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venerdì 21 febbraio 2014

Incontro con l'autore presenta la guida di Pico di Trapani Viaggio in Sicilia i luoghi del turismo responsabile

La Biblioteca Francescana di Palermo
in collaborazione con l'Associazione LIBRidO
per il ciclo Incontro con l'autore presenta
la guida di Pico di Trapani
 Viaggio in Sicilia
i luoghi del turismo responsabile

con Addiopizzo

Venerdì 21 febbraio 2014, ore 16,30

Intervengono:

Francesca Vannini Parenti
co-fondatrice di Addiopizzo Travel

Fabio Conticello

titolare dell'Antica Focacceria San Francesco




mercoledì 5 febbraio 2014

Dov’è il Sole di notte?

Roberto Casati, Dov’è il Sole di notte? Lezioni atipiche di Astronomia, Azzate (Varese), Raffaello Cortina Editore, 2013, 186 pp. (Scienza e Idee, 239), ISBN 978-88-6030-616-6.

Cambiare punto di vista.
Dopo aver assunto tale metodo di approccio, tutt’altro che semplice da raggiungere, possiamo intraprendere la lettura di questo volume.
Questo libro non vuole e non pretende di essere un manuale di astronomia, e si accosta in maniera semplice e lineare alla conoscenza dell’Universo e dei fenomeni che lo governano.
Spesso le cose possono apparire molto più complesse ed estranee di quanto in realtà non lo siano e Roberto Casati, con il suo approccio da astrofilo e conoscitore della materia astronomica, ben ci mostra la logica e il meccanismo o, se vogliamo, il trucco per capire meglio il perché di alcuni fenomeni astronomici, a prima vista troppo complicati.
Il trucco è proprio cambiare il punto di vista.
Da semplice osservatore, occorre spostare il proprio punto di vista non solo al di fuori della Terra, ma bisogna anche, e soprattutto, prendere il posto del fenomeno che stiamo tentando di spiegare.
Fatto ciò è bene porsi le domande giuste cui dare una risposta logica.
Prendiamo dunque di volta in volta il posto ora di un potenziale abitante della Luna, se è la Terra che dobbiamo esaminare, ora di un abitante di uno dei due Poli, se dobbiamo capire il perché delle differenti durate del giorno e della notte, o il susseguirsi delle stagioni; fatto ciò ci si pone dei quesiti, che prevedano anche dei ragionamenti per assurdo, in modo tale che la risposta venga da sé per esclusione e per associazione. Così faremo nostra per sempre la spiegazione del fenomeno e saremo in grado di spiegare a nostra volta, non solo quanto stiamo prendendo in considerazione, ma anche gli altri fenomeni analoghi, partendo dal medesimo meccanismo.
Con uno stile linguistico chiaro e lineare, Roberto Casati, filosofo italiano e direttore di ricerca al CNRS dell’Institut Nicod, Ecole Normale Supérieure di Parigi, ha realizzato un meraviglioso saggio di divulgazione sull’approccio all’astronomia, che ben vedrei come libro di testo da adottare a scuola, perché è in quegli anni che si formano il ragionamento logico, il metodo di apprendimento e la logica per la connessione dei fenomeni.
Un ottimo volume che ho molto apprezzato, che mi ha fatto pensare in grande e assumere differenti punti di vista, stupendomi ogni volta della reale utilità e semplicità di questo indispensabile passaggio, già dal primo capitolo e per tutti i successivi 14.
Non bisogna tralasciare l’Appendice, La Maga dei Pianeti usa Stellarium [pp. 161-178], in cui l’autore ci mostra un utile applicativo per PC, Stellarium, che riproduce i moti dei Pianeti, la volta celeste, e dà la possibilità di osservare diversi fenomeni astronomici, grazie alla creazione di percorsi personalizzati.
Vanno letti anche i Ringraziamenti [pp. 179-181], poiché è giusto e corretto dare valore e rilievo a chiunque abbia contribuito, con ruoli e peso differenti, alla realizzazione di questo libro, iniziato – per stare alle parole dell’autore – come lavoro «per mantener fede a un piccolo impegno preso in una conversazione» [p. 180]; piccolo impegno che si è realizzato in questo prezioso saggio, inserito nella collana diretta da Giulio Giorello, Scienza e Idee, di cui occupa il numero 239, edito dalla Raffaello Cortina Editore, che ha curato la consueta e ottima veste grafica, nonché l’accurata impaginazione.
Un testo che non può mancare nelle biblioteche di filosofi, astrofili, astronomi o, semplicemente, di curiosi.

Agostina Passantino



Miele di mare

Emanuele Lanzetta, Miele di mare. Romance di una compagna e di un viaggio, Palermo, Editrice Officina Trinacria, 2013, 79 pp., ISBN 978-88-96490-59-4.

Raccontare un amore, raccontare un viaggio: questo è compito della Poesia.
Amore e viaggio hanno sfumature e mille significati. I più veri e i più normali nello stesso tempo. Ci si affida ai versi per narrare e salvare l'anima, dopo che essa si è persa in un amore e in un viaggio, e stenta a trovare la via del ritorno.
Miele di mare è un tentativo per l'anima, un espediente per cacciare la morte, sebbene sia la morte il rischio della poesia, come estremo e sublime sacrificio per il suo poeta: «Siate pronti a dimenticare / queste parole / fuori dai solchi / siate pronti a dimenticare / spesso / vi lascio un ricordo per ciò che a voi / importa / mi riprendo un silenzio / che addolcisca la voce rugginosa / stavolta e ancora» [p. 68].
In morte di Madonna Laura verrebbe da dire, se non fosse già un ardire l'aver dedicato questi versi alla «Laura», donna che muta e che è forse più poesia che donna. Una poesia gracile e ricamata nelle trame di un sogno: «Colgo un fiore / solo per immaginarlo / tra i tuoi capelli» [p. 64].
Lanzetta poeta canta versi di sole e di inverno. Versi che vogliono emanare calore, ma appaiono circuiti dalla timidezza, viziati dal dolore che l'indifferenza ultraterrena di una donna causa, o semplicemente dalla natura riservata del cor gentile, tanto da raccomandare «con inconsapevole pudore» chi verrà a chiedere dell'amore. Sono poesie di schiuma e di salsedine che residue rimangono sulla pelle e sulla battigia, insieme agli ossi di seppia che si sfarinano di fronte all'impotenza di una vita che non è né maligna né benevola, ma solo vita.
Sono mille i modi per leggere questi versi e lo stesso poeta consiglia di alcune l'ascolto sotto le note del De André poeta e cantore. Eppure non ci sarebbe bisogno di suoni, poiché la poesia di Lanzetta è già musica che ritma il cuore.


