L'eredità
della Rivoluzione francese, a cura di François Furet, Roma-Bari, Laterza, 1989,
328 pp., (Stato e Società), ISBN 88-420-3339-1.
Il libro curato da François Furet raccoglie undici
saggi scritti, in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese, da
«specialisti di più nazioni [...] intorno a una questione comune, quella di
capire perché i principi del 1789 continuano a modellare la civiltà politica
comparsa allora e in cui ancora viviamo» [p. 21].
La prima parte dell'opera, dal titolo La Rivoluzione francese nel XIX secolo [pp.
23-196], analizza e cerca di comprendere i principi dell'Ottantanove alla luce
del pensiero politico e filosofico dei contemporanei, delle critiche da questi
furono mosse e del gran fermento speculativo che la Rivoluzione comportò già
nel suo immediato prodursi.
La seconda parte, invece, intitolata L'eredità della Rivoluzione francese nel
mondo contemporaneo [pp. 197-321], è dedicata allo «studio di esperienze
storiche particolari» [p. 22], che con la Rivoluzione francese hanno un debito
in alcun modo trascurabile.
L'opera si apre con un'Introduzione [pp. 3-22] di François Furet.
Nella prima parte il saggio di Philippe Raynaud,
filosofo e politologo, America e Francia:
due rivoluzioni a confronto [pp. 25-46], ripercorre le analogie e le
differenze che i contemporanei della Rivoluzione colsero tra i due eventi della
fine del Settecento. Per Burke, ad esempio, «la rivoluzione americana era
figlia legittima della Rivoluzione Gloriosa inglese, in quanto difendeva,
contro lo stesso Parlamento, i principi che avevano fatto la sua forza (no taxation without rapresentation)»,
diversamente dal carattere «'metafisico' della rivoluzione francese che, affermando
la trascendenza dei 'diritti dell'uomo', metteva potenzialmente in pericolo
l'ordine sociale europeo» [pp. 25-26]; mentre per Paine «era dell'America che i
Francesi avevano imparato, grazie a La Fayette, ad amare la libertà» [p. 26].
Le citazioni riportate sono solo una parte delle
testimonianze dei contemporanei che seguirono con interesse, e a volte
preoccupazione, gli eventi di Francia. Infatti, più che delle analogie, molti
di coloro che criticano la rivoluzione francese, si servirono dell'analisi
delle esperienze differenti e delle logiche opposte che guidarono le vicende
tra le due rive dell'Atlantico.
Nel saggio sono esaminati anche l'oggetto della
Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e della Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino del 1789:
[...] l'oggetto
delle due Dichiarazioni iniziali è differente (in un caso si tratta di
legittimare l'indipendenza americana davanti all'opinione dell'umanità, e
nell'altro di esporre sistematicamente i «diritti naturali, inalienabili e
sacri dell'uomo»), ciononostante esse hanno le stesse pretese all'universalità;
ciò che invece le distingue più in profondità è lo status conferito alla legge, a sua volta conseguenza di una
divergenza di fondo sulle condizioni della libertà e sulla portata del diritto
naturale.
La Dichiarazione di Indipendenza si basa
sulla legge naturale istituita da
Dio, che ha dotato gli uomini dei «diritti inalienabili» la cui protezione
costituisce il fine dei governi - i quali quindi perdono la loro legittimità
quando disconoscono tali fini ma sono, al contrario, presunti legittimi finché
li rispettano. La Dichiarazione francese dal canto suo, parte dai «diritti naturali» degli individui, la
cui difesa non dipende più da una semplice limitazione
imposta dall'esterno allo Stato, quanto piuttosto dal concorso dei cittadini
all'attività legislativa, che si situa dunque in realtà sul meccanismo pieno dei diritti individuali [...]; ciò, e il
significato dell'idea di sovranità nazionale,
rendono problematica la legittimità di tutti i governi stabiliti, esistenti
solo per volontà della nazione. Quanto nella Dichiarazione americana resta
quasi sempre implicito e subordinato alla legge naturale (il consenso dei
governati, e il diritto popolare a modificare l'ordine politico) passa quindi
nella Dichiarazione francese in primo piano, implicando l'universale esigenza
di rigenerare l'ordine politico [p. 32].
