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martedì 5 novembre 2013

La chiamata. Storia di un ragazzo che non sapeva sognare

Egle Palazzolo, La chiamata. Storia di un ragazzo che non sapeva sognare, postfazione di Pietro Grasso, Palermo, Istituto Poligrafico Europeo, 2012, 56 pp., (I contesti, 3), ISBN 978-88-96251-27-0.

Gaspare ha soltanto cinque anni eppure già aiuta suo padre a pascolare le pecore. Contandole, una per una, controlla se tornano tutte all’ovile e, contemporaneamente, impara la matematica. Gaspare porta anche da mangiare al padre latitante e consola la madre dopo l’omicidio di uno dei fratelli.  Eppure Gaspare è diverso dalla sua famiglia, sa di non essere come loro, non ama quella vita fatta di cose non dette, di faide, ammazzatine e violenza. E per questo si sente solo. Il suo viaggio in Argentina è una vera e propria rinascita: «era come se l’aereo fosse ventre di madre e io, scinnennu dalla scaletta, nasciva arreri» [p. 19].
Nell’interrogatorio fiume dinanzi al Giudice, costruito magistralmente da Egle Palazzotto, Gaspare appare impotente dinanzi alla mafia, fenomeno che non si sente in grado di condannare pienamente. Tutta la sua famiglia è, infatti, coinvolta in fatti di mafia: «Una pelle è la mafia, signor giudice, e pure tutto quello che sta attorno alla mafia» [p. 28]
Dunque una colpevolezza innocente la sua? È questo il nodo attorno al quale si articola la drammatica confessione di Gaspare. E, attraverso il suo ragionamento, potremmo andare a ritroso, riaccostandoci a pagine ingiallite dal tempo ma ben ferme nella memoria di ogni siciliano, da Sciascia a Falcone: il parallelismo o, se si vuole, la lacerante dicotomia tra la connivenza e la contiguità. In qualsiasi modo vogliamo analizzare il fenomeno mafioso è dal sostrato culturale che è necessario partire, concetto che è perfettamente racchiuso in quella frase di Gaspare che abbiamo riportato qualche rigo più sopra: la mafia come una pelle, ce l’hai addosso e non puoi liberartene. Un’affermazione disarmante nella sua incisività. La mafiosità è più che un atteggiamento, un costume, un modus vivendi e operandi, è una sorta di alter-ego, di cui è difficile e, in certi casi, persino impossibile spogliarsi. Così, per quanto lontano tu possa scappare, per quanto poco o per niente tu possa sentirti coinvolto nelle logiche tutte interne ai clan e alle famiglie mafiose, arriva sempre il momento della resa dei conti: obbedire a un ordine. Se sei stato scelto per uccidere, come nel caso di Gaspare, non importa chi sarà la tua vittima. Non serve sapere che la persona che stai privando della vita, non ti ha fatto nulla di male: tu devi ucciderlo perché queste sono le regole di Cosa Nostra. Una sorta di giustificazione per sola fede. La mafia stessa è senso di appartenenza ad una fede. Non risulta strano, in quest’ottica, il ricorrente ricorso da parte di boss spietati e sanguinari alla lettura della Bibbia e non è affatto raro trovare un mafioso credente. I killer di mafia uccidono senza un perché. L’omicidio non è uno strumento di vendetta personale, se così fosse non ci sarebbe motivo di assoldare degli esecutori materiali. Il killer esegue degli ordini, molto spesso sa poco o nulla della persona che sta eliminando o delle ragioni del delitto. Né è tenuto a conoscerli perché la consapevolezza del movente costituirebbe, di per sé, un rischio per Cosa Nostra.
Poi ci sono le donne in questo racconto di Egle Palazzolo. C’è la fidanzata di Gaspare, Rosaria, quell’altrove in cui diventa possibile ripartire da zero. E poi c’è la madre. Una donna talmente assoggettata alle regole della famiglia mafiosa cui appartiene, da non essere in grado di proteggere quel figlio diverso, che, nel passato, aveva persino spinto ad andarsene, a cercare fortuna altrove. Non c’è nulla di Felicia Impastato nella madre di Gaspare e, forse, di donne come Felicia, tra quelle che fanno parte di famiglie di mafia, ce ne sono troppo poche. Troppe volte i figli diventano agnelli sacrificali: pensiamo alla madre di Rita Atria, solo per fare un esempio, allo sconvolgente cinismo con cui decide di ripudiare la figlia e di mandarla a morire sola, in uno schema che segue un percorso del tutto innaturale rispetto a quello classico e tradizionale della relazione madre-figlia. Ed è in questo che la mafia acquista quel ruolo aggregante tipico delle religioni. Di sacrifici umani sono piene Mitologia e Sacre Scritture.
Il racconto-confessione di Egle Palazzolo è capace di liberare infinite riflessioni non solo sul fenomeno mafioso, ma anche sul senso stesso del nostro stare al mondo. Nei tre personaggi del racconto (Gaspare, la madre e il Giudice) possiamo riconoscere pezzi importanti della storia siciliana. Attraverso i loro atteggiamenti e le loro parole, possiamo ripercorrere a ritroso le tappe fondamentali del lungo cammino compiuto fino ad oggi, tanto dalla criminalità organizzata quanto dalle istituzioni. Un percorso non sempre nettamente diviso, spesso intrecciato in un pesante intersecarsi di scambi, complicità e connivenze. Ma anche una storia di speranza, di lotta e di successi.
Combattere la mafia è prima di tutto una sfida sul piano culturale, è un lungo e complesso viaggio per restituire ai bambini il loro diritto all’innocenza e al sogno. Gaspare avrebbe potuto salvarsi se – come ci dice il titolo del libro – fosse stato capace di sognare. Alla società e alle istituzioni spetta il compito di insegnare ai bambini la bellezza del volo, la potenza dell’immaginazione, la forza delle idee, il rispetto dei valori.


Alessandra Mangano



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