Marcello Verga,
Storie d’Europa. Secoli XVIII-XXI,
Roma, Carocci Editore, 2004, 222 pp. ISBN 88-430-2780-8.
È oggi in atto una discussione, ancora tutta aperta,
sull’Europa. Alla vigilia delle elezioni del prossimo maggio, in cui si
deciderà che impronta dare a questa variegata e complessa realtà, ci misuriamo
con la percezione che dell’Europa hanno gli europei e coloro i quali invece non
lo sono ancora ufficialmente e magari auspicano di entrarne a far parte. Le
diverse spinte – in alcuni casi attrattive, in altri di vera e propria
repulsione – sono lo specchio reale del ruolo che il Vecchio Continente riveste, oggi, nella quotidianità dei cittadini
europei.
Non si può certo affermare che questa discussione sia un
fatto nuovo e relazionato alle contingenze storiche, poiché sull’Europa gli
studiosi si interrogano da secoli, cercando di rispondere a due domande
fondamentali: Cos’è l’Europa? Come e perché scrivere la storia d’Europa?
Come ci dice nell’introduzione Marcello Verga – Professore
ordinario di Storia Moderna presso l’Università degli Studi di Firenze – questo
volume non è soltanto un libro sulle storie
d’Europa, scritte dalla metà del XVIII secolo a oggi, ma anche un tentativo
di definizione dell’idea di Europa, in quanto essa è prima di tutto un’idea di civiltà [p. 9]. L’interesse
dell’autore però non è rivolto alle possibili risposte, quanto piuttosto alla
storia dei differenti significati che le domande e le risposte hanno avuto nei
vari periodi che intercorrono dal XVIII al XXI secolo.
Uno dei primi temi su cui bisogna soffermarsi, quando si
parla d’Europa, è quello relativo alle differenze nazionali, elemento molto
importante già a partire dal XVIII secolo. Questa analisi reca in sé una
duplice riflessione per certi versi opposta e complementare: l’Europa come
insieme di nazioni che condivide una storia e una civiltà e l’Europa divisa in
nazioni diverse tra loro dal punto di vista delle tradizioni, delle leggi e dei
costumi. Tra Seicento e Settecento, infatti, si è diffusa l’idea di un’Europa
frazionata su due assi: uno nord-sud e l’altro ovest-est. Entrambi questi assi
sono la rappresentazione di un continente a due velocità. Nel primo caso siamo
di fronte ad un’Europa mediterranea arretrata dal punto di vista economico,
sociale e culturale a causa del «malgoverno spagnolo e della Chiesa della
Controriforma» [p. 16] in opposizione a un’Europa settentrionale più avanzata e
stabile; nel secondo caso invece abbiamo un’Europa occidentale, protagonista
vera e assoluta della storia europea e della sua civiltà, in contrapposizione a
un’Europa – quella orientale – quasi non europea, una sorta di «oriente europeo
dell’Europa» [p. 17].
Dinanzi a tale scissione qual è la storia dell’Europa e
quali le sue radici? A questa domanda provano a rispondere in tanti, a
cominciare da Montesquieu e Voltaire: il primo inserendo il proprio
ragionamento nel confronto continuo tra Vecchio
Continente e Asia, dal quale, peraltro, trae le differenze tra dispotismo e
governo moderato, tra schiavitù e libertà; il secondo partendo dall’idea di una
grande repubblica composta da diversi stati, con diverse forme di governo,
accomunati da una stessa religione, seppur divisa e «con gli stessi principi di
diritto pubblico e di politica, ignoti nelle altre parti del mondo» [p. 19].
È per William Robertson, invece, che la storia d’Europa
prende avvio dai barbari i quali occupano i luoghi che fino a quel momento sono
appartenuti all’Impero romano d’Occidente. I barbari infatti introducono nuove
forme politiche, sconosciute fino a quel momento: tra queste la più importante
è proprio il sistema feudale caratteristico non solo di tutti i loro regimi, ma
anche dell’Europa medievale e moderna. Le
crociate, dal canto loro, offrono ai partecipanti la possibilità di
conoscere nuove città, dando vita a importanti processi sociali e culturali
oltre che economici.
Tanto Voltaire, quanto Robertson, Hume e Gibbon, sono
concordi nel sostenere che le origini dell’Europa moderna non vadano ricercate
nell’Impero romano ma nei popoli del Nord e nel risultato del loro incontro con
il cristianesimo.
Tra Settecento e Ottocento cominciano poi a diffondersi i
concetti di popolo, nazione e nazionalità che diventeranno presto patrimonio della cultura e
della sensibilità politica europea. Contestualmente, nello stesso periodo,
l’Europa e l’idea di una civiltà europea, sono temi che perdono la centralità
avuta sino a quel momento.