Le due rivoluzioni sono entrambe delle rivoluzioni
politiche, tuttavia la differente storia della Francia e delle Tredici Colonie
fa sì che il significato delle rivoluzioni sul versante sociale sia diverso.
Le differenze tra la Rivoluzione francese e americana
ricalcano quasi specularmente le differenze ricorrenti tra la società francese
dell'Ancien Régime e la società
inglese, alla quale la società americana è profondamente legata.
La fine del saggio è quasi interamente dedicato agli
scritti di Tocqueville sulla Rivoluzione francese e sulla democrazia degli
americani:
l'esperienza americana, nella misura in cui
è stata per un certo verso rivoluzionaria, partecipa anch'essa di questa «epoca
gloria e tormentata», ma avendo gli Americani avuto la fortuna di «nascere
uguali», ciò - va ammesso - limita l'aspetto creativo della loro «rivoluzione»;
d'altro canto, la continuità che lega l'Ancien Régime alla rivoluzione
francese, e soprattutto l'aria di inesorabile necessità che quest'ultima ha
sovente assunto, inducono anche a relativizzarne l'immagine di libera
istituzione. Il confronto tra Francia e America non può quindi limitarsi alla
polarità tra «spirito democratico» e «spirito rivoluzionario»: temibile
prodotto dello «spirito rivoluzionario», la rivoluzione francese ha anche avuto
una sua propria grandezza, scaturita paradossalmente dalla passata esperienza «aristocratica»,
che può aiutare lo spirito democratico a evitare di pensarsi come natura [p. 45].
Il saggio di Pierre Manent, studioso di storia della
filosofia politica, dal titolo Il
liberalismo francese e inglese [pp. 47-74], procede sull'esame delle
differenze e delle analogie tra la tradizione liberale inglese e francese.
L'autore riprende il confronto tra Burke e Paine,
entrambi liberali, sebbene il primo vada «quanto possibile lontano in senso
conservatore, continuando ad essere un liberale, mentre l'altro va quanto
possibile lontano in senso democratico o 'radicale', continuando però anch'egli
ad essere liberale» [p. 57].
Alla reazione inglese alla rivoluzione francese, segue
l'esame delle critiche scatenatesi nell'ambiente liberale francese, in particolare
in Constant e Guizot. Per il primo, «il popolo in dettaglio era stato
sacrificato al popolo in massa». [p. 70]
Agli occhi di Guizot, invece, la rivoluzione deve
continuare e non esaurirsi.
La società post-rivoluzionaria appare tanto
inquieta non perché sia destinata all'incertezza e all'anarchia di opinioni e aspirazioni,
ma perché non si riconosce ancora nel suo governo, perché non lo riconosce
ancora come suo. La distanza allargatasi durante la rivoluzione tra lo Stato e
la società corrisponde proprio a quella assunta dalla società per meglio
conoscere la società, più esattamente a quella assunta dalla società per meglio
conoscersi attraverso il potere; questa distanza si è aperta solo per essere
meglio e più compiutamente colmata [p. 70].
La fine del saggio è dedicata a Bentham e alla sua critica
verso i «diritti dell'uomo», i quali sono ritenuti una dottrina «metafisica»
basata su un «radicalismo filosofico» che non tiene conto della «nozione di
utilità», come tipica della tradizione delle scuole politiche inglesi.
Il saggio di Massimo Boffa, studioso di storia e
giornalista, s'intitola La rivoluzione e
la controrivoluzione. Con «controrivoluzione» si intende il «movimento di
resistenza e di reazione al processo rivoluzionario avviato in Francia nel 1789
e ai principi che ne stavano a fondamento, che fra alterne vicende farà sentire
i suoi effetti lungo tutto il corso del secolo XIX» [p. 75]. Le definizioni e i
concetti storici non sono mai immuni da significati ideologici e passionali,
che i protagonisti e gli storici hanno loro attribuito.
