Tony Judt, L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ‘900, Roma-Bari, Laterza,
2011, 484 pp., ISBN 978-88-420-9632-0.
Impossibile
recensire in modo puntuale il testo di Tony Judt. Questo volume offre, infatti,
una panoramica piuttosto complessa dei protagonisti e dei fatti più importanti
del secolo scorso. Intellettuali, politici, papi, persino Stati (come la
Francia, l’Inghilterra, la Germania, il Belgio, la Romania) aiutano il lettore
a tratteggiare i momenti storici cruciali del Novecento, con le mille contraddizioni
annesse, gli eventi più rilevanti, i momenti di impasse e quelli che hanno,
invece, determinato le svolte epocali. Non sempre condivisibili, da parte di
chi scrive, alcune affermazioni o prese di posizione da parte dell’autore, ma
senza dubbio il contributo storico che questo volume è in grado di offrire al
lettore è di inestimabile valore.
L’età dell’oblio raccoglie un insieme di
saggi composti da Judt tra il 1994 e il 2006. Pur affrontando svariati temi
(dal marxismo francese alla globalizzazione), è possibile rintracciare i nuclei
principali attorno ai quali ruotano i vari scritti: il ruolo degli
intellettuali e delle loro idee e la funzione esercitata dalla storia in un’età
definita appunto dell’oblio.
Nell’affrontare
queste due tematiche – indubbiamente connesse tra loro – l’autore sottolinea
come si sia diffusa, ormai capillarmente, l’idea secondo la quale il passato
non abbia più nulla da insegnarci. Questo discutibile atteggiamento ha
provocato, innanzitutto, l’oblio della guerra, rimozione, questa,
particolarmente diffusa in Europa, specialmente dopo il secondo conflitto
mondiale, ma anche in seguito alle terribili guerre civili che hanno martoriato
il ventesimo secolo. Diversa è la realtà statunitense, dove si esaltano ancora
le imprese belliche e le forze armate. Le ragioni di tale diversità sono da
ricercare, secondo Judt, nel fatto che gli USA non hanno mai patito le
conseguenze di una sconfitta: il loro territorio non è mai stato invaso né
smembrato e, per tale ragione, i nordamericani credono ancora che le guerre
alle quali hanno partecipato siano state delle «guerre giuste» [p. 9]. Quindi,
se per gli europei la guerra costituisce l’ultima spiaggia cui fare ricorso,
per gli statunitensi, invece, è la prima via da intraprendere in caso di
risoluzione dei contrasti.
Strettamente
connesso al tema della guerra è, poi, quello del declino dello Stato che ha
avuto inizio proprio nel ventesimo secolo. La convinzione più diffusa è che lo
Stato impedisca, con le sue innumerevoli pastoie burocratiche, con i ritardi,
con la corruzione di buona parte dei suoi funzionari, il buon andamento degli
affari umani. Di qui l’ingente ricorso alle privatizzazioni, nell’ultima parte
del secolo passato, con conseguenze piuttosto onerose sui cittadini.
Ma il
Novecento è stato anche il secolo degli intellettuali. Qual è il loro ruolo
oggi? Difficile rispondere a questa
domanda in un’epoca in cui la maggior parte della gente crede che le ideologie
o i sistemi di credenze siano del tutto scomparsi. Pur rifiutandoci di
ammettere che le ideologie siano ormai roba d’altri tempi, bisogna altresì
riconoscere che, quelle formatesi nel corso dell’Ottocento e sviluppatesi poi
nell’arco del ventesimo secolo, hanno subito un profondo mutamento. Né, d’altra
parte, sarebbe possibile immaginare uno scenario diverso. Le paure con cui i
cittadini delle democrazie occidentali devono fare i conti oggi sono, infatti,
diverse da quelle del secolo scorso: la paura del terrorismo internazionale,
della velocità del cambiamento, della disoccupazione ma, soprattutto, il timore
che «non solo non possiamo più decidere della nostra vita, ma che anche coloro
i quali comandano hanno perso il controllo in favore di forze oltre la loro
portata» [p. 23]. Questo punto della riflessione di Judt è cruciale, a mio
parere, perché riesce a spiegare il diffondersi – a partire dagli anni
successivi alla stesura di questa introduzione e cioè gli anni in cui stiamo
vivendo – dell’avanzata dei populismi, della xenofobia, della chiusura delle
frontiere. Perfetto corollario, insomma, della politica dell’insicurezza.
