Visualizzazioni totali

giovedì 5 settembre 2013

Hotel



Mino Pica, Hotel. Camere di riflessione, Copertino, Lupo, 2013, 118 pp., ISBN 978-88-6667-090-2.

Un vecchio spiegava l'importanza della lettura con una similitudine. Egli diceva che l'anima è come un hotel con tante camere e che la lettura serve a riempire queste stanze. Abbiamo nella nostra anima camere, nelle quali possiamo dare ospitalità ad Alcesti, Alëša Karamazov, Tichon, Athos, la signora Bovary e a tutti gli altri personaggi incontriamo nella lettura.
Eppure dopo la lettura di Hotel. Camere di riflessione di Mino Pica (giornalista e scrittore), è chiaro che in questo albergo – che è l'anima – una stanza sia riservata a se stessi, un luogo più o meno grande (forse un semplice sgabuzzino). Un luogo dove nascondere il peggio o il meglio delle cianfrusaglie di se stessi. Scope, ramazze, paure, vizi, nuovi e vecchi difetti, inspiegabili irrazionalità dettate dalle circostanze, oppure solamente vecchie speranze. Vecchie, appunto: calpestate o semplicemente seccate al sole.
Non esistono motivi per leggere Hotel di Mino Pica e tuttavia non esistono nemmeno motivi per non leggerlo. Come dichiara l'autore: «pensiamo di essere indispensabili, brillanti e preziosi, ma siamo semplicemente unici» [p. 51]. Questo libro è quindi unico e preferisco evidenziare due caratteristiche della sua unicità: la prima è la buona dose di coraggio (ma anche di sfrontatezza e una stilla di amarezza), con cui l'autore riesce a esporre una serie di istantanee dell'esistenza umana odierna e della «apprensione continua di rincorrere ciò che consumiamo senza perché, ogni singolo giorno» [pp. 16-17]. E sono proprio il vivere di ogni giorno, la ricerca di un lavoro – «disoccupati a tempo indeterminato [...] interessati a qualsiasi lavoro [e una] lunga lista di rifiuti» [p. 41] –, le relazioni, il morbo della socialità in rete e l'apparire, a far diventare necessario questo soggiorno in Hotel per ritrovare se stessi, per riflettere sui giorni, forse più su quelli a venire che su quelli passati.
La seconda caratteristica è, forse, meno legata alla qualità della scrittura di Mino Pica, ma che di sicuro influisce notevolmente sulla capacità narrativa del romanzo. L'autore seleziona un elenco di brani musicali della scena indie e rock e associa un pezzo ad ogni capitolo del libro chiedendo espressamente di ascoltarlo durante la lettura. La scelta è molto azzeccata e l'accostamento suggestivo. Un espediente originale, inaugurato in parte con Cucina interiore (precedente lavoro dell'autore), e creativo sulla scia del multimediale fatto in casa, che è in grado di far scoprire tanta buona musica a chi magari non è un esperto del genere.
Una nuova lettura edita da Lupo, casa editrice salentina attiva ormai da più di vent'anni sempre alla ricerca di curiosità e sperimentazione.

Piero Canale



Ninna nanna



Chuck Palahniuk, Ninna nanna, Milano, Mondadori, 2011, 273 pp., ISBN 978-88-04-54997-0.

Chuck Palahniuk è uno degli autori più amati dai giovani, della mia generazione e non solo. Il motivo? Presto detto. La sua scrittura riesce ad affascinare e ammaliare, ma allo stesso tempo crea nel lettore una sorta di crisi interiore e di riflessione profonda sulla degenerazione della società contemporanea. Tutto ciò non seguendo lo stereotipo dell’artista presuntuoso e saccente, intellettualmente impegnato e gonfio di cultura accademica, ma come un uomo che sembra aver attinto a piene mani - per creare quelle immagini orride, atroci e irrealmente agghiaccianti - dalla vita vissuta.
Ninna nanna, pubblicato per la prima volta nel 2002 col titolo originale di Lullaby, è la storia di Carl Streator che di mestiere fa il giornalista. Lavora per una modesta testata e ha il compito di indagare e scrivere riguardo alle morti infantili. Durante queste indagini si rende conto che nelle culle dei neonati defunti c'è un libro, sempre lo stesso, aperto sempre alla stessa pagina. Qui è stampata una ninna nanna: nella maggior parte dei casi una ninna nanna è una canzone rilassante, che ha lo scopo di aiutare un bambino a dormire, ma nelle mani di Palahniuk si trasforma in un incantesimo mortale che può uccidere chiunque. A questo punto comincia il “viaggio” di Carl che decide di voler distruggere tutte le copie di questo testo: in questo percorso incontra una serie di eccentrici e psicologicamente tortuosi personaggi, tutti interessati al misterioso libro per diversi e svariati motivi, fino ad un imprevedibile e “fantastico” finale…
Quando si prende in mano un libro di Palahniuk si sa che si sta per immergersi di botto in un torrente di assurdità e orrore che ti fa ridere anche quando, leggendo, provi profondo disgusto. Sembrerebbe brutto dire che Ninna nanna sia scontato e “di maniera”, ma se hai letto qualcuno dei suoi libri, hai già una vaga idea di cosa ti aspetta.

