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sabato 5 gennaio 2013

“È l’Europa che ce lo chiede!” (Falso!)



Luciano Canfora, “È l’Europa che ce lo chiede!” (Falso!), Roma-Bari, Laterza, 2012, IX +78 pp., ISBN 978–88–420–9337-4.

Cosa rappresenta davvero l’Europa? Possiamo definirla una grande opportunità o piuttosto ammettere che si è trattato di una promessa mancata? Attraverso questo breve saggio, Luciano Canfora – docente di filologia classica all’Università di Bari – ci invita a riflettere attentamente sulle contraddizioni legate all’Europa, intesa – oggi più di ieri – come la nuova «ideologia» che ha scalzato quelle novecentesche messe ormai al bando.
La prima grande contraddizione dell’Europa è la mancanza di unità politica: dal 1957, anno della stipula dei Trattati di Roma, gli europei possiedono una moneta unica ma non uno Stato unitario. Lo storico non può omettere di sottolineare il passaggio epocale che stiamo attraversando e che ci mette di fronte al declino della sovranità affidata a parlamenti eletti a suffragio universale – inaugurata dalla Gloriosa Rivoluzione inglese del Seicento –  e all’avvento di una nuova forma di governo in cui il potere effettivo è esercitato non da rappresentanti eletti democraticamente dal popolo sovrano, ma da organismi finanziari potenti come la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale. Quali conseguenze ha questo delicato passaggio di consegne – avvenuto peraltro a totale insaputa dei cittadini – sui singoli Stati? Devastanti, secondo l’analisi dell’autore: dal dimezzamento del valore reale dei salari, alla perdita di consenso verso le tradizionali classi sociali di riferimento (così si spiega il voto massiccio degli operai alla Lega Nord) il tutto condito da una legge elettorale, il maggioritario, che, permettendo di vincere anche se si sono perse le elezioni, dà vita a parlamenti svuotati delle loro funzioni e prerogative.
La legge elettorale italiana, d’altra parte, è perfettamente funzionale al disegno che ha portato alla degenerazione della dinamica parlamentare: fino a qualche tempo fa ogni azione politica era improntata alla logica del bipolarismo. Oggi al bipolarismo si è sostituita la “coesione”, ovvero il fare insieme le cose che contano, nell’interesse del Paese, mettendo da parte le ideologie. Quante volte abbiamo sentito dire: questo non è un discorso di destra o di sinistra, ma è un discorso di buon senso! Del resto l’ideologia ha assunto una connotazione negativa in un mondo in cui – dice Canfora – c’è un uso incolto di questa parola. Così, opporsi all’abrogazione dell’art.18 – come richiesto dalla BCE nell’agosto del 2011 – è ideologico; affermare che il cambio reale della valuta non era basato – come ci avevano fatto credere – sull’equivalenza 1 euro pari a 2000 lire, ma piuttosto 1 a 1000, con tutto ciò che ne è conseguito in termini di dimezzamento dei salari, di contrazione del potere d’acquisto e della conseguente crisi del sistema produttivo, ti fa guadagnare l’appellativo di qualunquista, antieuropeista o, peggio, viste le ultime sortite del Cavaliere, berlusconiano. Eppure alle vecchie e tanto vituperate ideologie se n’è sostituita una nuova l’Europeicità, l’essere seguaci della quale è invece motivo di vanto e gloria.
A ben guardare, il principio della coesione – funzionale, come si diceva prima, al processo di disfacimento della rappresentanza parlamentare – è servito a eliminare dallo scenario politico le cosiddette “ali estreme” (destra e sinistra) e a concentrare tutto sulla rincorsa a quello che oggi viene chiamato “centro moderato”. L’indebolimento del dualismo destra/sinistra ha fatto sì che la finanza e il mercato si sostituissero alla politica. In Italia possiamo osservare l’esito più feroce di questo disegno se consideriamo che in nome della crisi e per il bene del Paese, siamo stati guidati per un anno da un governo tecnico che non è stato scelto dai cittadini, ma imposto dall’esterno come ineluttabile necessità. Ma, si chiede Canfora, destra e sinistra davvero non esistono più, o la loro scomparsa è invece da considerare «un fenomeno inerente alla società piuttosto che alla realtà?» (p. 12). Il comunismo storico è fallito, diceva Bobbio nel 1994, ma aggiungeva anche che il cammino verso l’eguaglianza è appena agli inizi. Eppure, se oggi ammettiamo, senza troppe difficoltà, che il comunismo è fallito, sembra invece impossibile scalfire l’idòlum dell’eternità del capitalismo, malgrado la crisi mondiale che imperversa da anni ormai dimostri tutto il contrario.  Ciò accade perché questa eternità, seppur fallace ed effimera, serve a rafforzare l’azione della Banca Centrale Europea che riveste il ruolo di attuale “forza direttrice a sé stante”, lo stesso ruolo che, ai tempi di Gramsci, era rappresentato da giornali del calibro del Corriere della Sera o del Times. L’esito primario dell’azione della BCE è quello di «abbattere governi, farne nascere di nuovi, ordinare la crescita di coalizioni e vietare referendum in paesi apparentemente sovrani» (p.25) come è evidente nel caso di Italia, Grecia e Spagna.
Come possiamo reagire dinanzi a uno scenario tale in cui assistiamo, inermi, alla delocalizzazione di quella forza direttrice a sé stante che oltrepassa i confini del singolo Stato nazionale per ancorarsi saldamente al potere bancario della cosidetta Troika? L’autore non ha dubbi e, citando Nouriel Roubini, l’economista che aveva previsto la crisi del 2007, afferma che non solo è possibile, ma è necessario addirittura svalutare l’euro, con buona pace degli interessi nordamericani e della Germania che ha nell’eurozona il suo mercato.
Insomma bisogna avere il coraggio di scegliere tra i diritti sanciti dalla Costituzione e il potere economico e finanziario, tra i diritti dei popoli e gli interessi del mercato. E, in questa scelta, si gioca – secondo Canfora – la vera sfida della sinistra e la chiave della sua sopravvivenza.