Fu François Guizot a riprendere l’analisi del significato di
una civiltà europea che, sebbene
fosse indubbiamente reale nell’unità di certi caratteri, allo stesso tempo però
presentava anche una certa varietà, con caratteristiche differenti da ricercare
nelle storie dei diversi paesi europei. Egli, ad esempio, riconosceva alla
Francia un ruolo centrale nella formazione della civiltà europea.
Cosa identificava però questa civiltà? Secondo Guizot
civiltà e libertà sono valori prettamente europei e in essi dunque vanno
riconosciute la storia e la civiltà d’Europa.
Dal mondo romano, innanzitutto, la civiltà europea moderna
ha ereditato moltissimi elementi che la contraddistinguono: dalle città – che
con le sue regole e abitudini, hanno sancito il principio di libertà – al
potere imperiale, principio di ordine e servitù [p. 41]. Vi è poi la Chiesa cristiana e non – si badi bene –
il cristianesimo: l’organizzazione e la capacità di affermazione della Chiesa
riescono a rappresentare infatti «uno strumento di tenuta morale e di ordine
sociale e politico nello sfascio dei poteri determinato dalla caduta
dell’Impero d’Occidente» [p. 42].
Ai barbari – continua ancora Guizot – gli europei devono
invece l’esercizio della libertà personale.
Il primo grande evento di questa Europa – i cui caratteri
fondamentali sono proprio la Chiesa, le città, la monarchia – sono le crociate,
senza le quali, afferma Guizot, non esiste l’Europa.
Quindi l’idea di Europa è strettamente legata all’esistenza
di una molteplicità di culture – ellenistica, romana, celtica e germanica. Del
resto «morte sicura è per l’Europa se tutto è ricondotto sempre e solo
all’unità» diceva Burckhardt [p. 48].
È a Henri Pirenne che dobbiamo comunque una profonda
riflessione sul senso di un’idea di Europa in quanto Europa delle nazioni e
degli Stati e sull’importanza dei sentimenti di appartenenza nazionale nel
delinearsi di una storia e di una civiltà europee. Lo storico belga fa partire
questa riflessione dal primo conflitto mondiale. Dalla sua analisi emerge come
la storia e la chimica siano state le due vere protagoniste della guerra: la
prima per averle fornito esplosivi e gas, laddove la seconda, invece, aveva
portato giustificazioni e scuse [p. 56]. Ovviamente la provocazione di Pirenne
mira a una riflessione più approfondita sul ruolo che gli intellettuali e gli
studiosi ebbero nel preparare il clima culturale che portò alla guerra. In
particolare, gli storici tedeschi giustificano l’invasione del Belgio da parte
del loro Stato.
Per Pirenne ci sono comunque dei punti cruciali nella storia
Europea che vanno ben oltre il crollo dell’Impero romano d’occidente e
l’avvento dei barbari. Innanzitutto c’è la rottura dell’unità del mondo
mediterraneo e la separazione tra Occidente e Oriente, determinata
dall’invasione musulmana del Mediterraneo e di alcune regioni europee; seguono
poi la dissoluzione dell’Impero carolingio al quale è strettamente legata l’elaborazione
della civiltà occidentale «destinata a diventare la civiltà del mondo intero»
[p. 63], il feudalesimo, la lotta per le investiture e, infine, le crociate
dalle quali viene fuori l’Europa dei commerci, dei mercanti e della borghesia.
In questo contesto si articola la riflessione sull’Europa e
sulla Germania che Pirenne elabora durante gli anni di prigionia. È proprio a
partire dalle posizioni degli storici tedeschi, volte nella maggior parte dei
casi a giustificare l’invasione del Belgio da parte della loro nazione, che
Pirenne si convince fermamente che la separazione tra potere e ceto
intellettuale, tra governo e cultura che l’Europa aveva ereditato dalla
Rivoluzione francese, fosse sconosciuta alla società tedesca. È forse questa la
ragione per la quale lo storico belga decide di escludere gli storici tedeschi
dai lavori del V Congresso internazionale di scienze storiche, svoltosi
immediatamente dopo la fine del conflitto.
Nei fatti comunque, La
Storia d’Europa che Pirenne scrive in carcere, rimane incompiuta. Secondo
Verga le ragioni di questa interruzione sono da ricercare proprio nell’idea di
un’Europa la cui identità è strettamente riconoscibile nell’affermarsi degli
Stati nazionali. Lui stesso esalta e difende l’indipendenza del Belgio e smentisce
categoricamente le pretese del pangermanesimo. Ecco dunque che – in relazione
al dramma del suo tempo che lui stesso si ritrova a vivere pienamente da
prigioniero – quella stessa idea di nazione e nazionalità che non esita ad
esaltare nel caso del Belgio, finisce per trasformarsi in una vera e propria
contraddizione, dinanzi allo specialismo della storiografia tedesca e alla
diretta espressione di uno sciovinismo estremo che arriva ad ipotizzare perfino
un’origine germanica della civiltà europea.
