Raymond Carver,
Cattedrale, Torino, Einaudi, 2011, 229
pp., ISBN 978-88-06-19785-8.
La Einaudi ha deciso di ripubblicare le opere di
Raymond Carver, scomparso a cinquant’anni nel 1988; questa raccolta di dodici
racconti brevi, uscita originariamente nel 1983, è stata
sempre considerata – anche dallo stesso autore – la summa del suo stile.
Premetto che ho sempre apprezzato, di per sé, la
formula dei racconti, brevi narrazioni autoconcluse, che difficilmente perdono
mordente e ispirazione in lungaggini. Non sono più ‘facili’ da comporre, perché
devono riuscire significanti in breve spazio e necessitano di talento. I temi
qui affrontati, seri e impegnativi, sono quelli del disagio, della
incomunicabilità e fragilità umana. Sono le storie che potrebbero stare dietro
ai quadri di Hopper, in cui non c’è catarsi o consolazione ma storie crude
nella loro quotidianità. Però se nei quadri di Hopper è padrone il silenzio, in
queste storie c’è sotteso lo stridio di fondo di una continua macerazione
interna.
Non è un libro facile da leggere: è scritto molto
bene e risucchia il lettore nella narrazione, ma è sconsigliabile per chi non è
sereno. Vitamine è, ad esempio, la storia di un adulterio mancato,
nell’indifferenza assoluta degli stessi protagonisti, che affogano nel whiskey
la loro desolazione. Il treno narra di solitudini diverse che possono
sfiorarsi fin quasi a collidere, quasi a volersi spiegare a vicenda, per poi
procedere parallele senza mai toccarsi. Ma ancora intervengono i disturbi
psicologici di un reduce dal Vietnam, la minaccia della disoccupazione e dello
sfratto, il dolore immane di un lutto, le normali atrocità della vita:
atemporali, immotivate, banali. Cattedrale, il racconto che intitola e
chiude la raccolta, è invece uno spiraglio in cui si mostra una possibilità di
contatto. È la storia dell’incontro di un uomo con l’amico di sua moglie,
ospite per una notte in casa loro. La coppia resterà anonima e inqualificata
per tutto il racconto ("mio marito", "cara",
"caro", "lei"…): «Ho aspettato invano di sentire il mio
nome pronunciato dalle dolci labbra di mia moglie: ‘E poi è entrato in scena il
mio caro maritino ...’ o qualcosa del genere. Ma niente da fare. Si è parlato
sempre di Robert» [p. 216]. Solo
dell’ospite dunque si sa il nome, il lavoro, l’aspetto fisico, ma anche che è
vedovo, simpatico e soprattutto cieco. Questa menomazione mette in imbarazzo il
protagonista, prevenuto e confuso con il diverso, con cui non sa come
relazionarsi. Ma è Robert a sciogliere il ghiaccio: con la sua immediatezza,
trasforma una semplice conversazione disimpegnata in un contatto vero, quando
chiede al suo ospite di descrivergli una cattedrale gotica. Le parole non sono
sufficienti, e allora il cieco chiede all’amico che gli disegni la cattedrale
su carta, mentre lui gli tiene la mano: dal semplice contatto fisico, nasce
incredibilmente una coinvolgente trasmissione empatica che induce fiducia,
comunicazione, allegria. Carver sa davvero come coinvolgere il lettore.
Eloisia
Tiziana Sparacino
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