Alessandra Mangano

Il visconte di Bragelonne



Alexandre Dumas, Il visconte di Bragelonne, Roma, Newton Compton, 2006, XXV+1283 pp. (I Mammut, 16), ISBN 978-88-541-1402-9.

Dumas padre chiude con un monumentale volume la storia dei moschettieri.
La gloria di uomini valorosi come D'Artagnan, Athos, Porthos e Aramis non poteva che concludersi combattendo. Per più di duemila pagine (i tre romanzi insieme) i moschettieri hanno fatto vivere a generazioni di giovani avventure ed emozioni, che solo una penna ineguagliabile e feconda come quella di Dumas poteva rendere ficcanti.
Più che una recensione al Visconte, questa vuole essere una lode e una dichiarazione incondizionata di amore nei confronti del Ciclo dei moschettieri, del quale questo libro è soltanto l'atto conclusivo (lo precedono infatti I tre moschettieri e Vent'anni dopo).
L'autore riesce con maestria e impeccabile bravura a descrivere la Francia della seconda metà del Seicento e i suoi personaggi: la corte di Luigi XIV è una fotografia puntuale, precisa; gli angusti e atri ambienti della Bastiglia sono cupe pagine nell'animo di chi legge; le passioni e gli amori sono fiamme che presto avvampano nell'animo dei lettori trasportati; la morte degli eroi è un dolore: un abbandono tragico di uomini che guidandoci per mano per mille e più pagine, ci hanno portato con sé in galoppate mozzafiato, ci hanno fatto sognare le fronde verdi che ombrano e riparano dalla calura, la rugiada e i profumi del bosco che accompagnano le passeggiate, le strade polverose e perigliose, e le coste irte sul mare che nasconde insidie e soluzioni.
Il genio di Dumas riesce anche a far nascere la commedia del tapezziere Moliére, Il borghese gentiluomo, dall'incontro tra il commediografo e Porthos! La letteratura di Francia si riscrive e si realizza nelle pagine dei Moschettieri.
Porthos ci insegnò a vivere. Athos ci insegnò come crescere un figlio e a reagire con dignità al dolore che spegne l'uomo. Aramis ci insegnò a lottare per un'idea, per una causa. D'Artagnan ci insegnò a conoscere l'uomo ancor prima di usare la spada.
Chi ha letto la trilogia dei moschettieri questo lo sa bene, porta con sé il ricordo tenero dei quattro eroi e la venerazione per quei personaggi (o veri uomini?) che superano la storia e la narrazione, diventando mito generazionale.
Uno per tutti...

Piero Canale

Il racconto dell’isola sconosciuta



José Saramago, Il racconto dell’isola sconosciuta, a cura di Paolo Collo e Rita Desti, Torino, Einaudi, 2003, 29 pp., ISBN 978-88-06-16651-9

«L'isola sconosciuta è un luogo mobile che appare e scompare sulle carte della fantasia, ma sta ben saldo nel cuore di ognuno di noi». [quarta di copertina]
Cos’è l’isola sconosciuta? Una terra che non è mai stata toccata da nessuna imbarcazione o qualcosa di più grande e interiore?
In questo racconto Josè Saramago, premio nobel per la letteratura nel 1998, descrive un uomo che si presenta al cospetto del proprio re con la strana richiesta di una barca per cercare l’isola sconosciuta. Il re è sospettoso e dopo reciproche argomentazioni decide di concedere all’uomo ciò che chiede. Nel suo viaggio sarà aiutato da una donna...
La barca è il mezzo che permette all’uomo di scoprire realmente se stesso. Tra sogno e realtà l’autore narra sapientemente, con stile, una storia d’amore meravigliosa, che appare e svanisce dalle carte della fantasia, proprio come se fosse un’isola misteriosa.
All’interno 8 illustrazioni fuori testo tratte dall’Atlante di Battista Agnese (1553).

Biagio Bertino

Il messaggio segreto delle farfalle



Laila al-Uthman, Il messaggio segreto delle farfalle. Roma, Newton Compton Editori, 2012, 251 p., ISBN 978-88-541-4167-4.