L’excursus attraverso le più importanti
figure di intellettuali del Novecento, è – per scelta dell’autore – un viaggio
attraverso i totalitarismi del «secolo breve»: Primo Levi fra tutti, che cerca
le parole per descrivere l’orrore dell’olocausto, stando attento a usare toni
“credibili” per i lettori. Perché la tragedia dello sterminio nazista fu anche
questa: ci volle tempo prima che qualcuno iniziasse a credere alle vittime. Le
prime inibizioni di Levi, in tal senso, aspramente criticate da Jean Améry
saranno poi superate, definitivamente, con Se
questo è un uomo che si conclude con una inequivocabile accusa di
responsabilità collettiva contro quei tedeschi – la maggior parte – che
seguirono Hitler [p. 63].
Il tema
del totalitarismo è forte anche nell’opera di Hannah Arendt. Esso viene
interpretato come «il non plus ultra del
controllo e della distruzione dell’essere umano» [p. 79] e, in tal senso,
fondamento stesso del regime. Nazismo e stalinismo confluiscono in lei in un
unico archetipo. Questa scelta le vale moltissime incomprensioni, attirandole
numerose critiche.
È il
totalitarismo di Stalin che spinge, invece, Althusser – che pure Judt non esita
a tacciare di astruse apologie politiche condite da folli illusioni – a dare
del marxismo una «lettura sintomatica» [p. 107]. Né del resto era una novità: a
lungo, nel Novecento, molti studiosi presero da Marx quello di cui avevano
bisogno, ignorando il resto.
Persino
Eric Hobsbawm, nella critica di Judt, vede pregiudicato il suo istinto storico
dalla sua “incondizionata” adesione al comunismo. Ciò che nello specifico Judt
attribuisce al grande storico, è di non aver mai affrontato «l’eredità morale e
politica di Stalin e delle sue azioni» [p. 126].
Sarebbe
molto difficile comprendere bene la prima parte del volume se omettessimo di
dire che Judt – e chiara appare tale convinzione nel corso di tutto il volume –
ritiene che tra gli estremismi di sinistra e quelli di destra, vi sia una
«fondamentale affinità» [p. 127]. Non si salva il marxismo che non può certo –
a dire dell’autore – sentirsi immune da responsabilità per via del
totalitarismo stalinista. Anzi, andando a riprendere l’opera di Leszek
Kolakowski e la sua critica feroce al marxismo, Judt si proprone di spiegare ai
suoi lettori come le pesanti analogie tra la crisi della fine del
diciannovesimo secolo e quella attuale, sintetizzata in parte nella formula
marxista dell’«esercito industriale di riserva» [p. 140], potrebbe determinare
una rinascita del marxismo come unica chiave risolutiva al declino attuale,
come soluzione alla crisi del capitalismo. E ciò per Judt rappresenta, niente
meno, che una follia. Proprio perché, coloro che vorrebbero far rinascere il
marxismo grazie alla caduta del comunismo, commetterebbero, a suo dire, un
errore irreparabile. Quello che però Judt non ci spiega è quale possa essere
l’alternativa ai due sistemi, specialmente oggi che il capitalismo sembra
essersi incartato in una sorta di spirale perversa, in un labirinto senza via
d’uscita, dal quale sembra sempre più difficile venir fuori.
