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mercoledì 5 marzo 2014

Storie d'Europa

Marcello Verga, Storie d’Europa. Secoli XVIII-XXI, Roma, Carocci Editore, 2004, 222 pp. ISBN 88-430-2780-8.

È oggi in atto una discussione, ancora tutta aperta, sull’Europa. Alla vigilia delle elezioni del prossimo maggio, in cui si deciderà che impronta dare a questa variegata e complessa realtà, ci misuriamo con la percezione che dell’Europa hanno gli europei e coloro i quali invece non lo sono ancora ufficialmente e magari auspicano di entrarne a far parte. Le diverse spinte – in alcuni casi attrattive, in altri di vera e propria repulsione – sono lo specchio reale del ruolo che il Vecchio Continente riveste, oggi, nella quotidianità dei cittadini europei.
Non si può certo affermare che questa discussione sia un fatto nuovo e relazionato alle contingenze storiche, poiché sull’Europa gli studiosi si interrogano da secoli, cercando di rispondere a due domande fondamentali: Cos’è l’Europa? Come e perché scrivere la storia d’Europa?
Come ci dice nell’introduzione Marcello Verga – Professore ordinario di Storia Moderna presso l’Università degli Studi di Firenze – questo volume non è soltanto un libro sulle storie d’Europa, scritte dalla metà del XVIII secolo a oggi, ma anche un tentativo di definizione dell’idea di Europa, in quanto essa è prima di tutto un’idea di civiltà [p. 9]. L’interesse dell’autore però non è rivolto alle possibili risposte, quanto piuttosto alla storia dei differenti significati che le domande e le risposte hanno avuto nei vari periodi che intercorrono dal XVIII al XXI secolo.
Uno dei primi temi su cui bisogna soffermarsi, quando si parla d’Europa, è quello relativo alle differenze nazionali, elemento molto importante già a partire dal XVIII secolo. Questa analisi reca in sé una duplice riflessione per certi versi opposta e complementare: l’Europa come insieme di nazioni che condivide una storia e una civiltà e l’Europa divisa in nazioni diverse tra loro dal punto di vista delle tradizioni, delle leggi e dei costumi. Tra Seicento e Settecento, infatti, si è diffusa l’idea di un’Europa frazionata su due assi: uno nord-sud e l’altro ovest-est. Entrambi questi assi sono la rappresentazione di un continente a due velocità. Nel primo caso siamo di fronte ad un’Europa mediterranea arretrata dal punto di vista economico, sociale e culturale a causa del «malgoverno spagnolo e della Chiesa della Controriforma» [p. 16] in opposizione a un’Europa settentrionale più avanzata e stabile; nel secondo caso invece abbiamo un’Europa occidentale, protagonista vera e assoluta della storia europea e della sua civiltà, in contrapposizione a un’Europa – quella orientale – quasi non europea, una sorta di «oriente europeo dell’Europa» [p. 17].
Dinanzi a tale scissione qual è la storia dell’Europa e quali le sue radici? A questa domanda provano a rispondere in tanti, a cominciare da Montesquieu e Voltaire: il primo inserendo il proprio ragionamento nel confronto continuo tra Vecchio Continente e Asia, dal quale, peraltro, trae le differenze tra dispotismo e governo moderato, tra schiavitù e libertà; il secondo partendo dall’idea di una grande repubblica composta da diversi stati, con diverse forme di governo, accomunati da una stessa religione, seppur divisa e «con gli stessi principi di diritto pubblico e di politica, ignoti nelle altre parti del mondo» [p. 19].
È per William Robertson, invece, che la storia d’Europa prende avvio dai barbari i quali occupano i luoghi che fino a quel momento sono appartenuti all’Impero romano d’Occidente. I barbari infatti introducono nuove forme politiche, sconosciute fino a quel momento: tra queste la più importante è proprio il sistema feudale caratteristico non solo di tutti i loro regimi, ma anche dell’Europa medievale e moderna. Le crociate, dal canto loro, offrono ai partecipanti la possibilità di conoscere nuove città, dando vita a importanti processi sociali e culturali oltre che economici.
Tanto Voltaire, quanto Robertson, Hume e Gibbon, sono concordi nel sostenere che le origini dell’Europa moderna non vadano ricercate nell’Impero romano ma nei popoli del Nord e nel risultato del loro incontro con il cristianesimo.
Tra Settecento e Ottocento cominciano poi a diffondersi i concetti di popolo, nazione e nazionalità che diventeranno presto patrimonio della cultura e della sensibilità politica europea. Contestualmente, nello stesso periodo, l’Europa e l’idea di una civiltà europea, sono temi che perdono la centralità avuta sino a quel momento.
