Sandro Bellassai, L'invenzione della virilità. Politica e
immaginario maschile nell'Italia contemporanea, Roma, Carocci Editore,
2011, 181 pp., ISBN 9788843061501.
Molto interessante questo libretto di 200 pagine che, in maniera snella e
autorevole, documentata e rigorosa ma di facile lettura, ricostruisce più di un
secolo di storia italiana dal punto di vista del maschio “moderno”. L'autore di
questo libro, pubblicato nel 2011 da Carocci Editore, è Sandro Bellassai, che
insegna storia sociale e culturale all'Università di Bologna. La storia è
quella del “virilismo”, ovvero l'ideologia della mascolinità, un -ismo che come tutti gli -ismi è artificio, costruzione,
forzatura. E che nasce dalla paura. Il virilismo è quell'impalcatura retorica
che il maschio ha dovuto crearsi davanti all'avanzata della modernità – che
sovvertiva e rivoluzionava tutto, compreso il rapporto tra i sessi – per
restare aggrappato ai suoi privilegi.
Un esempio è quello della superiorità fisica del maschio, che con la
rivoluzione industriale e la conseguente meccanizzazione del lavoro di fine
Ottocento, cessò – lentamente ma inesorabilmente – di essere fonte di
legittimazione del patriarcato e della superiorità maschile all'interno del
sistema sociale. Lavorare con le mani, lavorare col corpo, diventò sempre più
inutile (si potrebbe dire: “tanto ci sono le macchine che fanno tutto”) e il
vero potere – insomma – prese strade diverse rispetto a quelle della forza
fisica. Ecco così che quel che non ebbe più senso all’interno del mondo – ma
che restò, come retaggio nostalgico, abitudine che è difficile dimenticare,
rievocazione di tempi passati e distortamente gloriosi – diventò immediatamente posa, esibizione,
ostentazione.
Questo è il virilismo, dunque. La cura del corpo fine a se stessa (le
palestre e le associazioni di ginnastica nascono in Europa proprio a fine
Ottocento) ma sopratutto l'esaltazione di tutte quelle caratteristiche intese
come “specificatamente maschili”: aggressività, forza, violenza,
prevaricazione, comando, gerarchia. Caratteristiche che, con l'avanzare della
modernità meccanizzata, rischiavano di perdersi del tutto. Ma non è solo
questo. In ballo c'era tutto un ordine sociale basato sul patriarcato, tutto il
vecchio regime che sembrò sempre più superato, anacronistico. Non a caso le
prime rivendicazioni “femministe” (come il movimento delle suffragette inglesi)
nacquero proprio in questo periodo.
In questa cornice, Bellassai ci racconta dell'Italia, passando il
rassegna le fasi di sviluppo – ascesa, trionfo e crollo – del virilismo
nostrano.
C'è il colonialismo, innanzitutto, fin dai tempi di Giolitti, che
rappresentò per i maschi italiani un'opportunità per mostrare il proprio
“vigore” contro le razze inferiori (il razzismo, scrive Bellassai, è il
rovescio della medaglia del maschilismo: è un diritto sopraffare la razza
inferiore così come è un diritto sopraffare il sesso inferiore). Il
colonialismo italiano, spesso raccontato in modo mellifluo e indulgente, fu
invece qualcosa di decisamente crudele e violento e portò, tra l'altro, a una
legislazione colonialista foriera del concetto giuridico di “razza” e di
“gerarchia di razza”, seconda per crudeltà solo alle legislazioni nazista e
sudafricana.
C'è il futurismo, che fece della virilità, della violenza, della
sopraffazione, dell'orrore per la mollezza e l'effeminatezza, una mitologia simbolica e teorica.
E poi c'è il trionfo del virilismo in Italia, durante il ventennio
fascista, con la sua esplosione retorica e scenografica della mascolinità, le
sue parate, le sue dimostrazioni ginniche, le sue politiche per l'incremento
della natalità (la donna come moglie e madre), il suo puntare ancora di più sul
colonialismo, nel sogno grottesco e fuori-tempo-massimo di un “impero
italiano”.
Il declino del virilismo, per l'autore, si registrò dalla fine del
fascismo in poi, con l'Italia investita dal “nuovo mondo” simbolico e culturale
del consumismo americano e il rilassamento dei costumi conseguente il boom
economico degli anni '50. Il colpo di grazia fu nel '68 e negli anni '70. Il
movimento giovanile di quel periodo fu il primo movimento collettivo in cui
maschi e femmine – soprattutto nelle università – stavano fianco a fianco, in
una parità fattuale. Infine l'exploit internazionale – a livello teorico e
politico – del movimento femminista, mentre l'Italia entra definitivamente
nella modernità tagliando il cordone ombelicale col Vaticano e portando la
secolarizzazione della società al suo punto di non ritorno grazie ai referendum
su divorzio e aborto.
Poi ci sono gli anni '80 e i decenni successivi, il riflusso nel privato,
il crollo del muro di Berlino e delle entità collettive, la disillusione
politica, il nuovo edonismo e la nuova etica individualistica e aziendalistica.
Nacque il nuovo mito dell' “uomo di successo” che in qualche modo fornì nuovi
elementi di legittimazione per l'identità maschile, altre cose a cui
aggrapparsi (competizione, performance, aggressività, gerarchia).
Bellassai tratteggia a grandi linee – con una capacità di sintesi degna
di nota – la trasformazione del dibattito pubblico in senso “pubblicitario”
avvenuta in questa ultima fase storica. Non più ragionamenti, teorie, enfasi
retorica, scenografia – come nel caso del fascismo – ma velocità comunicativa,
frammenti di discorso, slogan, ironia. La tendenza generale del discorso
pubblico – di qualunque tipo: sociale, politico, culturale – di trasformarsi in
un flusso continuo di stereotipi e luoghi comuni da utilizzare con dinamiche
che sono sempre più simili a quelle del marketing e della pubblicità.
In questo contesto, non ha più senso parlare di “virilismo”, perché non
siamo più davanti ad un'ideologia, ma è innegabile che nelle rappresentazioni
stereotipate delle pubblicità, dei film, delle serie tv e di tutta la
“produzione culturale” si registrino rigurgiti di maschilismo, misoginia,
omofobia che sono segno di un ambiente simbolico pieno di dinamiche
contraddittorie, scontri, resistenze e slanci in una direzione o nell'altra.
In tutto questo, c'è l'identità maschile che è tutta da ridefinire, in
piena crisi, però ormai libera dalla zavorra del virilismo. Nascono riviste
come Men's Healt e c'è il boom di
vendite per i prodotti di cosmetica maschile. Il maschio in crisi diventa
settore di mercato. L'autore focalizza nei protagonisti del film Full Monty del 1997 – operai rimasti
disoccupati che decidono di diventare spogliarellisti, da soggetto desiderante
a oggetto del desiderio – la perfetta metafora dell'uomo di oggi. Il maschio
nudo, spogliato di ogni legittimazione sociale e politica, con i propri ruoli
tradizionali (padre, marito, lavoratore) perennemente messi in discussione, e
la possibilità di esplorare nuove formule e nuovi assetti psichici e sociali.
Nino Fricano
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