Lorenzo Cusimano


Dono dell'editore

Momenti e problemi di storia politica in Sicilia 1944-1953

Sebastiano M. Finocchiaro, Momenti e problemi di storia politica in Sicilia 1944-1953, Palermo, Istituto Poligrafico Europeo, 2011, 268 pp., (Saggi, 1), ISBN 978-88-96251-22-5.

Il secondo dopoguerra è un momento di transizione, che porta con sé una miriade di questioni riguardanti problemi di natura politica, istituzionale, economica e sociale.
Rispetto alla storia italiana ed europea, la Sicilia presenta nello stesso periodo momenti e problemi in parte differenti e peculiari. Non starò qui a dire quali furono le conseguenze del 1943 per la Sicilia e per l'Italia – poiché questo spazio non me lo permette – tuttavia, era doverosa questa premessa per parlare del libro di Sebastiano Maurizio Finocchiaro, dottore di ricerca in Storia contemporanea.
Il "lungo dopoguerra" siciliano è conseguenza dello sbarco in Sicilia del 1943 e del "mondo nuovo" che si delinea dopo la sconfitta del nazifascismo, sebbene il libro – edito dall'Istituto Poligrafico Europeo, in collaborazione con l'Istituto Gramsci Siciliano – prenda in esame i fatti accaduti tra il 1944 e il 1953.
Il volume, che si compone di quattro saggi, affronta e analizza gli aspetti della politica siciliana e nazionale in Sicilia, dall'attuazione delle norme per l'ammasso granario, ai risultati politici delle elezioni regionali del 1946 e politiche del 1948, dallo scontro e dall'intervento liberticida dei prefetti siciliani a danno della militanza socialcomunista, fino al fallimento del meccanismo elettorale previsto dalla cosiddetta "legge truffa" del 1953.
Il primo saggio, Il Partito comunista e gli ammassi granari 1944-1947. Questione alimentare, ordine pubblico e unità antifascista [pp. 11-79], affronta la questione del fallimento della politica dell'ammasso granario, volta a fronteggiare la scarsità di generi alimentari per la popolazione affamata dalla penuria generata dal conflitto. Immediatamente dopo lo sbarco e successivamente all'11 febbraio 1944 – quando la Sicilia tornò sotto l'amministrazione italiana – fu mantenuta «la legislazione vincolistica sui cereali, risalente al 1936» [p. 13], con qualche piccola integrazione e l'istituzione delle Commissioni di controllo per vigilare sulle strutture annonarie comunali. L'ordine pubblico era uno dei motivi che mantenne in vigore il sistema annonario. Ciò fu alla base di un duro scontro politico a livello regionale e locale tra i partiti del CLN (sebbene nei comitati di controllo fossero i comunisti quelli più attivi, mentre andava maturando una posizione di distacco della DC isolana) e i separatisti. Non mancarono fatti delittuosi, come l'assassinio del comunista casteldaccese Andrea Raia (e non Francesco, come erroneamente scrive l'autore) il 5 agosto del 1944, membro della commissione di controllo.
I "granai del popolo" furono, pertanto, un esperimento di difficile convivenza nella stessa maggioranza del CLN (non bisogna dimenticare che i decreti e le norme in materia agraria erano emanati dal governo di unità nazionale: il ministro dell'agricoltura era il comunista Fausto Gullo), ma anche l'emergere di un asse politico-agrario in grado di condizionare la politica locale, che ebbe, nel Separatismo prima e negli ambienti conservatori e di destra della DC, i suoi appoggi.
Il secondo saggio, Bandiere e pistole. Due paesi siciliani nelle amministrative del 1946 [pp. 81-126], è un interessante lavoro che prende in esame il clima politico nei paesi di Ravanusa (AG) e Riesi (CL). Un appuntamento elettorale rilevante, poiché per la prima volta le donne fecero il loro ingresso nella scena politica. Tuttavia, il lavoro si sofferma su due fatti, quello dell'affissione di vessilli comunisti in un campanile conteso dalla chiesa e dal comune di Ravanusa – cui è dedicata l'Appendice - I fatti di Ravanusa [pp. 243-250] – e quello dell'uccisione di un militante politico di Riesi. Nel primo caso si evidenzia, oltre ai disordini, l'intervento deciso delle gerarchie ecclesiastiche in funzione anticomunista (elemento importante anche dei saggi a seguire). Il secondo caso riguarda l'omicidio di Giuseppe Lo Grasso, democristiano, nel corso di un comizio e dei disordini che caratterizzarono la tornata elettorale e i giorni successivi allo spoglio.
Il terzo e il quarto saggio, Catania, 1949: la petizione contro il Patto Atlantico. Apparato statale e diritti costituzionali agli albori della "democrazia protetta" [pp. 127-157] e "Difesa democratica", anticomunismo e "legge truffa": un contributo alla storia del centrismo. Istituzioni, Chiesa, partiti e lotta politica nella campagna elettorale del 1953 [pp. 159-242], nonostante affrontino due momenti e degli argomenti diversi del "lungo dopoguerra" – come l'approvazione del Patto Atlantico e l'opposizione dei partiti di sinistra, la campagna elettorale del 1953, il ruolo della Chiesa e lo scontro nell'assemblea Regionale Siciliana – hanno in comune il tema della "democrazia protetta", o se vogliamo dell'effimera proclamazione dei principi democratici e liberali sanciti dalla neonata Costituzione.