Vincenzo Bagnera



Il caos


Pier Paolo Pasolini, Il caos, Roma, l’Unità/Editori Riuniti, 1991, 253 pp.

Dall’agosto del 1968 al gennaio del 1970, Pasolini scrive per il periodico Tempo una rubrica che ha come oggetto diversi temi: dalla politica, alla cultura, al costume contemporaneo; ma anche recensioni, risposte ai lettori e appunti di viaggio. Il caos è la raccolta di questi scritti che l’Editore ha voluto pubblicare, nel 1991, ordinando i testi scelti secondo la loro successione cronologica e raggruppandoli per annate.
Pasolini stesso ci spiega le ragioni che lo spingono ad accettare questo incarico e lo fa nel suo primo articolo: «la necessità “civile” di intervenire, nella lotta spicciola e quotidiana, per conclamare […] una verità affermativa» [p. 18]. La verità di Pasolini presuppone, innanzitutto, il rifiuto di comportarsi da persona pubblica. L’autorità produce, infatti, terrore perché si basa su un insieme di comandamenti negativi o, più semplicemente, su divieti cui lo scrittore non intende sottomettersi. Per questa ragione il titolo della rubrica, Il Caos, si contrappone al terrore violando, in un certo senso, questi divieti che accomunano – nel mondo borghese – tanto la destra quanto la sinistra. È interessante notare che, in questa occasione, Pasolini non si riferisce, come potrebbe sembrare, al terrorismo staliniano, quanto piuttosto allo «snobismo estremistico di certi adepti del PSIUP» [p. 19].
La libertà di Pasolini non è determinata dal suo essere indipendente ma, ci dice lo stesso scrittore, dal suo essere solo. È proprio la solitudine ciò che garantisce allo scrittore la libertà di essere cinico con tutti, persino col suo editore capitalista. Ma, del resto, ci ricorda lucidamente e provocatoriamente l’autore, se possiamo leggere Marx e Lenin lo dobbiamo agli editori capitalisti e borghesi che li hanno pubblicati [p. 20].
La rubrica è permeata fortemente da tutti i temi essenziali che hanno contraddistinto la ricerca e le opere di Pasolini, primo tra tutti la profonda trasformazione del tessuto sociale italiano e, in particolare, il passaggio dalla civiltà contadina a quella del benessere e del capitalismo. Feroce, in tal senso, la critica che egli muove al Natale, festa che, di anno in anno, manifesta sempre più apertamente il forte embrassons-nous tra la Religione e la Produzione: «la Chiesa è ancora più asservita di prima al Capitale […] il Capitale strumentalizza la Chiesa solo per abitudine, per evitare guerre religiose, per comodità» [p. 96].
Inevitabile, dunque, che il bersaglio principale del suo discorso settimanale diventi la borghesia che, per Pasolini, non è una classe sociale ma una «vera e propria malattia» [p. 21] che ha finito per contagiare, contaminandole, anche quelle classi sociali che si sono sempre poste come obiettivo il combatterla.
Il Caos è una rubrica volutamente provocatoria, per certi versi anche aggressiva, nei confronti di tutti coloro i quali, intellettuali “di sinistra” inclusi, dimostrano di essere complici del degrado culturale della contemporaneità. In essa vi sono anche pagine di estremo dolore e solitudine. Colpisce, da subito, il senso di estrema oggettività nel descrivere la realtà: non è forza e nemmeno qualunquismo, non è indifferenza: è la solitudine che rende il poeta indipendente: «se sono indipendente lo sono con rabbia, dolore e umiliazione: non aprioristicamente, con la calma dei forti, ma per forza» [p. 19]. Gli anni della rubrica sono quelli dello scontro col PCI e del dissenso con il movimento studentesco: Pasolini rifiuta di allinearsi alle posizioni ufficiali e resta un intellettuale contro e pertanto scomodo. In occasione del sequestro delle copie di Teorema, chiaro è il riferimento al suo essere sempre e comunque un irregolare. Anche il suo opporsi presuppone indipendenza perché, ci dice, «anche nel “potere contrario al potere” ci sono dei settori (altrettanto oscuri e imprecisabili) che cercano volontariamente di colpirmi, di eliminarmi…» [p. 99].
