Visualizzazioni totali

mercoledì 5 marzo 2014

L'invenzione della virilità

Sandro Bellassai, L'invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell'Italia contemporanea, Roma, Carocci Editore, 2011, 181 pp., ISBN 9788843061501.

Molto interessante questo libretto di 200 pagine che, in maniera snella e autorevole, documentata e rigorosa ma di facile lettura, ricostruisce più di un secolo di storia italiana dal punto di vista del maschio “moderno”. L'autore di questo libro, pubblicato nel 2011 da Carocci Editore, è Sandro Bellassai, che insegna storia sociale e culturale all'Università di Bologna. La storia è quella del “virilismo”, ovvero l'ideologia della mascolinità, un -ismo che come tutti gli -ismi è artificio, costruzione, forzatura. E che nasce dalla paura. Il virilismo è quell'impalcatura retorica che il maschio ha dovuto crearsi davanti all'avanzata della modernità – che sovvertiva e rivoluzionava tutto, compreso il rapporto tra i sessi – per restare aggrappato ai suoi privilegi.
Un esempio è quello della superiorità fisica del maschio, che con la rivoluzione industriale e la conseguente meccanizzazione del lavoro di fine Ottocento, cessò – lentamente ma inesorabilmente – di essere fonte di legittimazione del patriarcato e della superiorità maschile all'interno del sistema sociale. Lavorare con le mani, lavorare col corpo, diventò sempre più inutile (si potrebbe dire: “tanto ci sono le macchine che fanno tutto”) e il vero potere – insomma – prese strade diverse rispetto a quelle della forza fisica. Ecco così che quel che non ebbe più senso all’interno del mondo – ma che restò, come retaggio nostalgico, abitudine che è difficile dimenticare, rievocazione di tempi passati e distortamente gloriosi – diventò immediatamente posa, esibizione, ostentazione.
Questo è il virilismo, dunque. La cura del corpo fine a se stessa (le palestre e le associazioni di ginnastica nascono in Europa proprio a fine Ottocento) ma sopratutto l'esaltazione di tutte quelle caratteristiche intese come “specificatamente maschili”: aggressività, forza, violenza, prevaricazione, comando, gerarchia. Caratteristiche che, con l'avanzare della modernità meccanizzata, rischiavano di perdersi del tutto. Ma non è solo questo. In ballo c'era tutto un ordine sociale basato sul patriarcato, tutto il vecchio regime che sembrò sempre più superato, anacronistico. Non a caso le prime rivendicazioni “femministe” (come il movimento delle suffragette inglesi) nacquero proprio in questo periodo.
In questa cornice, Bellassai ci racconta dell'Italia, passando il rassegna le fasi di sviluppo – ascesa, trionfo e crollo – del virilismo nostrano.
C'è il colonialismo, innanzitutto, fin dai tempi di Giolitti, che rappresentò per i maschi italiani un'opportunità per mostrare il proprio “vigore” contro le razze inferiori (il razzismo, scrive Bellassai, è il rovescio della medaglia del maschilismo: è un diritto sopraffare la razza inferiore così come è un diritto sopraffare il sesso inferiore). Il colonialismo italiano, spesso raccontato in modo mellifluo e indulgente, fu invece qualcosa di decisamente crudele e violento e portò, tra l'altro, a una legislazione colonialista foriera del concetto giuridico di “razza” e di “gerarchia di razza”, seconda per crudeltà solo alle legislazioni nazista e sudafricana.
C'è il futurismo, che fece della virilità, della violenza, della sopraffazione, dell'orrore per la mollezza e l'effeminatezza, una mitologia simbolica e teorica.
E poi c'è il trionfo del virilismo in Italia, durante il ventennio fascista, con la sua esplosione retorica e scenografica della mascolinità, le sue parate, le sue dimostrazioni ginniche, le sue politiche per l'incremento della natalità (la donna come moglie e madre), il suo puntare ancora di più sul colonialismo, nel sogno grottesco e fuori-tempo-massimo di un “impero italiano”.
Il declino del virilismo, per l'autore, si registrò dalla fine del fascismo in poi, con l'Italia investita dal “nuovo mondo” simbolico e culturale del consumismo americano e il rilassamento dei costumi conseguente il boom economico degli anni '50. Il colpo di grazia fu nel '68 e negli anni '70. Il movimento giovanile di quel periodo fu il primo movimento collettivo in cui maschi e femmine – soprattutto nelle università – stavano fianco a fianco, in una parità fattuale. Infine l'exploit internazionale – a livello teorico e politico – del movimento femminista, mentre l'Italia entra definitivamente nella modernità tagliando il cordone ombelicale col Vaticano e portando la secolarizzazione della società al suo punto di non ritorno grazie ai referendum su divorzio e aborto.
Poi ci sono gli anni '80 e i decenni successivi, il riflusso nel privato, il crollo del muro di Berlino e delle entità collettive, la disillusione politica, il nuovo edonismo e la nuova etica individualistica e aziendalistica. Nacque il nuovo mito dell' “uomo di successo” che in qualche modo fornì nuovi elementi di legittimazione per l'identità maschile, altre cose a cui aggrapparsi (competizione, performance, aggressività, gerarchia).
Bellassai tratteggia a grandi linee – con una capacità di sintesi degna di nota – la trasformazione del dibattito pubblico in senso “pubblicitario” avvenuta in questa ultima fase storica. Non più ragionamenti, teorie, enfasi retorica, scenografia – come nel caso del fascismo – ma velocità comunicativa, frammenti di discorso, slogan, ironia. La tendenza generale del discorso pubblico – di qualunque tipo: sociale, politico, culturale – di trasformarsi in un flusso continuo di stereotipi e luoghi comuni da utilizzare con dinamiche che sono sempre più simili a quelle del marketing e della pubblicità.
In questo contesto, non ha più senso parlare di “virilismo”, perché non siamo più davanti ad un'ideologia, ma è innegabile che nelle rappresentazioni stereotipate delle pubblicità, dei film, delle serie tv e di tutta la “produzione culturale” si registrino rigurgiti di maschilismo, misoginia, omofobia che sono segno di un ambiente simbolico pieno di dinamiche contraddittorie, scontri, resistenze e slanci in una direzione o nell'altra.
In tutto questo, c'è l'identità maschile che è tutta da ridefinire, in piena crisi, però ormai libera dalla zavorra del virilismo. Nascono riviste come Men's Healt e c'è il boom di vendite per i prodotti di cosmetica maschile. Il maschio in crisi diventa settore di mercato. L'autore focalizza nei protagonisti del film Full Monty del 1997 – operai rimasti disoccupati che decidono di diventare spogliarellisti, da soggetto desiderante a oggetto del desiderio – la perfetta metafora dell'uomo di oggi. Il maschio nudo, spogliato di ogni legittimazione sociale e politica, con i propri ruoli tradizionali (padre, marito, lavoratore) perennemente messi in discussione, e la possibilità di esplorare nuove formule e nuovi assetti psichici e sociali.


Nino Fricano



Nessun commento:

Posta un commento