«Ascolta da questo istante devi osservare il silenzio. I segreti del palazzo non possono trapelare all’esterno…per nessuna ragione» [p.13]. Da questa frase prende l’avvio la narrazione della vita di Nadia, nata in un Kuwait in cui le donne devono solo tacere e obbedire. Intellettualmente vivace e curiosa, a diciassette anni sogna di andare all’università, non immaginando di essere destinata in sposa ad un ricco despota molto più anziano, che la userà come un oggetto di piacere. Prigioniera in una gabbia d’oro, isolata da tutto e tutti, violata e percossa, vive con angoscia le visite del marito: «ero pronta ad essere umiliata, a sentirmi come se dei vermi mi strisciassero in gola e scarafaggi affamati mi percorressero le gambe e il ventre» [p. 38]. Alla morte del vecchio Nadia si crederà libera, ma si scoprirà sempre costretta dai vincoli delle convenienze sociali. Scritto fra il 2004 ed il 2005, il romanzo scorre, ma lo stile dalla pesante aggettivazione – quasi barocca – fa sentire l’origine mediorientale della scrittrice: eppure la scelta di una lingua letteraria non fa di questa una storia leggera. Laila al-Uthman è una sessantasettenne kuwaitiana che ha sempre scritto – e descritto – con coraggio, in saggi e storie dure, anche dolorose, dello scottante tabù della condizione della donna nel proprio Paese. L’autrice è una donna combattente, che ha affrontato il tribunale per oltraggio alla religione e che ha lottato come una suffragetta per il diritto di voto delle donne del suo Paese. In egual misura lotta Nadia per affermare il suo diritto di autodeterminazione; nel suo dialogo interiore lei si chiede: «Ma le farfalle erano state create senza voce? Ero forse destinata a sperimentare in questo palazzo il silenzio delle farfalle?» [p. 43]: la rabbia che sorge spontanea in risposta le darà la forza di sopravvivere.

Eloisia Tiziana Sparacino

Furor bibliographicus ovvero la bibliomania



Ugo Rozzo, Furor bibliographicus ovvero la bibliomania, a cura di Massimo Gatta, prefazione Alfredo Serrai, Macerata, Biblohaus, 2011, 217 pp., ISBN 9788895844183.

Al giorno d’oggi, a causa della prorompente ondata tecnologica, appare scontato imbattersi in collezionisti di cellulari, di orologi, di CD o di DVD, e sarebbe invece strano sentir dire che esista ancora gente che colleziona libri. In questo volume Ugo Rozzo – ex-docente di Storia del libro e della stampa presso l’Università di Udine – ce ne mostra un esempio: lo squilibrato del bibliomane, uomo mentalmente disturbato, geloso a tal punto dei suoi libri da appendere nella sua libreria l’iscrizione “Ite ad vendentes” (Andate da coloro che li vendono!), o addirittura da chiedere ad altri le opere che anche lui possiede, per paura di rovinare le proprie [p. 19].
Quest’excursus sulla bibliomania – incompleto, come tiene a precisare l’autore all’inizio dell’opera – prende le mosse da un componimento in sestine di Cesare Beccaria: Il bibliomane. Caratteristica principale di questo personaggio, messa abilmente in evidenza dall’illuminista, è quella di ignorare del tutto il contenuto dei volumi che colleziona, e di sfruttarli unicamente come ornamento. Si continua dunque esaminando la voce bibliomanie dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, in cui si deride l’incapacità del bibliomane di selezionare i volumi degni di nota da quelli inconsistenti e, di contro, si esalta la capacità di sintesi, tanto da elogiare un uomo – definito “uno dei più fini cervelli del secolo” – che, nel costituirsi una biblioteca ricca ma poco ingombrante, strappava le pagine a suo dire più interessanti da ogni testo.
Caratteristico risulta il percorso attraverso i dizionari e le enciclopedie italiane da cui vengono fuori una serie di distorsioni ulteriori, dalla stessa radice biblio-: avremo bibliofagia, bibliolatria, bibliomanzia, e così via… L’autore non manca di citare autori classici, sia greci che latini: citerà Seneca e il ritratto, nel De tranquillitate animae, dell’aristocratico che compra libri solo per abbellire la casa, o Luciano di Samosata, col suo Adversus indoctum et libros multos ementem, passando per Callimaco e concludendo col Trimalcione di Petronio e le sue “tre librerie, di cui una greca, l’altra latina”.
Il libro si legge scorrevolmente, tutto d’un fiato: quello che si scorge tra le righe è la passione che Rozzi prova per il libro e per tutto ciò che ruota attorno ad esso, nonché l’assoluta scientificità con cui si approccia alla ricerca.
Oltre che da un corposo apparato di note a piè di pagina (di notevole importanza per chi volesse approfondire lo studio dell’argomento), il testo è corredato da due appendici: una che contiene la stampa anastatica di Rari testi sulla bibliomania (pp. 85-193), esaminati dall’autore lungo la trattazione; un’altra in cui sono riportati frontespizi e coperte di testi afferenti al tema principale (pp. 196-205). La Nota del curatore (pp. 207-211) e l’Indice dei nomi (pp. 213-217) chiudono l’opera.

Vincenzo Bagnera