Il terzo saggio prende le mosse dall'adesione dell'Italia all'alleanza atlantica e dalla mobilitazione dei partiti di sinistra per una raccolta firme contro la ratifica del trattato internazionale. Tale mobilitazione fu in Sicilia particolarmente perseguitata dai prefetti, se non repressa dalle forze di polizia. Il caso di Catania è esplicativo, non solo per l'atteggiamento in senso anticomunista degli apparati dello stato e delle angherie occorse ai militanti di sinistra, ma anche e soprattutto per l'offesa rivolta alla Costituzione italiana e in particolare all'articolo 21, con il mantenimento e l'applicazione del Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1931.
Il quarto saggio è quello che merita sicuramente più attenzione, giacché pone la lente su diversi aspetti che sono sì caratterizzanti la politica italiana degli anni a cavallo tra i Quaranta e i Cinquanta, e che in Sicilia sono garanzia del mantenimento al potere di una solida élite basata sull'alleanza Chiesa-Latifondo-Centrodestra.
Oggi non sappiamo per chi votò Caterina Pipitone, ma sappiamo con quanto zelo prefetti, vescovi – tra cui l'arcivescovo di Palermo, Ernesto Ruffini: sì, proprio colui che diceva che il male della Sicilia erano i comunisti, il Gattopardo e Danilo Dolci – e preti s'impegnarono in politica con un esplicito intento anticomunista.
Non solo la Costituzione, ma anche lo Statuto Siciliano viene fuori "sfregiato" dalla linea politica assunta dalla DC, che ne condiziona la piena attuazione: «per il Comitato regionale comunista il connubio fra lo scudo crociato e il Movimento sociale era ben più di una contingenza tattica o di una occasionale convergenza limitata a qualche amministrazione locale; esso tratteggiava invece una linea di continuità con il ventennio fascista, che avrebbe potuto prolungarsi nel futuro attraverso il progressivo smantellamento e poi la cancellazione della Costituzione e dello Statuto autonomistico siciliano; uno Statuto già largamente rimaneggiato dalla mancata attuazione di alcuni suoi punti essenziali, come la soppressione delle Prefetture, sulla quale la DC, dopo i solenni impegni assunti sin dal 1947, aveva fatto precipitosamente marcia indietro, riportando il popolo isolano sotto il 'tallone ferrato del vecchio Stato accentratore', che proprio fidando sugli esorbitanti poteri dei prefetti perseverava nella cieca repressione delle lotte popolari» [pp. 216-7].
Sono del resto gli anni successivi al 1948, gli anni del puro e duro maccartismo e della terribile Claire Booth Luce, ambasciatrice americana a Roma, tanto potente da riuscire a togliere le commesse al cantiere navale di Palermo, perché a maggioranza di operai iscritti alla CGIL. E furono anche gli anni dell'insolenza politica dell'allora ministro degli Interni, il famigerato Scelba, in cui «l'attività di centinaia di migliaia di militanti politici fu ingabbiata in una miriade di divieti, impedita dall'uso della coercizione fisica e dei provvedimenti preventivi, lastricata di pene pecuniarie e detentive per le quali un gran numero di attivisti pagò il proprio tributo a una deriva autoritaria nel cui alveo, dietro l'evanescente paravento della 'difesa democratica' e dell'equidistanza dagli 'opposti estremismi', si consumava la quotidiana elusione, se non l'eversione, della Costituzione repubblicana, per mezzo di una prassi preventivo-repressiva orientata in senso nettamente (e quasi esclusivamente) anticomunista, supportata per un verso da un vieppiù affermantesi 'oltranzismo atlantico', e per l'altro dagli apocalittici pronunciamenti delle gerarchie cattoliche» [p. 182].
E, se solo una manciata di voti non permise di far scattare il premio di maggioranza della "legge truffa" alle elezioni del '53 (cosa che avrebbe dato la possibilità alla maggioranza di attuare modifiche costituzionali), e non furono approvate le leggi eccezionali che davano ai prefetti poteri speciali e limitavano rigidamente l'applicazione delle garanzie costituzionali, rimane tuttavia nella storia d'Italia e di Sicilia uno scenario politico condizionato da forze esterne alla politica, se si tengono in considerazione la mafia, la Chiesa e gli americani.
Momenti e problemi di storia politica in Sicilia 1944-1953 è un ottimo libro, poiché comprende quattro saggi, i quali si contraddistinguono per un notevole lavoro storiografico basato su fonti di archivio e su testimonianze (quotidiani principalmente) dell'epoca.
Se una critica si può muovere a questo libro, è quella della mancanza di uno strumento per la lettura delle note, infatti, l'elenco delle Fonti [p. 257] non permette di sciogliere tutte le sigle che indicano i fondi d'archivio consultati. Questa è, in fondo, un'osservazione di poco conto nell'economia complessiva del libro, che è corredato da un'ottima ed esaustiva Bibliografia [pp. 251-256] e dall'Indice dei nomi [pp. 258-264].


Piero Canale


Dono dell'editore

Viaggio in Sicilia: I luoghi del turismo responsabile con Addio Pizzo

Pico Di Trapani, Viaggio in Sicilia: I luoghi del turismo responsabile con Addio Pizzo, Marsala-Palermo, Navarra Editore, 2013, 158 pp., ISBN 978-88-95756-87-5.