Un
altro dramma del Novecento è poi la questione mediorientale, tutt’altro che
risolta. Judt fa riferimento a Edward Said e alla sua opera, perché a essa
dobbiamo la verità sul trattamento dei palestinesi da parte di Israele, ma
anche il riconoscimento della necessità di trovare degli accordi, partendo
dall’ammissione dei propri difetti e dei propri errori. Said non esita,
infatti, a rivolgere critiche feroci ai leader arabi, in particolare a quelli
dell’OLP, accusandoli apertamente di ogni sorta di corruzione e cupidigia; ma
non tralascia, per questo, di segnalare tutti gli abusi compiuti da Israele a
danno dei palestinesi, con la complicità degli Stati Uniti. La peculiarità
della vicenda mediorientale è, tra l’altro, basata sul paradosso vissuto dai
palestinesi, di essere «vittime delle vittime» [p. 170]. Sì, perché chi aveva
cacciato i palestinesi dalle loro legittime terre non erano i colonialisti
occidentali, ma i sopravvissuti all’Olocausto. Questa riflessione, legata anche
alle analisi sui puntuali fallimenti di tutte le negoziazioni, ha spinto Said a
passare dalla convinzione di una necessaria costruzione di due stati per due
popoli, all’idea che fosse meglio, invece, creare uno stato unico secolare per
israeliani e palestinesi. Ma Said si
spinge oltre: comprende che i veri nemici della pace in Medio Oriente sono gli
americani. Non tanto i governi quanto piuttosto l’opinione pubblica
statunitense, che si mostra sensibile alla causa israeliana perché non ha mai
conosciuto quella palestinese. Per questo, per tutta la vita, Said cerca di
tenere sempre vivi in America la questione palestinese e il conflitto
mediorientale. Ed è proprio sulla scia delle teorie di Said che Judt formulerà,
nel 2006, un articolo molto interessante, pubblicato sul quotidiano liberale
israeliano Ha’aretz, che peraltro
susciterà molte reazioni critiche. In esso Judt taccia apertamente Israele di
immaturità. Successivamente alla Guerra dei Sei giorni (1967), la percezione
che gran parte del mondo aveva avuto di Israele, fino a quel momento, cambia
radicalmente, come dimostra la diffusione repentina di un nuovo simbolo,
destinato ad avere una fortuna universale, e che verrà riprodotto su migliaia
di editoriali giornalistici e vignette satiriche: la Stella di David su un
carro armato [p. 279]. L’autore afferma apertamente che non è possibile
giustificare ogni azione di Israele ricordando Auschwitz. Anzi: non è
accettabile la teoria secondo la quale chiunque critichi la politica di
Israele, venga tacciato di antisemitismo. E non è accettabile perché, così
facendo, Israele finisce per parlare e agire, impunemente, a nome di tutti gli
ebrei. In relazione alla violazione delle leggi internazionali nei territori
occupati, o all’umiliazione delle popolazioni sottomesse a cui ha confiscato le
terre, è come se gli israeliani dicessero: «queste azioni non sono israeliane,
ma ebree; l’occupazione non è
israeliana ma ebrea; e se questo non
vi va giù è perché non vi piacciono gli ebrei»
[p. 281]. Israele dunque non cambia e si
ostina, immaturamente, a restare immobile sulle sue posizioni. Il punto è,
però, che il mondo invece è cambiato. Oggi sono sempre più numerosi i cittadini
che considerano lo Stato di Israele alla stregua della Spagna di Franco. E
moltissimi di questi cittadini sono statunitensi. Tutto ciò, afferma Judt,
dovrebbe far riflettere tanto Israele quanto il Nord America che è l’unico suo
sostenitore.
Sugli
Stati Uniti e sulla sua storia novecentesca, fatta di ostilità più o meno
cruente, l’autore si sofferma a lungo. Da qui l’affascinante report sulla crisi
missilistica a Cuba del 1962. La ricostruzione storica e dettagliata
dell’evento è condita dalla citazione di numerosi dialoghi tra i protagonisti
della vicenda – ricavati dalle registrazioni – che ci forniscono un quadro
preciso sia sui rapporti di forza all’interno degli Stati Uniti e tra gli
uomini della presidenza Kennedy, sia sulle loro qualità caratteriali e sul loro
modo di reagire ai momenti di crisi nelle fasi cruciali e concitate. Solo i
fratelli Kennedy, peraltro, sapevano che le conversazioni venivano registrate.
Possiamo quindi leggere stralci di discussioni tra il vicepresidente Lyndon
Johnson e l’ExComm Mc Namara; oppure tra il Presidente Kennedy e il Generale
Wheeler o tra Kennedy e l’ex ambasciatore a Mosca Llewellyn Thompson.
Attraverso queste testimonianze dirette, riusciamo a comprendere meglio non
solo quella crisi, ma anche i rapporti reali tra il Presidente USA e i
militari. Questi ultimi non provavano per lui che un mero sentimento di
disprezzo, assolutamente ricambiato, peraltro, con l’aggiunta di una buona dose
di sospetto.
Profonda
e interessante analisi, poi, è quella che l’autore dedica al confronto tra
Europa e Stati Uniti. Colpisce molto la parte dell’articolo – scritto tra il
2002 e il 2006 – in cui Judt fa riferimento a diverse autorevoli voci, secondo
le quali un’Europa compatta e unita rappresenterebbe una minaccia agli
interessi degli Stati Uniti. Dunque l’America ha tutto l’interesse a bloccare
sul nascere questa unione [p. 391]. In effetti, osservando bene quanto sta
accadendo oggi, a ben otto anni di distanza da quell’articolo, tale
affermazione deve far riflettere. Siamo alla vigilia delle elezioni per il
rinnovo del Parlamento europeo e l’Europa sembra tutt’altro che una realtà
unitaria e solidale, anzi, in molti casi è sentita fortemente come un’entità
lontana e persino ostile ai cittadini, tanto che i sondaggi danno
l’astensionismo al 40% e le previsioni decretano una pericolosa avanzata dei
populismi.