L'analisi brillante di Boffa espone la paradossale
sorte di chi vuole la restaurazione e la fine della «rivoluzione come parentesi
nefasta, voragine improvvisamente aperta nella storia di Francia e del mondo» [p.
75], ma che sarà costretto a essere essi stessi definiti dei
post-rivoluzionari. E ancora più contraddittoria è la necessità, forse
inconscia, di doversi integrare, essi stessi, alla «sensibilità moderna, che è
la sensibilità di un mondo non conciliato con i propri valori» [p. 77].
Nel saggio è ripresa l'analisi burkeiana, la quale è
una delle basi su cui poggia il pensiero controrivoluzionario, diventando così
«dottrina sistematica, che farà sentire la sua presenza lungo tutto il secolo
successivo, le ragioni della propria ostilità al mondo moderno nato dalla
rivoluzione» [p. 81].
Il saggio di Remo Bodei, docente di storia della
filosofia, dal titolo Le dissonanze del
mondo. Rivoluzione francese e filosofia tedesca tra Kant e Hegel, affronta
invece la questione dell'accoglienza che i filosofi tedeschi del tempo ebbero
per i fatti dell'89.
Il primo capitolo è riservato a Kant, il quale
definisce la rivoluzione uno «spettacolo: tremendo, sanguinoso, eppure capace
di attrarre gli animi con forza irresistibile e di elevarli al di sopra della
mediocrità quotidiana» [p. 103]. La posizione di Kant risulta interessante in
vista della sua adesione ai valori dell'Illuminismo, nonostante egli sia
criticato di incoerenza, rifiutando in questo modo il «diritto di rivoluzione
degli uomini». E tuttavia la soluzione è resa nello scritto La Pace perpetua.
Il secondo capitolo è dedicato a Fichte, il quale
definisce la rivoluzione in termini di «progresso dello spirito umano» [p. 107]
e di «corso della natura» [p. 107]:
Quando si impedisce il progresso dello
spirito umano, solo questi due casi sono possibili: il primo, più inverosimile,
che noi ce ne restiamo inerti dove eravamo, rinunciando a far valere qualsiasi
pretesa di diminuire la nostra miseria e di aumentare la nostra felicità, e che
ci lasciamo imporre i limiti oltre i quali noi non intendiamo spingerci; oppure
il secondo, molto più verosimile, quando il corso della natura, che si vuol
ritardare, irrompe violentemente e distrugge tutto ciò che trova sul suo
cammino, e allora l'umanità si vendica dei suoi oppressori nel modo più
spietato e le rivoluzioni divengono necessarie [p. 107].
Il saggio passa in rassegna anche Lessing e Hölderlin
prima di giungere a Hegel.
La filosofia hegeliana è ritenuta dall'autore del
saggio una teoria post-rivoluzionaria. A tal proposito, il processo dialettico
determina che il Terrore sia una «delle tappe che costituiscono la coscienza e
il mondo del presente, uno dei modi che ha un popolo per riprendersi i propri
diritti e uno Stato per difendere la sua esistenza» [p. 121].
Il saggio è fornito di una buona appendice
bibliografica, che non tutti i saggi riportano.
Tony Judt è l'autore del saggio La rivoluzione francese e l'idea socialista fino al 1848. Esso è
molto interessante giacché cerca di ricostruire le influenze che i principi,
gli uomini e gli avvenimenti del decennio che dal 1789 al 1799 ebbero sulla
«struttura teorica del socialismo».
L'autore mostra come i primi socialisti respingessero la valenza politica della
rivoluzione francese. Egli dimostra quanto i primi socialisti fossero più
vicini ai reazionari e ai liberali (paradossalmente) se si prende in
considerazione la «critica dello status
quo».
Nel saggio si ripercorre una storia del pensiero
socialista in Francia, partendo da Fourier e Saint-Simon, fino alla vigilia
dell'uscita del Manifesto del Partito
comunista.