Fu François Guizot a riprendere l’analisi del significato di una civiltà europea che, sebbene fosse indubbiamente reale nell’unità di certi caratteri, allo stesso tempo però presentava anche una certa varietà, con caratteristiche differenti da ricercare nelle storie dei diversi paesi europei. Egli, ad esempio, riconosceva alla Francia un ruolo centrale nella formazione della civiltà europea.
Cosa identificava però questa civiltà? Secondo Guizot civiltà e libertà sono valori prettamente europei e in essi dunque vanno riconosciute la storia e la civiltà d’Europa.
Dal mondo romano, innanzitutto, la civiltà europea moderna ha ereditato moltissimi elementi che la contraddistinguono: dalle città – che con le sue regole e abitudini, hanno sancito il principio di libertà – al potere imperiale, principio di ordine e servitù [p. 41]. Vi è poi la Chiesa cristiana e non – si badi bene – il cristianesimo: l’organizzazione e la capacità di affermazione della Chiesa riescono a rappresentare infatti «uno strumento di tenuta morale e di ordine sociale e politico nello sfascio dei poteri determinato dalla caduta dell’Impero d’Occidente» [p. 42].
Ai barbari – continua ancora Guizot – gli europei devono invece l’esercizio della libertà personale.
Il primo grande evento di questa Europa – i cui caratteri fondamentali sono proprio la Chiesa, le città, la monarchia – sono le crociate, senza le quali, afferma Guizot, non esiste l’Europa.
Quindi l’idea di Europa è strettamente legata all’esistenza di una molteplicità di culture – ellenistica, romana, celtica e germanica. Del resto «morte sicura è per l’Europa se tutto è ricondotto sempre e solo all’unità» diceva Burckhardt [p. 48].
È a Henri Pirenne che dobbiamo comunque una profonda riflessione sul senso di un’idea di Europa in quanto Europa delle nazioni e degli Stati e sull’importanza dei sentimenti di appartenenza nazionale nel delinearsi di una storia e di una civiltà europee. Lo storico belga fa partire questa riflessione dal primo conflitto mondiale. Dalla sua analisi emerge come la storia e la chimica siano state le due vere protagoniste della guerra: la prima per averle fornito esplosivi e gas, laddove la seconda, invece, aveva portato giustificazioni e scuse [p. 56]. Ovviamente la provocazione di Pirenne mira a una riflessione più approfondita sul ruolo che gli intellettuali e gli studiosi ebbero nel preparare il clima culturale che portò alla guerra. In particolare, gli storici tedeschi giustificano l’invasione del Belgio da parte del loro Stato.
Per Pirenne ci sono comunque dei punti cruciali nella storia Europea che vanno ben oltre il crollo dell’Impero romano d’occidente e l’avvento dei barbari. Innanzitutto c’è la rottura dell’unità del mondo mediterraneo e la separazione tra Occidente e Oriente, determinata dall’invasione musulmana del Mediterraneo e di alcune regioni europee; seguono poi la dissoluzione dell’Impero carolingio al quale è strettamente legata l’elaborazione della civiltà occidentale «destinata a diventare la civiltà del mondo intero» [p. 63], il feudalesimo, la lotta per le investiture e, infine, le crociate dalle quali viene fuori l’Europa dei commerci, dei mercanti e della borghesia.
In questo contesto si articola la riflessione sull’Europa e sulla Germania che Pirenne elabora durante gli anni di prigionia. È proprio a partire dalle posizioni degli storici tedeschi, volte nella maggior parte dei casi a giustificare l’invasione del Belgio da parte della loro nazione, che Pirenne si convince fermamente che la separazione tra potere e ceto intellettuale, tra governo e cultura che l’Europa aveva ereditato dalla Rivoluzione francese, fosse sconosciuta alla società tedesca. È forse questa la ragione per la quale lo storico belga decide di escludere gli storici tedeschi dai lavori del V Congresso internazionale di scienze storiche, svoltosi immediatamente dopo la fine del conflitto.
Nei fatti comunque, La Storia d’Europa che Pirenne scrive in carcere, rimane incompiuta. Secondo Verga le ragioni di questa interruzione sono da ricercare proprio nell’idea di un’Europa la cui identità è strettamente riconoscibile nell’affermarsi degli Stati nazionali. Lui stesso esalta e difende l’indipendenza del Belgio e smentisce categoricamente le pretese del pangermanesimo. Ecco dunque che – in relazione al dramma del suo tempo che lui stesso si ritrova a vivere pienamente da prigioniero – quella stessa idea di nazione e nazionalità che non esita ad esaltare nel caso del Belgio, finisce per trasformarsi in una vera e propria contraddizione, dinanzi allo specialismo della storiografia tedesca e alla diretta espressione di uno sciovinismo estremo che arriva ad ipotizzare perfino un’origine germanica della civiltà europea.