Palermo è indiscutibilmente, sotto molto aspetti, una delle più belle città del mondo: architettura, paesaggio, posizione geografica, clima… Purtroppo da tanto tempo la sua anima è fiaccata da un cancro che tenta di distruggerla lentamente e costantemente: questa malattia è indicata da tutti genericamente con il nome di mafia. La cosa triste è che questo “morbo” tende ad attirare su di sé l’attenzione a discapito di tutte le meraviglie della nostra terra: nel mondo saremo più facilmente conosciuti quindi come “capitale della mafia” che non come “capitale della cultura arabo-normanna”, per esempio.
Per fortuna, negli anni, abbiamo avuto tantissimi uomini che si sono battuti strenuamente perché il nome del nostro popolo smettesse di essere infangato in modo così spietato; paladini che hanno offerto la loro vita per servire la loro patria, che non hanno avuto paura di quella quiete assordante che avvolgeva la loro città e con un grido silenzioso hanno in tutti i modi provato a riportare al candore originario la vitalità di Palermo. “Come nani sulle spalle di giganti” dobbiamo sfruttare le loro armi, la loro esperienza, il loro aiuto, il loro sacrificio per portare avanti questa dura lotta che, mai come oggi, sembra volgere a nostro favore. Dal 2004 al fianco dei palermitani combatte questa battaglia “Addio Pizzo”, un’associazione di giovani impegnata nello smantellamento del sistema di estorsione indebita di denaro praticata, a danno dei proprietari delle attività commerciali, dai “picciotti” di Cosa Nostra.
Questo volume, scritto da Pico Di Trapani (se qualcuno se lo stesse chiedendo, non è parente di Maria Di Trapani, ndr.), attivista palermitano che da anni si occupa del fenomeno mafioso, nonché dell’evoluzione del movimento antimafia siciliano, non è la classica guida che rispetta i tradizionali itinerari turistici di Palermo. Questa guida ci accompagna in un percorso nuovo, attraverso i luoghi di particolare interesse storico e culturale in cui la prepotente omertà mafiosa si è scontrata con la civiltà cittadina dell’antimafia: sentiremo raccontare le storie di denunce di estorsioni, la lotta continua per ricordare la memoria di un parente assassinato, l’eroismo di un gruppo di giovani impegnato a creare una rete di collaborazioni fondata sulla legalità.
La prima parte del volume è costituita da 4 itinerari turistici interni alla città di Palermo: Itinerario A – Teatro Massimo, Mercato del Capo, Piazza della Memoria; Itinerario B – Cattedrale, Questura, Quattro Canti e Piazza Pretoria, Chiesa della Martorana; Itinerario C – Antica Focacceria san Francesco ed Emporio Pizzo-Free, La Kalsa e piazza Marina, Lungomare del Foro Italico e piazza Magione; Itinerario D – Via D’Amelio, Monte Pellegrino e Castello Utveggio, Mondello e Parco della Favorita.
La seconda parte, invece, ci guida in alcuni paesi della provincia palermitana, in cui la denuncia di singoli coraggiosi ha creato un legame indissolubile tra la storia del territorio e quella di “Addio Pizzo”: Capaci, Partinico, Cinisi, Caccamo, Corleone, Portella della Ginestra e San Giuseppe Jato.
Il libro è condito da 16 bellissime tavole a colori che raccontano momenti, luoghi e oggetti rilevanti della lotta antimafia di “Addio Pizzo”, nonché dalle utilissime Note Bibliografiche [pp. 157-158] e da Contatti e Informazioni utili.


Vincenzo Bagnera


Dono dell'autore

Ravensbrück

Germaine Tillion, Ravensbrück, Prefazione di Tzvetan Todorov, Roma, Fazi Editore, 2012, 364 pp., (Campo dei Fiori, 009), ISBN 9788864112558.

Germaine Tillion fu prigioniera politica nel campo di concentramento di Ravensbrück. Arrestata nell’agosto del 1942 – in seguito alla denuncia di un prete cattolico – per aver organizzato una rete di resistenza in Francia, resterà in carcere fino al 1943, quando verrà tradotta nel campo di concentramento a nord di Berlino.
È qui che inizia la straordinaria attività di documentazione e di registrazione dati. Tillion, appassionata etnologa, riesce a vivere l’esperienza drammatica della deportazione in modo duplice: come vittima, prima di tutto, ma anche come studiosa appassionata, sempre alla ricerca della verità. È probabile, come dice spesso lei stessa, che sia sopravvissuta, all’orribile esperienza della deportazione, grazie al caso e alla rabbia. È certo, invece, che si sia salvata grazie alla determinazione della studiosa che ha il compito di testimoniare la realtà, anche quando questa si rivela scomoda e dura da accettare.
Nasce così Ravensbrück, un libro che descrive minuziosamente la vita nel campo di concentramento: le torture psicologiche e fisiche, le privazioni, le brutalità degli esperimenti del dottor Gebhardt; ma anche le miserie umane degli aguzzini, le loro deformazioni, le innumerevoli contraddizioni delle loro vite: gente normale, gente comune – dentisti, medici, ex tipografi, infermiere, ex impiegati –  nessun precedente penale, nessuna infanzia traumatica. Colpisce, nella descrizione minuziosa del personale fatta da Tillion nel secondo capitolo [pp. 59-98],  scoprire come in molti casi – uno fra tutti quello di Rudolf Höss, comandante di Auschwitz – si tratta di gente cattolica credente e praticante, scrupolosa, seria e che ha educato i figli secondo i ‘buoni principi’.
Dunque «i mostri sono uomini» [p.88] e pertanto nessun popolo può dirsi a riparo da un disastro morale di tale portata. Forse è proprio questo il nodo centrale attorno al quale si svolge la testimonianza di Tillion: la certezza che nessuno può sentirsi immune da tali atrocità. In effetti la storia non smentisce la studiosa. I campi di concentramento, la tortura, le violenze e la brutalità non si esauriscono con l’olocausto, ma continuano a macchiare la storia dell’umanità, anche successivamente, in tempi più recenti. Passeranno solo una trentina d’anni, infatti, prima che altre Auschwitz, sconvolgano Cile e Argentina, durante gli anni della dittatura militare. Alla base delle violenze emerge, come sempre in questi casi, un vero e proprio delirio semantico: ‘materialisti, atei, nemici dei valori occidentali e cristiani’, in nome del quale è possibile giustificare l’orrore.
Se ai tempi di Filippo II la limpieza de la sangre comporta la brutale caccia ai conversos e ai moriscos, in nome della stessa visione allucinata della società si compie lo sterminio degli ebrei, dei disabili, degli zingari e degli omosessuali. 
Quasi sempre, però, il sonno della ragione viene fuori dall’esitazione del potere civile, dall’incapacità dei governi di dare risposte alla disperazione dei cittadini. Ed ecco lì l’uomo forte, pronto a trionfare grazie alla solerzia nello scovare il capro espiatorio, la causa su cui riversare tutti i mali del proprio Paese.
Verrebbe proprio da dire che è l’uomo il peggiore nemico dell’uomo. Non è un caso che questa frase venga ripetuta, più volte, dal Dio mendicante interpretato da Alessio Boni, nello spettacolo di Valerio Binasco – in scena proprio in questi giorni nei più importanti teatri italiani – che ci racconta l’incontro tra Freud (bellissima e intensa interpretazione di Alessandro Haber) e Dio ai tempi dell’occupazione nazista.
Nessuno, dunque, può salvare l’uomo da se stesso, nemmeno Dio, al quale non è concesso interferire col libero arbitrio. C’è chi però, con la propria testimonianza, può aiutare a non dimenticare l’orrore, nella speranza che la disperazione e la brutalità, l’odio e la tortura, il sangue e la morte, possano continuare ad indignare, allora come oggi e dappertutto. Perché non accada mai più.
Il testo è corredato da un utilissimo apparato di Note [pp. 343-357] e da una Bibliografia [pp. 359-364].

