Paolo Viola, Il trono vuoto. La transizione della
sovranità nella rivoluzione francese, Einaudi, Torino 1989, 200 pp., ISBN
88-06-11447-6.
Prima dei fatti del 1789 il termine "rivoluzione" indicava un
grande atto riformatore che facesse uscire lo Stato dall'illegalità, rendendo
una «libertà precedente, forse mai esistita prima di allora, ma in qualche modo
radicata nella ragione umana, e quindi nel tacito patto fra chi governa e chi è
governato» (p. VII).
La rivoluzione francese fu, invece, un fenomeno innovativo, che colse di
sorpresa sia le persone colte e politicizzate, sia «chi era stato da sempre
oggetto passivo della sovranità e si trovava ora a esserne collettivamente il
soggetto» [p. VIII].
La rivoluzione fu quindi un «trauma della transizione della sovranità».
Tuttavia essa è il luogo anche di altre transizioni nelle diverse sfere della
politica, dei conflitti sociali e dell'economia.
L'ambiguità del termine "rivoluzione" fa in modo che i
contemporanei parlassero di «terminare la rivoluzione» ancor prima dei fatti
dell'Ottantanove.
Dal 1789 al 1793 si verificò quel vuoto di sovranità che terrorizzò il
popolo. A questo punto si fa forte e storicamente rilevante la posizione dei
giacobini. Il giacobinismo, infatti, riuscì a «dirigere la rivoluzione», e «fu
l'unica forza politica che si diede da fare concretamente ed efficacemente per
essere gruppo dirigente della rivoluzione, e per far valere la propria
'egemonia' sulle forze sociali che erano state evocate» [p. X]. Il giacobinismo
non a caso è visto come luogo di nascita della politica moderna.
La transizione della sovranità si concluse, o si avviò a conclusione nel
1793, quando il «trono vuoto» venne rioccupato.
L'analisi compiuta da questo libro propone l'individuazione di due
momenti di svolta della rivoluzione francese.
Il primo momento è l'estate del 1789: la rivoluzione si trasforma dal
«progetto costituente che si sforzava di terminare la 'rivoluzione', cioè
l'illegalità della monarchia, in una catastrofe alla quale non si può, non si
sa, addirittura non si vuole opporsi». Il secondo momento è la fine del 1792,
quando la rivoluzione ha esaurito il suo andamento catastrofico: allora essa
potrà esprimere un gruppo dirigente egemone capace di rioccupare il trono
rimasto vuoto.
I due momenti, a giudizio di Paolo Viola, separano le tre fasi della
rivoluzione francese: bisogna però badare – ed è l'autore a specificarlo – che
non si tratta di tre fasi cronologiche, ma di tre momenti logici.
La prima fase della rivoluzione, alla quale è dedicata la prima parte del
libro, è caratterizzata dalla volontà dei dirigenti di terminare l'illegalità
con un progetto costituzionale, e quindi di «terminare la rivoluzione». La
prima fase è quindi quella dell'«immenso equivoco che caratterizza l'avvio
della rivoluzione francese. Ci si proponeva di bloccare la rivoluzione con cui
il re tentava di accrescere la propria sovranità, e di riequilibrarne il potere
con il ricorso della conservazione, garantita dal consenso popolare, delle
antiche istituzioni del regno. E così facendo, si avviava quella transizione
della sovranità dal monarca al popolo, che avrebbe sprofondato un paese,
mentalmente e istituzionalmente impreparato, verso il baratro della vera e
propria rivoluzione» [p. 20].
La seconda fase, alla quale è dedicata la seconda parte dell'opera, è
invece quella della «rivoluzione vera e propria, che nessuno si aspettava e che
sul momento nessuno seppe fronteggiare: non un progetto, ma una fatalità;
negazione di ogni costituzionalismo ma anche di qualsiasi direzione [...]», e
quindi quella in cui fu impossibile non «subire la rivoluzione». In questa fase
comincia a manifestarsi un movimento popolare dalle sconosciute potenzialità,
che era indotto a usare la violenza; ma non era un popolo «assetato di sangue,
ma di giustizia, e la giustizia fatta su Luigi XVI gli sembrava che scaricasse
la nazione da un pesante fardello; che finalmente compisse la rivoluzione, o
piuttosto che finalmente la iniziasse, con l'ambivalenza delle svolte
fondamentali della storia, e che la libertà, come una dea dell'antichità, non
si potesse propiziare se non col sacrificio di un colpevole» [p. 165].
La terza fase della rivoluzione, alla quale è dedicata la terza parte del
libro, vede il tentativo di governare una violenza, di governare la rivoluzione,
di occupare il trono vuoto, di «dirigere la rivoluzione», ed era necessario che
«il popolo non si scindesse, bisognava che continuasse a operare in corpo
unico, mantenendo la sua caratteristica, che si potrebbe definire di società
naturale, di rapporto fra fratelli, prevenendo il rischio che i cittadini si
isolassero per riaggregarsi secondo raggruppamenti volontari arbitrariamente
legati a loro volta da vincoli organizzativi estranei alla legge, che avrebbero
minacciato la collettività, perché facilmente utilizzabili dai cospiratori.
[...] Senza la difesa dell'unità, o indivisibilità, o fraternità, secondo i
giacobini, ma anche secondo i loro avversari, si sarebbero persi gli altri
termini della triade: la libertà e l'uguaglianza. Essa diventava così il perno
centrale intorno a cui ruotava tutta la politica rivoluzionaria» [p. 220].
Forse è superfluo (e magari banale) dire che ogni fase della rivoluzione
francese è legata a uno dei tre termini della formula rivoluzionaria: «Liberté
Egalité Fraternité». Sebbene, a conti fatti, alla libertà che mosse la prima
fase e all'uguaglianza della seconda fase sopravvisse solo la fratellanza,
l'unica «in grado di far sopravvivere il paese e di conservare nei limiti del
possibile l'uguaglianza; mentre era incompatibile con la libertà e ne provocò,
o non ne impedì la rovina» [p. 220].
Piero Canale
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