La diffusione di un interesse molto spiccato per le storie
nazionali, specie a partire dall’Ottocento, non entra mai in contrasto con la
storia d’Europa. Anzi, questa attitudine significa presto il riconoscimento di un'idea
di Europa basata su un ‘sistema di Stati’ «destinati a lottare uno contro
l’altro per l’affermazione dei loro interessi e delle loro ambizioni» [p. 49].
Nel primo dopoguerra si ridisegna l’immagine politica e
culturale di un’Europa: accanto alla tradizionale Europa occidentale,
cominciano a delinearsi la Russia della Rivoluzione d’ottobre da una parte ed
un’Europa orientale contrapposta ad essa.
Dopo il primo conflitto mondiale, pertanto, l’idea di una
storia della civiltà europea – con riferimento esplicito alla parte occidentale
dell’Europa e agli Stati nazionali che si erano formati al suo interno – cessa
di esistere. Si diffonde l’esigenza di una storia d’Europa coniugata al plurale
rivendicata, peraltro, da molti storici tra i quali il rumeno Nicola Iorga che
insiste, ad esempio, sull’importanza che Bisanzio ebbe sulla storia dell’Europa
occidentale.
È negli anni Trenta del Novecento, invece, che il cosiddetto
principio dell’equilibrio – diffusosi
già a partire dal Rinascimento – si fa strada in molti storici, tra i quali
Chabod. Ed è attraverso tale principio che è possibile regolare i rapporti tra
i vari Stati nazionali «ben differenziati [e] ben consci della loro pienezza di
sovranità» [p. 94]. Questo equilibrio aveva sempre garantito lo svolgimento
della storia Europea nel corso dei secoli e, sempre secondo Chabod, a questo
stesso equilibrio bisognava fare ricorso per far sì che tale svolgimento
continuasse anche nel XX secolo, in un momento di grande crisi dell’Europa. Il Vecchio Continente, a cavallo tra i due
conflitti mondiali, non ha più il primato nel controllo del mondo. Al suo posto
nuove potenze, tra tutte gli Stati Uniti e alcune realtà asiatiche, esercitano
adesso un ruolo importante.
Alle storie d’Europa come storie di equilibrio tra potenze e
di rivalità tra le nazioni, Croce opporrà con la sua Storia d’Europa nel secolo XIX, uscita nel 1932, l’idea di
un’Europa in cui prevale l’affermazione di un progetto di pace e cooperazione
politica tra i vari Stati. Questa impostazione contribuisce al diffondersi di
un concetto d’Europa legato ad una visione di speranza per il futuro: l’Europa
diventa un rifugio contro nazionalismi e totalitarismi.
È ad Halecki infine che si deve la proclamazione della fine
della storia Europea e dell’inizio della storia Atlantica, posizione questa che
verrà condivisa da molti altri storici. Fino agli anni novanta del XX secolo e
alla caduta del blocco sovietico, la riflessione sull’Europa ruota tutta
attorno all’affermazione dei valori dell’Occidente (libertà, democrazia,
capitalismo e libertà d’impresa) in contrapposizione all’esperienza dei regimi
comunisti. Ma questo dibattito è tutto interno alla società occidentale e si
priva dunque del punto di vista degli storici dei paesi dell’Europa
centro-orientale.
In contrapposizione ai totalitarismi del Novecento (Nazismo
e Comunismo sovietico) si comincia a fare strada l’idea di un’Europa dalle
radici cristiane. La Chiesa diventa in quest’ottica il baluardo della società
occidentale e dei suoi valori.
È ovvio che a questa visione si contrapporrà,
successivamente, l’idea di un’Europa laica e tollerante, l’Europa
dell’Umanesimo, della libertà e dell’Illuminismo.
Nelle conclusioni di questo lungo excursus, Verga ci tiene a sottolineare che il lavoro degli storici
europei sulla storia d’Europa è fatto in gran parte da nativi dell’Europa
occidentale. Dunque si tratta sempre di una visione parziale della realtà che
già reca in sé un’idea univoca di Europa. Se a questo si aggiunge anche il
fatto, tutt’altro che secondario, secondo cui l’Europa è stata prima di tutto
«una realtà storicamente variabile nel tempo» [p. 147], allora è facile
comprendere come mai appaia molto complesso scrivere una storia comune degli
europei, malgrado innumerevoli siano stati negli ultimi anni i tentativi da
parte di politici e studiosi.
Se impossibile dunque
appare il ricorso alla storia «per esaltare o rivendicare pretese “radici
comuni” d’Europa» [p. 179], meglio sarebbe, secondo Verga, dedicarsi a un
progetto di storia europea d’Europa come parte di una nuova storia universale.
Alessandra
Mangano
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