Alessandra Mangano



I «cattivi maestri». L'Università di Palermo e le persecuzioni razziali di Piero Canale


Il 5 settembre 1938 furono varati i provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista. Fu proibita agli «alunni ed agli studenti ebrei» l’iscrizione alle scuole di qualsiasi ordine e grado, e l’ufficio di insegnante fu vietato alle «persone di razza ebraica». Cominciò con questo decreto la politica razzista del Fascismo.
L’intervento legislativo nell’istruzione fu un fatto rilevante e significativo della discriminazione razziale italiana a danno degli ebrei. L’attuazione di tali interventi, nell’ambito della cultura e degli intellettuali, fu una scelta autonoma del Fascismo - precedente anche ai provvedimenti tedeschi antiebraici in materia scolastica. Bisognava colpire gli ebrei e mostrare la discriminazione e la persecuzione, affinché fosse monito per tutti. Analizzando la questione dal punto di vista politico, non possiamo negare che «la persecuzione razziale nel settore 'educativo' si colloca quindi in un momento nel quale il regime accentua il controllo formale sulle istituzioni culturali».[1]
Nel giro di qualche mese, la discriminazione fu estesa a tutti i settori della vita nazionale, dalle professioni ai matrimoni, dalla proprietà privata alla materia testamentaria. Queste norme furono attuate e perseguite con zelo dai vari ministri, sottosegretari, funzionari e impiegati dello Stato.
Gli atenei non sono l’unica dimora della cultura, ma se una parte della «cultura italiana» aderì al fascismo e all’antisemitismo, bisogna anche dire che molti di questi «uomini di cultura» erano degli accademici. Non si deve dimenticare, inoltre, che soltanto undici professori universitari non giurarono fedeltà al regime.[2] Non è possibile nemmeno pensare che tutti gli altri docenti prestassero il giuramento soltanto per paura di perdere il posto di lavoro. Alcuni professori, fascisti lo erano realmente e «talvolta, dei veri e propri arnesi del regime messi in cattedra: così i docenti di 'mistica fascista', i giuristi di 'diritto corporativo', i 'regi storiografi'»,[3] etc. Questi stessi «uomini di cultura videro nell’antisemitismo di Stato una maniera per mettersi in mostra, fare carriera, fare danaro, per sfogare i loro rancori o le loro invidie contro questo o quel loro collega».[4]
L’ateneo di Palermo non ebbe sorte differente da quelli del resto della penisola. Nomi illustri, nomi importanti della giurisprudenza e della medicina non fecero segreto del loro antisemitismo, lo teorizzarono e lo difesero, utilizzando le non comuni doti di studiosi, sostenendo e non solamente eseguendo le direttive ministeriali. [5]
Ci furono troppi «cattivi maestri» – tali furono per Mario Genco – e «troppo forte fu la loro autorevolezza nei confronti di allievi e studenti, in quei tempi in cui il principio d’autorità faceva addirittura parte della 'mistica' del partito al potere».[6]
Tra gli «uomini di cultura» a Palermo – che non fecero mistero del loro antisemitismo – Giuseppe Maggiore (1882-1954) fu colui che ricoprì un ruolo di prima punta. Maggiore, laureato in Giurisprudenza, fu ordinario di diritto penale alla Regia Università di Palermo. Nel 1938 divenne Magnifico Rettore. In quegli stessi anni, la sua adesione al Fascismo, lo portò a ricoprire altri incarichi al di fuori dell’ambito universitario durante gli anni Trenta.[7]
La nomina a rettore coincise con le prese di posizione ufficiali del Regime sulla «questione razziale». I suoi notevoli impegni professionali, all’interno e al di fuori dell’Università, non gli impedirono di dare uno tra i contributi più consistenti al razzismo fascista provenienti dal mondo accademico, come pure alla propaganda dell’antisemitismo. Negli anni dal 1938 al 1943, fu autore di almeno due libri e di numerosi articoli pubblicati da quotidiani e riviste, in cui concentrò il suo pensiero razzista. L’impegno e la sistematicità del pensiero, che ritroviamo nei suoi testi, sono prova di una forte coscienza razzista che nei suoi studi trovò saldi spunti teorici.