La diffusione di un interesse molto spiccato per le storie nazionali, specie a partire dall’Ottocento, non entra mai in contrasto con la storia d’Europa. Anzi, questa attitudine significa presto il riconoscimento di un'idea di Europa basata su un ‘sistema di Stati’ «destinati a lottare uno contro l’altro per l’affermazione dei loro interessi e delle loro ambizioni» [p. 49].
Nel primo dopoguerra si ridisegna l’immagine politica e culturale di un’Europa: accanto alla tradizionale Europa occidentale, cominciano a delinearsi la Russia della Rivoluzione d’ottobre da una parte ed un’Europa orientale contrapposta ad essa.
Dopo il primo conflitto mondiale, pertanto, l’idea di una storia della civiltà europea – con riferimento esplicito alla parte occidentale dell’Europa e agli Stati nazionali che si erano formati al suo interno – cessa di esistere. Si diffonde l’esigenza di una storia d’Europa coniugata al plurale rivendicata, peraltro, da molti storici tra i quali il rumeno Nicola Iorga che insiste, ad esempio, sull’importanza che Bisanzio ebbe sulla storia dell’Europa occidentale.
È negli anni Trenta del Novecento, invece, che il cosiddetto principio dell’equilibrio – diffusosi già a partire dal Rinascimento – si fa strada in molti storici, tra i quali Chabod. Ed è attraverso tale principio che è possibile regolare i rapporti tra i vari Stati nazionali «ben differenziati [e] ben consci della loro pienezza di sovranità» [p. 94]. Questo equilibrio aveva sempre garantito lo svolgimento della storia Europea nel corso dei secoli e, sempre secondo Chabod, a questo stesso equilibrio bisognava fare ricorso per far sì che tale svolgimento continuasse anche nel XX secolo, in un momento di grande crisi dell’Europa. Il Vecchio Continente, a cavallo tra i due conflitti mondiali, non ha più il primato nel controllo del mondo. Al suo posto nuove potenze, tra tutte gli Stati Uniti e alcune realtà asiatiche, esercitano adesso un ruolo importante.
Alle storie d’Europa come storie di equilibrio tra potenze e di rivalità tra le nazioni, Croce opporrà con la sua Storia d’Europa nel secolo XIX, uscita nel 1932, l’idea di un’Europa in cui prevale l’affermazione di un progetto di pace e cooperazione politica tra i vari Stati. Questa impostazione contribuisce al diffondersi di un concetto d’Europa legato ad una visione di speranza per il futuro: l’Europa diventa un rifugio contro nazionalismi e totalitarismi.
È ad Halecki infine che si deve la proclamazione della fine della storia Europea e dell’inizio della storia Atlantica, posizione questa che verrà condivisa da molti altri storici. Fino agli anni novanta del XX secolo e alla caduta del blocco sovietico, la riflessione sull’Europa ruota tutta attorno all’affermazione dei valori dell’Occidente (libertà, democrazia, capitalismo e libertà d’impresa) in contrapposizione all’esperienza dei regimi comunisti. Ma questo dibattito è tutto interno alla società occidentale e si priva dunque del punto di vista degli storici dei paesi dell’Europa centro-orientale.
In contrapposizione ai totalitarismi del Novecento (Nazismo e Comunismo sovietico) si comincia a fare strada l’idea di un’Europa dalle radici cristiane. La Chiesa diventa in quest’ottica il baluardo della società occidentale e dei suoi valori.
È ovvio che a questa visione si contrapporrà, successivamente, l’idea di un’Europa laica e tollerante, l’Europa dell’Umanesimo, della libertà e dell’Illuminismo.
Nelle conclusioni di questo lungo excursus, Verga ci tiene a sottolineare che il lavoro degli storici europei sulla storia d’Europa è fatto in gran parte da nativi dell’Europa occidentale. Dunque si tratta sempre di una visione parziale della realtà che già reca in sé un’idea univoca di Europa. Se a questo si aggiunge anche il fatto, tutt’altro che secondario, secondo cui l’Europa è stata prima di tutto «una realtà storicamente variabile nel tempo» [p. 147], allora è facile comprendere come mai appaia molto complesso scrivere una storia comune degli europei, malgrado innumerevoli siano stati negli ultimi anni i tentativi da parte di politici e studiosi.
 Se impossibile dunque appare il ricorso alla storia «per esaltare o rivendicare pretese “radici comuni” d’Europa» [p. 179], meglio sarebbe, secondo Verga, dedicarsi a un progetto di storia europea d’Europa come parte di una nuova storia universale.

Alessandra Mangano





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