I socialisti della prima metà del secolo XIX sono
interessati al sociale e alle ingiustizie più che alle rivendicazioni
politiche. Il saggio ci dice, inoltre, le necessità dei socialisti di inserirsi
all'interno delle strutture create dalla rivoluzione francese, a confrontarsi
nelle attività parlamentari, a sopravvivere in un sistema parlamentare, grazie
al sostegno del proletariato, dato non scontato o sconosciuto ai primi
socialisti: «I socialisti francesi dovettero imparare a lavorare in un sistema
parlamentare» [p. 157].
L'autore afferma, inoltre, che è proprio Marx a essere
«[...] sensibile ai guadagni della rivoluzione francese considerandoli come un
preludio necessario alla rivoluzione socialista e trattando, perciò, tutte le
libertà acquisite come permanenti e proficue» [p. 156].
Il saggio di Alessandro Galante Garrone, docente di storia moderna, La rivoluzione e il Risorgimento italiano,
cerca di fare luce sulla filiazione diretta tra i due fenomeni storici. La rivoluzione è un modello.
È interessante, invece, cogliere in che modo la
rivoluzione francese abbia lasciato negli animi degli italiani «la consapevolezza
di quel che fosse il bene della libertà, e il tormento di non possederla» [p.
173].
Non a caso il saggio rimanda all'esperienza della
Carboneria prima e di Mazzini poi:
La rivoluzione francese è, ancora una
volta, la promotrice di una nuova età, un modello esemplare. In questo momento
Mazzini sembra accettare l'iniziativa rivoluzionaria della Francia, come
l'evento più probabile: e caldeggia una nuova, grande rivoluzione, che
ripercorra tutte le fasi di quella settecentesca, incluso il 10 agosto ma escluse
le esasperazioni del Terrore. [...] Continuava ad ammirare la Francia grande e
potente, e insieme temeva che, forte del suo prestigio, potesse ancora mettersi
alla testa della rivoluzione europea. Ma soprattutto, egli pensa che il vero
problema dell'Italia era quello del suo risorgere a nazione libera,
indipendente, unita. Ogni altro problema, come quello di una radicale
trasformazione della società, doveva cedergli il passo. La redenzione delle
plebi sarebbe venuta dopo. Ogni generazione aveva un suo compito primario ed
essenziale. La rivoluzione dell'Ottantanove doveva valere come una perenne
lezione per tutte quelle a venire [pp. 185-187].
In questo saggio è presa in considerazione
l'attenzione che il giovane Cavour presta alla rivoluzione francese:
Cavour non era, in quegli anni,
pregiudizialmente ostile alla tradizione rivoluzionaria, e neppure
indifferente. [...] Quel che riteneva con certezza, era che solo dalla Francia,
chiunque ne fosse alla testa, sarebbe potuto venire un rivolgimento vittorioso
nella nostra penisola. Su questo punto, i documenti parlano chiaro. Comunque
andassero a finire le cose, dalla vittoria della rivoluzione in Francia sarebbe
dovuta nascere anche «l'aurore du jour qui doit éclairer la régéneration
italienne» [p. 189].
Chi invece è avverso alla rivoluzione è Cesare Balbo,
rimasto fedele al concetto di libertà medievale, benignamente concessa dal
monarca, perché «tutto il resto che era venuto dopo [la convocazione
degli Stati Generali] non era che una aberrante, deplorevole deviazione» [p.
193].
La seconda parte del libro si apre con un saggio di
Bronislaw Geremek, storico polacco, dal titolo Lo Stato-nazione nell'Europa del XX secolo. Questo scritto è forse
quello che paga un prezzo maggiore rispetto ai 23 anni del libro. Tuttavia
alcuni aspetti presi in considerazione dallo studioso sono ancora pertinenti
per le sorti politiche dell'Unione Europea.
