non bastano il lavoro e l'assistenza a togliere via il pregiudizio, sebbene questo sia un passaggio significativo sull'attualità delle parole di Nathaniel Hawthorne.
Nello stesso modo però l'ipocrisia della società – che condanna Hester Prynne a portare la lettera scarlatta – genera le prime vittime. E le vittime sono proprio i due uomini già citati: Roger Chillingworth e Arthur Dimmesdale i quali soccombono rispettivamente nel senso di vendetta e nella codardia. Così muore Arthur Dimmesdale e tuttavia rimane nella memoria come santo, un sir Ciappelletto involontario e ancor più irrisorio, nei confronti del pastore. Una pena grande per l'animo di chi troppo tardi ha deciso di redimere e rendere manifeste le proprie colpe.
Roger Chillingworth muore nell'indifferenza e nella mancanza di scopo dopo aver condotto una parte della vita alla macchinazione della vendetta.
Questa è La lettera scarlatta, storia di violenza su una donna, di emarginazione sociale, di ipocrisia e dei loro effetti. Se insegnamento deve essere, è meglio non discuterlo in una recensione, che è, più che altro, una raccolta di pensieri su un classico della letteratura dell'Ottocento.


Lorenzo Cusimano