Ritornando,
per un attimo, al confronto tra Europa e America esce fuori un quadro
mediamente idilliaco della prima, rispetto alla seconda: vi campeggia un
continente che, grazie alla lezione appresa nel passato, «non conoscerebbe, se
non raramente, il patriottismo belligerante di stile americano» [p. 393].
Eppure l’Europa è una realtà piena di contraddizioni e, spesso, di scelte
violente che non si possono omettere: dalla produzione di armi (di cui il
nostro continente detiene il triste primato) agli interventi militari (Iraq,
Afghanistan, Libia) solo per fare alcuni esempi. Un’Europa che non sembra
interessata né alla questione mediorientale, se non per appoggiare la politica
statunitense di supporto a Israele, proprio in un momento in cui – come abbiamo
visto – le reazioni alla condotta americana si fanno sempre più severe; né alla
incredibile emergenza umanitaria delle massicce ondate migratorie provenienti
dal continente africano e dalla Siria che, in questi giorni, stanno interessando
le coste della Sicilia.
Dinanzi
a questo panorama tutt’altro che idilliaco, le conclusioni di questo volume,
appaiono di incredibile attualità. Non è casuale, a mio avviso, la scelta da
parte di Judt, di una lucida quanto sconfortante analisi, risalente al 1997,
del sorpasso da parte della destra neofascista e xenofoba sui partiti di
sinistra. In Francia, ad esempio – allora come oggi – sono proprio gli ex
elettori di sinistra a votare Le Pen.
Perché? Le parole amare che Judt dedica, alla fine, alla sinistra
europea (in particolare ai socialisti) riflettono una condizione attualissima e
una ferita ancora aperta che si è già ulteriormente incancrenita: la visione di
una sinistra incapace di governare e in permanente protesta. Dice l’autore: «la
sinistra non ha idea di cosa potrebbe significare un suo successo politico, se
riuscisse a conseguirlo; non ha una visione articolata di una società buona, o
semplicemente migliore, di quella attuale. In assenza di una simile visione,
far parte della sinistra non è che prendere parte a una protesta permanente»
[p. 411]. Come è possibile, del resto, dargli torto? Oggi, poi, che la
situazione si fa ancora più pesante – rispetto al 1997 – in considerazione del
fatto che i governi hanno un margine limitato di iniziativa politica in materia
fiscale e monetaria? Ciò, ovviamente, determina il principio secondo cui, vinte
le elezioni, nessun governo rispetta mai gran parte delle promesse fatte in
campagna elettorale.
Come
salvarci dunque? Judt ci ha lasciati nel 2010, stroncato da una malattia
orribile che lo ha tenuto, fino all’ultimo, prigioniero lucidissimo di un corpo
ormai morto. In una sua ultima intervista a Charlie Rose, ci dice, tra le tante
cose, che la sua paura più grande è quella di venir privato della possibilità
di comunicare. Pensiamo che per uno storico questa sia una delle pene più
atroci da sopportare. Non possiamo fare a meno di chiederci cosa penserebbe
Judt di questi ultimi quattro anni, del modo in cui rileggerebbe la storia del
Novecento alla luce degli ultimi eventi, ma soprattutto ci chiediamo se
continuerebbe a pensare, con speranza, che lo Stato moderno possa ancora
salvarsi, determinando il modo migliore della distribuzione – sia pure soltanto
a livello locale – della crescita economica generata dai privati [p. 415].
Consiglio
la lettura di questo volume perché – a prescindere dalle convinzioni
ideologiche o dagli approcci storiografici – rappresenta un ricchissimo
strumento di conoscenza e riflessione sugli uomini e i fatti di un secolo, il
Novecento, col quale dobbiamo fare i conti ancora oggi. Perché è soltanto
leggendo tra le carte di quel secolo che, forse, possiamo trovare la chiave
interpretativa per il presente – del tutto oscuro e ancora in fieri – che ci
tocca in sorte vivere. E forse, almeno così si augura chi scrive, la sinistra
europea, sempre più divisa dai protagonismi e dall’inettitudine, troverebbe
qualche spunto per decidersi, finalmente, ad intraprendere una seria
riflessione sulle alternative concrete alla globalizzazione economica, alle sue
leggi spietate e alle sue insaziabili richieste.
Alessandra
Mangano
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