Ora, dinanzi a questo Potere, qual è il ruolo dell’intellettuale? Se per circa un ventennio, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’egemonia culturale era stata detenuta dal PCI, negli anni ’70, quando cioè Pasolini scrive questa rubrica, quella stessa egemonia è passata nelle mani dell’industria. Ciò determina ovviamente lo svilirsi della figura dell’intellettuale, prima guida e vate nazionale, oggi ridotto invece a strumento nelle mani della borghesia e del mercato. Ciò accade perché il sistema borghese è in grado di assorbire ogni contraddizione, o meglio «crea esso stesso le contraddizioni per sopravvivere, superandosi» [pp.21-22].
Sono diversi i temi affrontati da Pasolini nella sua rubrica a corredo dei fatti di cronaca di quegli anni. Il razzismo, in primo luogo, in relazione alla guerra tra Israele e gli arabi. Di questo terribile problema lo scrittore ci dice che, nel tempo, esso è destinato ad aumentare a dismisura, a causa della «polverizzazione della collettività» la quale, frantumando la società, determinerà odio tra le diverse parti. Certo quest’odio si è oggi modificato, Pasolini lo aveva quasi previsto, ma la sostanza di questo sentimento non muta. Il povero, il diverso, l’altro continuano a provocare fastidio, insofferenza e a volte, dice lo scrittore friulano, persino “ripugnanza” [p. 29].
In secondo luogo, emerge con tutta la sua forza, la grande e più che mai attuale questione della democrazia reale che, in Pasolini, acquista una valenza molto particolare, in relazione alle sue idee sul Potere, sulla partecipazione, sui soggetti propulsori del cambiamento e della decisione. Secondo lui l’Italia avrebbe vissuto pienamente la democrazia reale soltanto durante gli anni della Resistenza e nel corso del ’68, in occasione del diffondersi del Movimento Studentesco. Tanto la Resistenza quanto il ’68 sono, infatti, due esperienze che furono trainate dall’idea del socialismo. In tale ottica, il tema del decentramento del potere, cui Pasolini dedica, direttamente o indirettamente, una parte molto importante della sua rubrica, e più in generale di tutta la sua opera letteraria, appare, oggi più che mai, di un’attualità sconcertante, anche in virtù dell’ampio dibattito, apertosi recentemente, sul futuro dell’attuale sinistra e sul declino della rappresentatività. Tutto ciò rende quindi queste pagine così vicine al nostro vissuto che sembra siano state scritte ieri. Autogestione implica responsabilità e il popolo italiano non sembra essere pronto, abituato com’è, da sempre, «al culto dell’autorità e del potere»[p. 43]. Chissà cosa penserebbe oggi Pasolini del presidenzialismo in discussione in questi giorni; del Movimento 5 Stelle o di una nazione che, oggi come ieri, continua ad essere «ignorante, provinciale, volgare, riduttiva, vecchia, terroristica, ingiusta» [p. 162]. 
Il Caos è preludio indispensabile alla lettura del Pasolini “corsaro” di qualche anno dopo. Il suo atteggiamento cinico può risultare oltremodo pungente e suscitare, persino, una feroce antipatia. Ma del resto è proprio questo il rischio-beneficio dell’essere veramente liberi: la schiettezza rende Pasolini un personaggio al contempo “scomodo” per la ferocia della sua analisi ma, nondimeno imparziale nel giudizio.
Ciò che non dobbiamo però dimenticare e che emerge, con forza, dalla lettura di queste pagine è che a questa libertà Pasolini arriva con dolore e sofferenza, perché dissentire ha un prezzo: quello di essere sempre impari.
La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza [p. 100].
Impossibile, dunque, leggere Pasolini senza aver ben chiara la sofferenza di questa drammatica solitudine.

