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mercoledì 5 giugno 2013

La versione di Barney



Mordecai Richler, La versione di Barney, Milano, Adelphi, 2004, 490 pp., ISBN 978-88-459-1570-3.

"Senti, Miriam è a Toronto, e tu sei qui. Divertiti un po'".
"Non capisci".
"No, sei tu che non capisci. Alla mia età non rimpiangerai
le marachelle che hai fatto, ma quelle che non hai fatto".


C'è questo tizio di circa sessant'anni, non troppo straordinario, che nella sua vita ha vissuto un po' di eventi straordinari. Si chiama Barney ed è canadese. Di Montréal, per la precisione. Ha avuto tre mogli, di cui una (la prima) morta suicida, un amico, tanto genio quanto fallito, della cui scomparsa è stato accusato, e soprattutto ha frequentato, durante la sua bohème parigina, un tizio che ha avuto la ventura di diventare uno scrittore famoso e la pessima idea di scrivere un libro di memorie (Il tempo, le febbri – il titolo lascia intendere con miracolosa chiarezza di che razza di scrittore stiamo parlando), pieno di menzogne su Barney. O almeno: menzogne a detta di Barney. Che decide, quindi, di mettersi a scrivere a sua volta (infrangendo un solenne giuramento) per stendere la propria autobiografia. Ossia, la propria versione della propria vita.
Se Barney racconti bugie o meno, non ci è dato saperlo. Che sia sincero, invece, è una certezza.
Nel suo ultimo lavoro, dato alle stampe nel 1997 (2001 in Italia), Mordecai Richler (1931-2001) celebra la vita nella sua pienezza contraddittoria, fatta di gioia e dolore, povertà e ricchezza, amore e tradimento, giovinezza e vecchiaia, memoria e oblio. Presta al suo protagonista una serie di vizi, tratti biografici, visioni del mondo e tic che gli sono propri (il whisky, i sigari, l'origine ebraica, l'umile estrazione sociale, la verve polemica, per nominarne alcuni) e crea un personaggio a cui manca soltanto un documento d'identità perché si crei la ressa di ambasciatori che vogliono offrirgli la cittadinanza onoraria della propria nazione.
Molti hanno visto nella vita di Barney una autobiografia romanzata e camuffata di Richler, dimentichi del fatto che, per scrivere un libro come questo, con un personaggio così fortemente caratterizzato, bisogna pur attingere da qualche parte; e da dove, se non dalla propria vita?
Certe cose si imparano leggendo, altre semplicemente vivendo: si può imparare dalle pagine di un libro come si convive per una vita col senso di colpa per aver causato il suicidio di una donna fragile e insopportabile che si è sposata più per dovere che per amore?
Si può imparare come sopprimere il rimorso per avere dilapidato un patrimonio inestimabile di sentimenti tradendo l'unica, straordinaria donna che si sia mai realmente amata?
Si può capire come ci si sente a vedere il più dotato dei propri amici, quello per il cui talento si prova la più smisurata ammirazione e la più sfrenata soggezione, affannarsi ostinatamente a trasformare se stesso nelle macerie di ciò che avrebbe potuto essere? E che profonda antipatia si può arrivare a provare per un altro che, sopperendo con l'ostinazione al talento, diviene un'istituzione della letteratura inglese contemporanea?
No. Ma Richler dimostra, una volta per tutte, che uno scittore realmente bravo può agevolare notevolmente il lettore in un'impresa del genere. Uno scrittore realmente bravo e di una certa età. O, quantomeno, con una buona dose di vissuto alle spalle. Chi scrive propende per la prima ipotesi: certi libri si possono scrivere, senza cadere nel manierismo, solo dopo aver vissuto un certo numero di anni.
È innegabile che, lasciandosi trasportare dalla prosa equilibrata e raffinata dell'autore canadese, caratterizzata da periodi a volte anche ampi, ma mai prolissi, trasudante cultura ma senza accenni di cedimento alla stucchevolezza, venga quasi da pensare “questo tizio vorrei conoscerlo e sentirlo parlare per ore”, sorprendendosi nel ricordare che il tizio in questione non esiste. E, meglio ancora (forse il risultato migliore che un certo tipo scrittore possa auspicarsi), la lettura di certe pagine dense di battute fulminanti e personaggi delineati con pochi, essenziali tratti, riempie il lettore di una insopprimibile voglia di guadagnare la porta di casa e ficcarsi nel folto della vita, nella folla di personaggi, il più possibile simili a quelli del libro, che ognuno sa dove trovare, se conosce veramente certi luoghi della propria città.
E, a proposito di città, anche questo romanzo di Richler è ambientato a Montréal, sua città natale, della cui evoluzione, nel corso delle proprie opere, ha steso un ritratto vivissimo, partendo dal nucleo della comunità ebraica (di personaggi che vi appartengono, di termini Yiddish, di ironia giudaica sono pieni tutti i suoi libri, compresso quello in questione), a volte limitandosi ad essa, altre (come in questo caso) con uno sguardo rivolto all'esterno (le vicende narrate si svolgono in due continenti).
Nonostante Barney sia schifosamente ricco e notevolmente scafato, deve arrendersi alla malattia che lo priverà dell'ultimo, persa la moglie e l'intimità dei figli, tesoro che gli rimane: la memoria. Ebbene sì, il nostro soffre di alzheimer. E Richler ha sparso indizi lungo tutta la storia, tanto che, ad un certo punto, terminare la sua autobiografia diverrà per Barney una lotta contro il tempo. Per nostra fortuna, il personaggio di Richler la vince. Altrimenti, senza nessuno a raccontarla, sarebbe stato un po' come quando Boogie (l'amico idolatrato da Barney) racconta l'incipit del suo, eternamente incompiuto, romanzo:
(...) il protagonista sbarcava dal Titanic, approdato senza incidenti al molo di New York dopo una traversata inaugurale. E qui veniva abbordato da una cronista, che voleva sapere come era stato il viaggio.
Risposta: “Noiosissimo”.

Dan Skorsky


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