Il problema della cessione di sovranità degli stati
appartenenti all'Unione per creare una confederazione di stati si scontra con
il principio e l'idea di Stato-nazione che ha il suo genesi nella Rivoluzione
francese. Partendo da un esame dei concetti di «nazione», «stato» e «popolo»,
l'autore cerca di dimostrare quanto il concetto di «stato-nazione» sia messo in
discussione, non solo dagli eventi bellici del XX secolo, nonostante esso
rappresenti uno delle premesse ideologiche, ma anche dal riassetto europeo dopo
gli accordi di Yalta.
Il saggio si conclude con un monito, che invita il
lettore e lo studioso a non sottovalutare i pericoli del nazionalismo e di
quanto esso possa essere una «forza pericolosa e cieca» [p. 220]: secondo
l'autore infatti, questi pericoli possono annidarsi proprio nel
deprezzamento dell'idea nazionale [...],
[poiché] il nazionalismo si serve del principio nazionale in modo strumentale,
e si concentra sullo sviluppo dello Stato. Invece, nel modello di
Stato-nazione, divenuto patrimonio comune dell'Europa, lo Stato è limitato e
temperato dalla «sovranità del popolo», e nel gioco fra le aspirazioni e le
realizzazioni appaiono non soltanto conflitti di interessi, ma anche un
sentimento di fratellanza e solidarietà, elementi dei rapporti fra gli uomini, che
non stanno a loro agio nell'apparato concettuale dello storico o del sociologo,
in quanto carichi di enfasi [p. 220].
Il saggio Francia
e Russia: analogie rivoluzionarie di Vittorio Strada si pone l'obiettivo di
ripercorrere ed esaminare la tradizione storiografica e ideologica che attuò
l'operazione di accostamento tra la Rivoluzione francese e la Rivoluzione
russa.
Prima di addentrarsi nella questione l'autore
distingue quattro tipi di analogia: retorica, pragmatica, euristica e teorica.
L'analogia retorica si ha quando si fa un confronto tra eventi storici e quando
uno di questi eventi viene considerato come carico di valore positivo o
negativo. L'analogia pragmatica è un confronto a priori operato dagli attori
stessi dell'evento e ne modellano il proprio comportamento, il cui paradigma si
vuole imitare, variare o evitare. L'analogia euristica, frutto delle moderne
scienze sociali, ha invece lo scopo di ricercare un modello da utilizzare per
l'analisi, mettendo a confronto due eventi. L'analogia teorica è sì la sintesi
delle precedenti, ma anche l'acquisizione di una prospettiva, «che permetta di
vedere i fenomeni oggetto di confronto analogico per entro un sistema
storico-universale» [p. 224].
Il saggio tuttavia prende in considerazione alcuni
scritti che risultano emblematici per la questione. Il primo a essere citato è
quello di Albert Mathiez, Le bolchévisme
et le jacobinisme, Paris 1920.
Il secondo saggio a essere studiato è quello del primo
marxista cinese Li Ta-Chao, Una visione
comparativa della rivoluzione francese e russa, 1918.
L'altro scritto a essere sotto osservazione è il
saggio di Trotskij, I nostri compiti
politici, Ginevra 1904.
Non possono non essere prese in considerazione le
opere di Lenin:
Le tesi di Lenin è che già nella rivoluzione
francese il liberalismo non sia stato in grado, perché non ne era interessato,
di condurre a compimento la rivoluzione democratico-borghese: «la borghesia
liberale in Francia ha cominciato a dimostrare la sua ostilità alla democrazia
coerente già nel movimento del 1789-1793. [...] La tesi paradossale di Lenin è
che la rivoluzione borghese può vincere soltanto nonostante la borghesia e
grazie al proletariato, il quale deve farsi l'egemone di una rivoluzione non
'sua', ma destinata a diventare sua, grazie a un ritardo storico che provoca
una sorta di corto circuito tra due rivoluzioni, quella borghese e quella
proletaria, in Occidente lontane nel tempo, ma in Russia contigue, se non sovrapposte
almeno parzialmente» [pp. 234-235].