Delle sue opere riguardanti il razzismo del Regime, sicuramente, la più significativa è Razza e Fascismo del 1939. Ampiamente pubblicizzato da «La difesa della razza» – mensile italiano del razzismo, pubblicato dal 1938 al 1943 – e recensito da giornali nazionali, il libro raccoglie tutta la produzione del professore in materia. Tra i primi scritti, tuttavia, ritroviamo un articolo pubblicato ne «La difesa della razza», dal titolo Logica e moralità del razzismo. L'articolo ci permette di comprendere la matrice razzista del pensiero di Giuseppe Maggiore - perché in esso si evidenzia la qualità filosofica del suo odio razziale, ritenendo che il razzismo italiano avesse «le carte in regola anche con la filosofia».[8] Non ci sono prese di posizione contro il razzismo biologico propugnato dal Manifesto degli scienziati razzisti. A proposito, piuttosto, scrisse che «i biologi sono dunque in buona compagnia filosofica quando sostengono l’esistenza delle categorie razziali», in quanto «se la razza è una verità per la biologia, non può non essere tale per la filosofia» che, invece, è capace – quest’ultima – di «elaborare e perfezionare i concetti scientifici, non dichiararli falsi».[9] Questo stesso articolo fu poi ripubblicato all’interno del suo libello Razza e Fascismo, in cui è concentrata l’essenza della sua ideologia razzista. Nel libro, Maggiore affronta svariate questioni, tutte intrise di antisemitismo: sono ripresi i temi della filosofia, della politica e della scuola.
L’impegno più rilevante fu rivolto alla politica, su cui si fonda il concetto stesso di razza. Per Maggiore, infatti, razza e politica sono strettamente unite e complementari, tanto da sostenere che «il concetto di razza nasce e vive nella politica […] fuori dalla politica quel concetto languisce e muore, quasi svuotato dalla sua ragion d’essere. […] Questa concretezza inseparabile dalla vera politica ci è garanzia della realtà del concetto di razza. La razza non è utopia, perché utopia nella politica è l’irreale. La razza è un concetto scientifico a servizio di un’idealità politica». [10]
Di conseguenza il concetto di razza non poteva non stringersi a quello di nazione e di popolo, difficilmente separabili – per l’impostazione teorica di Maggiore –, ma entrambi accomunati nella loro essenza storico-politica, perché «dove c’e nazione c’è razza, e dove c’è razza c’è nazione».[11]
L’odio dottrinario proposto in maniera sistematica nel saggio Razza e Fascismo, non fu risparmiato agli ebrei, per “salvaguardarsi” dai quali, egli ripropone e motiva le scelte del Duce, rivolte ad attuare una politica di difesa.[12]
Poco dopo l’emanazione dei provvedimenti contro gli ebrei nella scuola italiana, Maggiore – da poco insediatosi al rettorato palermitano – scrisse un articolo per «Critica Fascista» dal titolo La scuola agli italiani.
Maggiore si occupò della scuola e dell’Università, ed espresse in questo campo, la necessità dell’intervento del Fascismo sull’istruzione, affinché la scuola fosse «riconsegnata» agli italiani, che ne avevano lasciato la sorte agli ebrei. Secondo il rettore, il «primo urto tra Fascismo e semitismo doveva prodursi nel settore della scuola».[13] L’intento è “fascistizzare” ancora di più la scuola, poiché «le riforme e gli emendamenti intesi a rimettere sulla buona strada l’istruzione pubblica» non sono tali «da dissipare nell’animo dei fascisti veri un senso di malessere e di diffidenza».[14]
Quello che però, interessava più Giuseppe Maggiore era la sorte dell’Università, in cui più di tutte avvertì l’esigenza dei provvedimenti, in quanto ritenuta «asilo per le persone più indesiderabili».[15] Non c’è nemmeno da chiedersi chi possano essere queste persone indesiderabili per Maggiore: gli ebrei, colpevoli di avere reso le università italiane delle «università israelitiche», soggette ad un evitabile e terribile scadimento.[16]
Qualche mese dopo, all’inaugurazione dell’anno accademico 1938-1939, lesse una lunga relazione dai forti accenti razzisti, in cui non dimenticò di sottolineare i progressi fatti dai provvedimenti fascisti nell’Università, compiacendosi per l’allontanamento dei novantanove professori dall’insegnamento, di cui ben cinque dall’ateneo di Palermo.
Giuseppe Maggiore fu, sicuramente, il più fiero e schietto razzista e antisemita siciliano. La sospensione dalla cattedra fu breve. Dall’epurazione del 1943 voluta dagli anglo-americani per “defascistizzare” la scuola e l’Università, alla sua riammissione all’insegnamento passarono pochi anni, grazie all’intercessione del nuovo rettore Giovanni Baviera, il quale sostenne presso gli organi di polizia l’assoluta mancanza di azioni di rilievo a favore del Fascismo da parte di Maggiore.[17] Morì nel 1954. Rimane nella Facoltà di Scienze Politiche un'aula a lui intitolata.