Alessandra Mangano


Finzioni



Jorge Luis Borges, Finzioni, Torino, Einaudi, 1995, 154 pp. (ET Scrittori, 328), ISBN 978880617367.

Esistono libri cui si appartiene.
Non è necessario averli letti. Basta anche solo conoscerne il titolo, perché s'instauri un profondo legame tra la persona e il libro. E il titolo del libro ricorre nella vita, rincorre l'esistenza nelle strane circostanze, negli amori, nelle giornate infinite in cui è insopportabile riflettere, nelle giornate in cui la memoria fa cilecca e le immagini dei giorni andati ritornano confuse e fastidiose.
 È già il titolo a parlare, a trasmettere, a guidare riflessioni su mondi lontanissimi, girando l'angolo, e labirinti intricati.
 La mano, in totale autonomia, riempie le pagine di questo titolo.
Ficciones di Borges è tutto e niente. È niente come libro, raccolta di racconti. Ogni racconto è tutto. Ogni racconto è un universo che implode sulla sua contraddizione di surreale variante del mondo possibile. Come se, invece, nel nostro mondo non si scatenassero contraddizioni e situazioni surreali... la legge del verosimile in questo libro è ridicolizzata e violentata: non serve.
 Inutile seguire il filo di questo libro: è un dedalo, come quello di Ts'ui Pên, che fu governatore dello Yunnan, che dà incomodo alla memoria; una memoria che fa disprezzare di noi stessi, perché a ognuno mostra «sul volto il marchio della [propria] infamia».
 E la "luna" di Vincent Moon sorge sulle notti della lettura. E ogni pagina riapre le contraddizioni e le difficoltà. È un po' la storia della biblioteca di Babele e di tutti i libri: il dover essere, il voler dire, il dover dire, il voler dire, il dover dire, il voler essere.
 Bioy Casares è certo di aver letto la voce Uqbar nella opera The Anglo-American Cyclopaedia, ma noi siamo certi di queste "finzioni"?
 Non a caso in questa raccolta si può leggere la storia di Babilonia e della sua lotteria e dei suoi centri-scommesse che aprono in ogni quartiere e in cui tutti gli abitanti babilonesi giocano la propria esistenza e non la moneta. E c'è chi gioca l'intera pensione nelle riffe di Babilonia. Prima c'erano le librerie o i negozietti di alimentari, ora ci sono le finzioni del guadagno facile e della vincita al super enalotto. E mi viene in mente quello che scrisse Pessoa ne Il banchiere anarchico in merito alle finzioni sociali:

Il vero male, l'unico male, sono le convenzioni e le finzioni sociali, che si sovrappongono alle realtà naturali – tutto, dalla famiglia al denaro, dalla religione allo stato. Si nasce uomo o donna – voglio dire, si nasce per essere, da adulti, uomo o donna; non si nasce, a buon diritto naturale, né per essere marito, né per essere ricco o povero, come non si nasce per essere cattolico o protestante, o portoghese o inglese. Si è tutte queste cose in virtù delle finzioni sociali. Ora, queste finzioni sociali perché sono negative? Perché sono finzioni, perché non sono naturali. È negativo tanto il denaro che lo stato, l'istituzione famigliare come le religioni. Se ce ne fossero altre, che non fossero queste, sarebbero egualmente negative, perché sarebbero anch'esse finzioni, perché anch'esse si sovrapporrebbero e disturberebbero le realtà naturali. Dunque, qualunque sistema che non sia il puro sistema anarchico, il quale si prefigge l'abolizione di tutte le finzioni e di ciascuna di esse totalmente, è anch'esso una finzione. Usare tutta la nostra volontà, tutti i nostri sforzi, tutta la nostra intelligenza per creare, o contribuire a creare, una finzione sociale invece di un'altra è un assurdo, quando non è addirittura un crimine, perché è realizzare una perturbazione sociale con il fine esplicito di mantenere tutto uguale. Se riteniamo ingiuste le finzioni sociali perché schiacciano e opprimono quel che è naturale nell'uomo, a quale fine adoperarci per sostituirle con altre finzioni, quando possiamo agire per distruggerle tutte?
[...]
La tirannia che può essere scaturita dalla mia azione di lotta contro le finzioni sociali, è una tirannia che non parte da me e che dunque non ho creato io; sta nelle finzioni sociali, non l'ho sommata a quelle. Quella tirannia è la tirannia specifica delle finzioni sociali; e io non potevo, né era il mio scopo, distruggere le finzioni sociali. Glielo ripeto per la centesima volta: solo la rivoluzione sociale può distruggere le finzioni sociali; al contrario, l'azione anarchica perfetta, come la mia, può solo soggiogare le finzioni sociali, soggiogarle solo in relazione all'anarchico che mette in pratica quel processo, perché tale processo non permette una più ampia sottomissione di quelle finzioni [Fernando Pessoa, Il banchiere anarchico, pp. 14-15, 55].

