Giuseppe Rizzo, Piccola guerra
lampo per radere al suolo la Sicilia, Milano, Feltrinelli, 2013, 272 pp., ISBN
9788807019449.
Pirandello fa cacare, dice Gaga. Tomasi
di Lampedusa fa cacare.
E Camilleri, anche Camilleri fa
cacare?, chiede l’americano.
Camilleri è il male assoluto.
Dovrebbero imprigionarlo e rileggergli tutti i romanzi di Montalbano fino a che
non implori pietà. Bisognerebbe mettere mano alla pistola ogni volta che
qualcuno dice della splendida decadenza e dell’irredimibilità di questo posto,
come fanno Camilleri Pirandello Tomasi. Bisognerebbe appiccare il fuoco,
incendiare tutto, cambiare i connotati toponomastici e geografici di
quest’isola, togliere ogni punto di riferimento agli isolani e al resto del
mondo. Bisognerebbe, ecco, bisognerebbe che qualcuno si decidesse a scrivere un
piccolo manuale per organizzare una guerra lampo, radere al suolo la Sicilia e
resettare la mente di quelli un po’ cretini come te. Senza offesa, tesoro, era
solo un esempio [p. 19].
Ma quando mai la Sicilia e l'Italia
hanno conosciuto la dissacrazione vera, liberatoria? Nati in una terra di
Chiesa, Chiese, dogmatismo e fanatismo, di pubbliche verità e dubbi privati, di
integrità esibita e dissolutezza sotto il tappeto, gonfi di ipocrisia
sottopelle ma fedeli al dogma «è sempre meglio non sputtanare il potente»,
davvero non conosciamo la potenza della dissacrazione. E invece Giuseppe Rizzo,
scrittore agrigentino di 30 anni che vive e lavora a Roma, per l'immagine
finale del suo romanzo Piccola guerra
lampo per radere al suolo la Sicilia, sceglie proprio questa formula,
questa arma, questa energia.
Splendida, liberatoria, esplosiva è
l'immagine finale del romanzo, con il mafioso legato e imbavagliato che penzola
dalla pala eolica appena inaugurata, con il sindaco truffaldino che resta a
bocca aperta subito dopo aver tolto il telo, e tutta la carovana in pompa magna
al suo seguito che resta a bocca aperta, compreso l'imprenditore rozzo e
ignorante che però è vicino alla politica e vicino alla mafia e tutti insieme
fanno affari, distruggono il territorio come hanno sempre fatto, fanno un sacco
di soldi come hanno sempre fatto, sfruttando e succhiando sangue a questa terra
stremata, senza più futuro, nient’altro che una manica di parassiti. E, un po'
più giù, il macchinone del mafioso sfregiato dalla scritta “Pidocchio”.
Pidocchi, parassiti. Dire le cose come stanno, vedere sentire parlare, il sogno
proibito di ogni – usiamo un termine abusato – “siciliano onesto”.
Un po' la stessa cosa, pensandoci, di
una delle scene finali di Bastardi senza
Gloria di Quentin Tarantino. Il corpo di Hitler inquadrato in primo piano,
e una raffica di mitra che gli massacra la faccia, il collo e tutto il corpo.
Una raffica, poi un’altra, poi un’altra ancora. Piombo infuocato a infierire
sul corpo del dittatore. Vendetta. Sadismo. Violenza. Alla faccia del
politicamente corretto. Praticamente, il sogno proibito di tutti gli ebrei.
Dissacrante e liberatorio è questo
libro, un libro che ci voleva, splendido e necessario, che tutti dovrebbero
leggere, che dovrebbe essere tradotto e fare il giro del mondo, per quanto è
bello, profondo e scritto bene.
Ecco la trama. I trentenni Osso, Gaga
e Pupetta, spiantati globalizzati smaliziati emigrati e precari a Roma, Praga e
Berlino, tornano nel loro paesucolo disperato nell'entroterra disperato della
disperata Sicilia, tornano per togliersi un po' di soddisfazioni. Scaricano
quintali di merda davanti l'abitazione del sindaco, rovinano a suon di
pernacchie la festa di paese con annesso tromboneggiante discorso del ministro,
in un crescendo di risentita e divertita goliardia che diventerà presto gioco
pericoloso che sfuggirà loro di mano e gli metterà contro i mafioselli del
paese, costringendoli a fare i conti con la violenza e la prepotenza fatta
sistema – la mafia, la politica, il potere, le collusioni, la paura, l'omertà,
tutta la “palude” siciliana e italiana.
Stilisticamente, è un concentrato di
intelligenza e sapienza narrativa, senza una – dico una – caduta di tono, senza
neppure un minimo sfasamento di ritmo. Non c’è una frase banale, in questo
libro, non si riesce a trovare niente che sia messo lì per pigrizia. Nessun
riempitivo, nessun concetto trito, luogo comune. E poi è divertente da morire,
si ride tanto, mentre si legge. Ed è anche e soprattutto un romanzo pieno di
passione, di rabbia e di speranza, anche lì dove la speranza sembra
impossibile.
E poi ha il dono dell'universalità,
condizione necessaria perché ci sia grande letteratura. Parla infatti di paese
e provincia, senza essere né localistico né provinciale. Ci sono i giovani e la
Sicilia, infatti: la Sicilia da cui i giovani scappano, e i giovani che
scappano dalla Sicilia. Ma c'è pure la nuova umanità tutta, senza stereotipi o
cazzate giornalistiche. Mente, carne e sangue dei ragazzi e delle ragazze che
affrontano quotidianamente l’effimero, la volatilità e la precarietà in tutti i
campi dell’esistenza: denaro, lavoro, affetti, relazioni, orizzonti, futuro,
senso dell’esistenza. Una generazione lontana anni luce dal mondo del propri
genitori – non è un caso che nessuno dei protagonisti abbia un padre – un
popolo anomalo che fa i conti ogni giorno con il cinismo quasi obbligatorio del
postmoderno, la sua forzata assenza di sacralità e valori condivisi. Ragazzi e
ragazze che, nonostante tutto, sono splendidamente vivi, traboccano
di vita.
Chi ci riesce, di questi tempi,
sinceramente e profondamente, senza pose o ipocrisia, e in più facendo ridere e
piangere, e anche – quando ci vuole – provocando e indignando, a raccontare una
cosa del genere?
Nino
Fricano
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