Tra le fila dei razzisti palermitani troviamo il medico oculista fascista Alfredo Cucco (1893-1968), esponente della destra siciliana dal primo dopoguerra fino agli anni del Movimento Sociale Italiano. Il noto oculista e docente all’Università, durante il Fascismo visse con sorti alterne la sua appartenenza politica al PNF: federale a Palermo dal 1924 al 1927 per l’ala farinacciana; epurato nel 1927 a causa sia dell’estromissione di Farinacci dalla segreteria generale del partito, sia a causa delle accuse rivoltegli dal “prefetto di ferro” Cesare Mori.[18] Gli anni trenta però, riavvicinarono Cucco alle alte sfere della politica e non poco peso in questa nuova ascesa ebbero le sue posizioni razziste, le quali trovarono spazio e consenso all’interno del corso appena imboccato dal Fascismo. Il medico oculista firmò, insieme a molti altri, il Manifesto degli scienziati razzisti redatto il 14 luglio 1938.
In Cucco, come in Maggiore, politica e razzismo si fusero completamente insieme, infatti, le teorie razziali del primo si sposarono perfettamente con la politica demografica voluta dal regime. Il nucleo del pensiero razzista di Cucco era incentrato su teorie eugenetiche e demo-razziali, volte ad affermare la necessità di mettere in pratica, sistemi di miglioramento della razza attraverso la selezione di individui, controlli qualitativi e quantitativi delle nascite ed eliminazione degli eventuali portatori di devianze e difetti. Alle teorie eugenetiche Cucco univa una riflessione storica sulla civiltà del passato. A differenza di Maggiore, tuttavia, Alfredo Cucco non scrisse mai un vero e proprio libro in cui fu concentrata tutta la sua ideologia razzista. È possibile però, ritrovare nelle sue maggiori opere degli anni trenta e quaranta i nodi centrali del suo razzismo, fondamentali all’interno dei suoi studi medici e demografici.
I primi accenni sulle teorie di miglioramento della razza sono riscontrabili in La capitale del tracoma, brevissimo saggio sul problema della cecità a Palermo e delle relative problematiche che questa comporta alla vita di un’intera città, in cui il tracomatoso è definito «peso morto per sé, peso morto e contagio per la famiglia, per la società».[19]
Il successivo testo, Amplexus interruptus del 1940, preme però più drasticamente sul rapporto nascite, tassi demografici e “salute” di una razza. Secondo gli studi condotti, Cucco ritiene che l’uso di metodi contraccettivi, in particolar modo quello del coito interrotto, portasse danni fisici a chi li praticasse, e anche un calo delle nascite, primo fattore di decadimento e degrado di una razza. A dimostrazione di ciò furono prova, per l’oculista, i crolli delle antiche civiltà del passato, dai babilonesi, ai greci, agli stessi romani, causati, appunto, da un periodo di nascite in diminuzione. La situazione italiana, anch’essa percorsa dalla crisi delle nascite, necessitava di interventi massicci e politiche a favore della razza.
Nel 1941 Alfredo Cucco fu nominato docente di Demografia alla facoltà di Giurisprudenza. In linea con le lezioni di quest’ultimo insegnamento, fu il libello pubblicato nel 1940 dal titolo Sfacelo biologico anglo-russo-nord americano, in cui, partendo dai dati relativi alla natalità ed alle condizioni sociali di statunitensi, inglesi, russi e francesi, veniva posta in risalto la superiorità razziale di italiani e tedeschi. Lo stesso libro venne, poi, leggermente rivisto nel contenuto e nell’espressione, eliminando le punte estreme delle sue considerazioni, e ripubblicato con il titolo Uomini e popoli nel 1954.[20]
Il medico fascista non si occupò, nella sua “carriera di razzista”, solamente di teorie eugenetiche e demografiche. Egli fu anche un fiero sostenitore della superiorità razziale dei popoli mediterranei dell’Italia meridionale e, in particolar modo, dei siciliani. Espose queste sue idee sulla “sicilianità” collaborando occasionalmente con «La difesa della razza» e con i quotidiani locali dell’isola, per i quali scrisse colonne e pagine, con l’intento di fornire il suo contributo “scientifico”.
Sulla rivista di Interlandi contribuì con un pezzo dal titolo La Sicilia e la razza, in cui cercò di esaltare e risaltare, con i toni talora epici e fatalistici della solita retorica fascista, la fertilità delle donne siciliane per tramite degli alti tassi di natalità, prova inconfutabile della superiorità razziale di un popolo, della buona salute di una stirpe.[21]
Dimostrare una tale integrità e superiorità razziale dei siciliani, non poteva che significare –secondo Cucco – la diretta discendenza dai Romani, mantenuta attraverso i millenni, conservando intatte tutte le “sacre virtù” della Roma dell’Impero.[22]
In un articolo per «L’Ora», espose nuovamente le caratteristiche di grande vitalità meridionale, per tramite, anche, di una serie di confronti con i dati demografici delle regioni dell’Italia settentrionale, tra le quali il Piemonte, dove «i morti superano i nati» a causa dell’evidente contatto con la Francia. Quello che ad Alfredo Cucco interessa, è dimostrare scientificamente, attraverso un sfilza di termini medici e della biologia, le ragioni dell’ipernatalità meridionale, in particolare quella siciliana.[23] La prova biologica, dimostrata la notevole capacità riproduttiva delle donne siciliane, non poteva non ribadire la diretta discendenza da Roma. Questa fu una costante che accompagnò il medico palermitano anche dopo la Seconda Guerra Mondiale.[24]
Non fece mai abiura delle proprie idee razziste, anche dopo la caduta del regime. Nel 1954 commemorò la scomparsa di Giuseppe Maggiore recensendo nuovamente il testo La Politica – già recensito da Cucco, in un articolo de «L'Ora» del 18 aprile del 1942 – definendolo «un’opera monumentale nella storia della cultura nazionale».[25]
Al medico razzista la città di Termini Imerese ha intestato una via.
Tra i «cattivi maestri» vi furono anche zelanti predicatori del razzismo: l’esempio più calzante è quello di Telesio Interlandi (1894-1965), nato in un piccolo paesino vicino Ragusa, “fuggito” presto per Roma ed entrato nelle fila del Fascismo. Egli fece della sua professione di giornalista l’arma più spregiudicata per colpire e perseguitare gli ebrei. Non è possibile negare che il “LA” alla campagna di stampa antisemita fu dato proprio da Interlandi, direttore de «Il Tevere», quotidiano romano. Gli fu anche affidato il compito di dirigere la redazione de «La difesa della razza». [26] Nello stesso anno dell’uscita del primo numero della rivista, fu pubblicato Contra Judaeos, il libro-inchiesta di Interlandi, volto a denunciare l’invasione giudaica in Italia. [27]
Tra gli accademici siciliani che aderirono al Manifesto degli scienziati razzisti vi fu anche Biagio Pace (1889-1955), docente di archeologia all’Università degli Studi di Palermo e membro del Consiglio Superiore dell’Ufficio Demografia e Razza.
Gli studi di De Felice ci riportano anche il nome di Santi Romano (1875-1947), uno tra i più importanti giuristi italiani, ordinario di diritto amministrativo e costituzionale all’Università "La Sapienza" di Roma al tempo delle leggi razziali. Il noto giurista palermitano aderì al Fascismo e per questo, dopo la fine della dittatura, fu accusato di avere fiancheggiato il regime. Mentre erano in vigore i provvedimenti razziali, fu nominato membro del comitato scientifico della rivista giuridica «Diritto Razzista».[28] Nella situazione di irreperibilità della rivista citata, possiamo, agli studi attuali, rifarci solamente al rimando bibliografico.
Questi sono alcuni dei nomi, tra «i più bei nomi» della Cultura e dell’Università siciliana.