 E se il dramma claustrofobico dei racconti di Borges necessita una fuga, è bene sapere che ogni via è preclusa. Nemmeno il sogno rappresenta una possibilità di evasione da queste finzioni sconcertanti. Divenire è un pericolo. Dormire anche, poiché il sogno, nel racconto Le rovine circolari, rischia di intrappolare l'esistenza nel sogno di qualcun altro. E chi ci dice che non siamo il sogno di qualcun altro?
E Finzioni è anche un'elucubrazione mentale. Gli anni della gioventù, le idee e i sogni mi avevano sempre fatto credere che le parole, e solo le mie, fossero le più vere. Credevo che i miei sentimenti fossero verità assoluta rivolta a persone vere, autentiche, legate a giorni vissuti, momenti goduti o funestamente occorsi.
 Poi però nella solitudine mi emozionai della finzione, di cose che oltre ad apparire sempre più lontane, apparivano irreali, incomprensibili. Ma la sorpresa terribile fu quella dello scoprire che la poetica creazione a vere e proprie finzioni fu rivolta. Finzioni di finzioni quindi: ispirata da finzioni, pséudea...
 Allora fu naturale porsi la domanda se anche tutto il resto non fosse anch'esso una finzione di finzioni.
 E la risposta fu solo una, nonostante Funes, tutto è finzione: ecco perché Finzioni.
 «Io ascoltavo con rispettosa venerazione queste antiche finzioni, forse meno ammirevoli del fatto che le avesse ideate un uomo d'un impero remoto, nel corso d'una disperata avventura, in un'isola occidentale. Ricordo le parole finali, ripetute in entrambe le versioni come per un comando segreto: 'Così combatterono gli eroi, tranquillo e ammirevole il cuore, violenta la spada, rassegnati a uccidere o a morire'» [Il giardino dei sentieri che si biforcano, p. 89].
Ecco perché finzioni ha un altro significato: separare e il suo contrario, unire. Già, perché finzioni e verità sono cose diverse, ma credere alle finzioni e non credere alla verità è la stessa cosa. Ed è inutile spiegare dove sta la finzione e dove la verità, tutto si mescola perché in ogni cosa si crederà in ciò che è conveniente e si taccerà di menzogna quello che non conviene.
 Ecco perché Finzioni di Borges è anche la fine di un amore, perché fu più facile credere e gioire delle finzioni, che delle verità.

Lorenzo Cusimano



I mariti delle altre



Guia Soncini, I mariti delle altre, Milano, Rizzoli, 2013, 175 pp., ISBN 978-88-17-06366-1.

