Il 15 ottobre 2013
Italo Calvino avrebbe compiuto novant’anni. Fu scrittore, giornalista,
politico, autore di canzoni, traduttore e addetto stampa dell’Einaudi, ma
soprattutto fu uomo d’ideali, nel senso più vero del termine.
Nasce a Cuba e sempre
le rimane legato, tornandovi più volte e diventando amico di Che Guevara.
Giunto in Italia a 13 anni, dopo una militanza partigiana, alla fine della
seconda guerra mondiale si iscrive al Partito Comunista, impegnandosi in
politica per spirito di servizio e di utilità alla società. Comincia allo
stesso tempo a collaborare alla Einaudi, e inizia a frequentare intellettuali
come Eugenio Scalfari, Elio Vittorini e Cesare Pavese, che divenne il suo
mentore.
Le opere del periodo
giovanile (Il sentiero dei nidi di ragno,
1946; Ultimo viene il corvo, 1949)
risentono della corrente neorealistica che attraversa la cultura dell’Italia
del secondo dopoguerra. Il teatro, il cinema, la letteratura fanno
impietosamente i conti con la realtà di una società in macerie e Calvino, che
ha pure combattuto in trincea, non può che raccontarla; mantiene però una
sottesa leggerezza, quella capacità, come Pavese diceva, di «osservare la vita
partigiana come una favola di bosco». Siamo ancora distanti dalle Favole Italiane o da Marcovaldo, ma l’approccio
mitico-fantastico al mondo è uguale.
Già in queste prime
opere la struttura narrativa si sviluppa su due piani: ad una lettura palese,
dal senso aperto a tutti e spesso umoristico, si affianca quella sotterranea,
dal senso morale critico, anche corrosivo; questa multilettura diverrà una
costante della poetica calviniana.
La sua mente agnostica
e razionale faticava a relazionarsi con una società che, per sofisticazione
continua ed esponenziale, creava sostruzioni artificiali inutili. Nella
trilogia de I nostri antenati parla
di realtà umane conflittualmente contrapposte (Il Visconte dimezzato, 1952), di contestazione delle consuetudini
sociali (Il Barone rampante, 1957),
di dolorosa ricerca della propria identità (Il
Cavaliere inesistente, 1959), sempre usando un tono allegorico-simbolico e
una prosa dalla stesura classica e scorrevole.
La crisi dell’impegno
ideologico, che coglie Calvino verso la fine degli anni ’50, e l’invasione
dell’Ungheria da parte dell’Armate Rossa, lo porta alla rottura con il PCI. Da
questa disillusione nasce la stesura di un racconto amaro come La giornata di uno scrutatore (1963),
che nelle intenzioni doveva far parte di un trilogia mai ultimata sulla crisi
degli intellettuali.
Gli anni Sessanta sono
un periodo particolare: «il mondo si è trasformato in un luogo astratto in cui
la normale comunicazione fra gli esseriumani è stata sostituita da combinazioni,
ipotesi e funzioni» (Giulio Ferroni). Si appassiona alle scienze e si
trasferisce a Parigi, da dove, poi, inizia a girare il mondo, intensamente
scrivendo e lavorando a progetti radiofonici, televisivi e cinematografici.
Quello che diviene base
della scrittura – e dunque della realtà raccontata – è lo stesso gioco
linguistico, ossia la struttura combinatoria palesemente esibita ne Il castello dei destini incrociati (1969)
e Le città invisibili (1972). La
realtà esiste solo perché raccontata, per mezzo dei tarocchi o delle parole,
elementi interscambiabili e polivalenti: c’è molto del labirintismo di Borges
in queste opere di Calvino.
La compiutezza del
fantastico combinatorio è raggiunta da Se
una notte d’inverno un viaggiatore (1979): i dieci capitoli della storia
sono altrettanti incipit di libri, esercizio di stile con i vari tipi di
romanzo (post-)moderno, spaziando dalla neoavanguardia al neorealismo. Giovanni
Casoli scriverà di come per Calvino la necessità di integrare questo testo con
la propria vita sia una parabola della necessità dei rapporti umani ma anche
dell’insufficienza intrinseca della letteratura.
Calvino muore per
emorragia cerebrale nel 1985, alla vigilia della partenza per un ciclo di
conferenze in America, per cui aveva scritto le Lezioni americane, poi edite postume.
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