Gli uomini di cultura finora citati, prima dei provvedimenti per la cacciata degli ebrei dalla scuola, erano colleghi di lavoro – se non stretti collaboratori – dei docenti ebrei che furono allontanati dall’insegnamento nel 1938.
Il 16 ottobre furono interdetti dall’ufficio di docenza i professori Camillo Artom, docente di fisiologia umana; Maurizio Ascoli, docente di Clinica Medica; Mario Fubini, critico letterario e professore di letteratura italiana; Alberto Dina, ordinario di elettronica; ed Emilio Segrè fisico, direttore dell’Istituto di Fisica a Palermo e premio nobel nel 1959. Di questi soltanto Maurizio Ascoli tornò a insegnare all’Università di Palermo, mentre Giuseppe Maggiore e Alfredo Cucco, e con loro gli altri docenti che presero parte alla persecuzione, restarono al loro posto dopo il 1945 e continuarono la loro carriera di professori universitari, senza nessuna conseguenza per il loro operato di antisemiti e razzisti per pacificare la nazione.
Oggi a Maurizio Ascoli è intitolato l'Ospedale oncologico di Palermo, all'interno della struttura del Civico.

Riferimenti bibliografici: Sono riportate le opere citate nell'articolo, eccetto gli articoli pubblicati nei quotidiani e nella rivista «La difesa della razzia»: G. Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Torino, Einaudi, 2002; A. Cucco, La capitale del tracoma, Palermo, Scuola tipografica Ospizio di Beneficenza, 1937; Id., Uomini e popoli: profili biodemografici, Bologna, Cappelli, 1954; R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1997; M. Di Figlia, Alfredo Cucco. Storia di un federale, Palermo, Associazione Mediterranea, 2007; M. Di Figlia, Fascismo radicale e fascismo conservatore. Il caso Alfredo Cucco, in «Mediterranea», 2 (2004); S. Di Matteo, Storia di un quinquennio: anni roventi. La Sicilia dal 1943 al 1947, Palermo, G. Denaro Editore, 1967; M. Genco, Repulisti ebraico. Le leggi razziali in Sicilia 1938-1943, Palermo, Istituto Gramsci Siciliano, 2000; T. Interlandi, Contra Judaeos, Roma-Milano, Tumminelli & C., 1938; S. Lupo, Il Fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2005; G. Maggiore, Razza e Fascismo, Palermo, Agate, 1939; G. C. Marino, Le generazioni italiane dall’Unità alla Repubblica, Milano, Bompiani, 2006; B. Pasciuta, La Facoltà di Giurisprudenza di Palermo (1805-1940): docenti e organizzazioni degli Studi, in La Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Palermo. Origini, vicende ed attuale assetto, a cura di Gianfranco Purpura, Palermo, Kalos, 2007; G. Turi, Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’età fascista, Roma-Bari, Laterza, 2002; S. Zappoli, Maggiore, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Treccani, 2007.



[1] G. Turi, Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’età fascista, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 127.
[2] G. Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Torino, Einaudi, 2002.
[3] G. C. Marino, Le generazioni italiane dall’Unità alla Repubblica, Milano, Bompiani, 2006, p. 683.
[4] R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1997, p. 389.
[5] B. Pasciuta, La Facoltà di Giurisprudenza di Palermo (1805-1940): docenti e organizzazioni degli Studi, in La Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Palermo. Origini, vicende ed attuale assetto, a cura di Gianfranco Purpura, Palermo, Kalos, 2007, p. 134.
[6] M. Genco, Repulisti ebraico. Le leggi razziali in Sicilia 1938-1943, Palermo, Istituto Gramsci Siciliano, 2000, pp. 85.
[7] Ivi, pp. 85-86. Vd. S. Zappoli, Maggiore, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Treccani, 2007, vol. 67, http://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-maggiore_(Dizionario-Biografico)/ (ultimo accesso: 30/01/2014).
[8] G. Maggiore, Logica e moralità del razzismo, in «La difesa della razza», 3 (1938), pp. 31-32.
[9] Ibid.
[10] Id., Razza e Fascismo, Palermo, Agate, 1939, pp. 25-30.
[11] Ivi, p. 41.
[12] Ivi, pp. 153-154.
[13] Id., La scuola agli italiani, in «Critica Fascista», 21 (1938), p. 356.
[14] Ivi, p. 357.
[15] Ibid.
[16] Ivi, p. 358.
[17] S. Di Matteo, Storia di un quinquennio: anni roventi. La Sicilia dal 1943 al 1947, Palermo, G. Denaro Editore, 1967, p. 161.
[18] M. Di Figlia, Fascismo radicale e fascismo conservatore. Il caso Alfredo Cucco, in «Mediterranea», 2 (2004), p. 148; S. Lupo, Il Fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2005, pp. 272-279. Vd. M. Di Figlia, Alfredo Cucco. Storia di un federale, Palermo, Associazione Mediterranea, 2007.
[19] A. Cucco, La capitale del tracoma, Palermo, Scuola tipografica Ospizio di Beneficenza, 1937, p. 16.
[20] Id., Uomini e popoli: profili biodemografici, Bologna, Cappelli, 1954.
[21] Id., La Sicilia e la razza, in «La difesa della razza», 9 (1942), pp. 14-15.
[22] Ivi, p. 15.
[23] Id., Contrassegni di romanità nella vitalità meridionale, in «L'Ora», 20 aprile 1942.
[24] Ibid.
[25] M. Di Figlia, Fascismo radicale e fascismo conservatore, cit., p. 170.
[26] T. Interlandi, Premessa, in «La difesa della razza», 1 (1938), p. 3.
[27] Id., Contra Judaeos, Roma-Milano, Tumminelli & C., 1938.
[28] R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., p. 380; M. Genco, Repulisti ebraico, cit., p. 58.