«Siamo una repubblica fondata sull’adulterio» [p.23]: è questo l’assunto fondamentale dell’autrice che analizza, raffronta, censisce e, soprattutto, racconta come Lui e Lei, oggi, affrontino questo delicato tema.
Guia Soncini è una giornalista e scrittrice, che ha lavorato in magazine e riviste femminili (Vanity Fair, Gioia, D). Il taglio giornalistico è ben percepibile nel libro. Non è questo, infatti, un saggio sociologico, o un romanzo o un reportage statistico. Non c’è satira, indagine psicologica (o psichiatrica!), rivelazione di verità nascoste. Ma cos’è allora? È, semplicemente e onestamente, un lungo articolo di disamina sulle «corna»,  partire da quelle di cui suo padre abbondantemente adornava sua madre. Da agenti o vittime, con demarcazioni sempre più labili, il libro mostra come, col trascorrere del tempo e al mutar dei costumi, le coppie hanno diversamente gestito tale complessa situazione, imparando, gli uni dalle altre, anche a scambiarsi i ruoli.
La spavalda sicurezza, con cui alcuni uomini celebri negli anni '50 e '60 conducevano pubblicamente vite parallele con moglie ed amante - ognuna inquadrata in un proprio funzionale ambito di pertinenza - si è oggi esaurita. Quei grandi adulteri dalla doppia famiglia (Eugenio Scalfari, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi) oggi si perderebbero nei labirinti elettronici di social network, chat, mail, sms che lasciano sempre troppe tracce dietro di sé. Se gli uomini non sanno nascondersi, le donne, d’altro canto, sono segugi provetti, capaci di intercettare qualsiasi messaggio compromettente o a fiutare ogni pensiero men che puro del compagno. Perché, ad un certo punto agli inizi degli anni Novanta, la donna è diventata Ugo Tognazzi. Sceglie amanti che colmino le carenze affettive/sessuali del marito, coordina impegni familiari e amplessi clandestini, decide se preferisce essere la moglie o l’amante, se punire o ignorare il traditore. Perché, in fondo, come afferma Nora Ephron, «Niente ravviva la vita coniugale come la vita extraconiugale» [p. 16].
La struttura del libro segue l’articolazione del triplice punto di vista: Lui, Lei, l’Altra, intessuti sempre di esempi del miglior gossip cinematografico o politico. Filo sotteso e ricorrente del discorso, però, è sempre l’infedeltà, più che alla moglie, alla vita familiare del Soncini senior: la disamina dell’autrice è impietosa.
S'intuisce che, al di là di qualsiasi compagno fedifrago, sono i tradimenti paterni che hanno più colpito l’autrice.

Eloisia Tiziana Sparacino



Diceria dell'untore



Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, Milano, Bompiani, 2008, 188 pp., 978-88-4529-152-4.

Il libro descrive la vita di alcuni degenti di un sanatorio che appaiono subito come  condannati in attesa di esecuzione. Ammalati e medici vivono ciascuno la propria parte, reagendo all’atmosfera cupa dominante nel nosocomio.
Basato su un’esperienza autobiografica dello scrittore, viene presentata al lettore una prospettiva originale, con un insolito cast di personaggi: un giovane soldato malato di tisi, una ballerina e il primario chiamato “il Gran Magro”. In un sanatorio della Conca d’Oro, nella Sicilia occidentale, amministrato da un primario nobile e alcolizzato, viene descritta un’atmosfera noir, se non fosse per il profumo degli aranci e per il chiarore del sole della Sicilia. Una sentenza dolorosamente sospesa, che non lascia alla speranza che una possibilità di sopravvivenza su tre. Tra la ballerina e il soldato scaturisce un amore senza futuro, ostacolato dalla gelosia del Magro e dalla sorveglianza ferrea che la guarnigione di monache amministra a presidio di una rigorosa segregazione. La condizione del malati è un segno di sofferenza o di privilegio, un indizio di diversità, di estraneità alla vita, ai suoi modesti e prosaici valori. Il binomio arte-malattia diviene in Bufalino una categoria estetica, il metro di giudizio con cui misurare l’atteggiamento dello scrittore di fronte alla vita, il suo modo di accertarne la diagnosi. Il senso della vita, sentita dunque come una irreparabile malattia, è uno dei punti di forza della poetica bufaliniana. Bufalino parte da una condizione squisitamente autobiografica della malattia, ma leopardianamente ne supera i confini elevando la sua condizione di malato e quindi di diverso, alla dimensione dell’arte, nel senso più ampio del termine.
«…non sono felice e mi chiedo perché. Forse questa consunzione che porto nella carne mi va guastando anche l’anima» [p. 71]. Gran costruttore di personaggi, ispiratore di atmosfere incantate, tratta i fatti oggettivi come favola, senza stancarsi, tuttavia, di ragionare sulle cose; e allora la meditazione scava negli oggetti e nelle figure imboccando la via della meraviglia.
Gesualdo Bufalino ebbe riluttanza a pubblicare, infatti diede alle stampe il suo primo libro a sessant’anni, dopo una lunga opera di convincimento da parte di Elvira Sellerio e Leonardo Sciascia. Nel 1981 l’opera esplode immediatamente in tutto il suo valore e si trasforma in un caso letterario che culmina con l’assegnazione del Premio Campiello. Il suo primo editore è sempre Sellerio ma rotti gli indugi, l’autore comisano, intrattiene collaborazioni anche con Einaudi e Bompiani. Autore di saggi, poesie, romanzi e traduzioni, Bufalino di volta in volta affronta i suoi temi più cari elevandoli a dignità letteraria, tramite uno stile alto, ricco di metafore, ossimori e simboli.

Biagio Bertino