La tradizione di analogie e confronto tuttavia, è
espressa negli scritti di Nikolaj Ustrjalov, Pod znakom revoljucii, Harbin 1927 e di Stalin, Sočinenija, Moskva 1949.
Vittorio Dan Segre è l'autore del saggio intitolato La Rivoluzione francese e il Sionismo.
Il saggio affronta con originalità la questione della nascita del Sionismo. Secondo
l'autore l'emancipazione degli ebrei in Francia, si svolse in due fasi: la
prima fase riguarda il decreto del 22 gennaio 1790, che concedeva agli ebrei
sefarditi i diritti di cittadinanza; la seconda fase con il decreto del 27
settembre 1791, che includeva anche gli ebrei aschenaziti.
Per il fondatore del Sionismo, Theodor Herzl, l'ondata
antisemita dell'«affare Dreyfus» è la «prova del fallimento degli ideali della
rivoluzione, quella rivoluzione in cui egli, come tanti altri ebrei assimilati,
aveva ciecamente creduto [...]. La crisi provocata dall'antisemitismo era
dunque doppia: crisi di sopravvivenza fisica per gli ebrei, crisi morale per la
società civile europea» [p. 253].
Il Sionismo era quindi la «reazione degli ebrei
'orgogliosi' alla reazione degli antisemiti contro i valori proclamati
dall'Illuminismo e dalla rivoluzione» [p. 257].
I diritti
dell'uomo è il titolo del saggio di Luc Ferry. L'autore indica la
Dichiarazione americana del 1776 e la Dichiarazione francese del 1789, quali
basi teoriche della discussione contemporanea sui diritti dell'uomo. Le due
dichiarazioni sono quindi «indissociabili dall'idea di rivoluzione» [p. 273].
Tuttavia le due dichiarazioni presentano uno «status filosofico diverso»,
perché «la nozione di rivoluzione con cui pretendono istituirsi i diritti
dell'uomo è nei due casi concepita in modo del tutto differente» [p. 273].
La rivoluzione americana, secondo Ferry, «s'ispira
[...] alle idee di Locke, mentre la fonte intellettuale della concezione
rivoluzionaria francese è più facilmente rintracciabile nella combinazione tra
le idee di Rousseau e quelle dei fisiocratici» [p. 273]. E stando alle parole di Habermas la
«dichiarazione americana del 1776 si basa sull'idea profondamente liberale che
la società, nel suo funzionamento naturale, realizza per così dire automaticamente i diritti dell'uomo,
purché lo Stato accetti di limitare i propri interventi» [p. 273].
La rivoluzione americana, che del resto non
deve rompere con un Ancien Régime ma solo raggiungere l'indipendenza, si fonda
sull'idea di una società naturalmente buona, sull'interesse individuale rettamente
inteso e su un common sense
preesistente, e non su una virtuosa volontà generale cui spetterebbe migliorare
la società in nome di un ideale morale. È invece questo secondo modello ad
attivare la Dichiarazione francese anche quando, paradossalmente, è opera dei
fisiocratici: paradossalmente perché sarebbe stato lecito attendersi che coloro
i quali apparivano già sul piano economico come gli ardenti difensori del laissez faire, laissez passer,
sostenessero piuttosto una rivoluzione americana. [p. 275].
Il saggio si addentra quindi su questioni
squisitamente filosofiche, in particolar modo di quelle di filosofia del
diritto. Esamina poi il rapporto fuorviante che deriva dall'associazione tra
politica nell'antichità e politica nell'epoca moderna. Da questa analisi
traspare una posizione che non è originale, sebbene valida e condivisibile,
secondo la quale è impossibile tentare una crasi,
anche solo approssimata tra la politica, le forme di governo e le basi teoriche
degli antichi e dei moderni: «l'autorità
politica legittima non imita un ordine naturale o divino, ma si basa sulla
volontà individuale e quindi, per impiegare il termine filosofico adatto, alla
soggettività» [p. 285].
Il saggio cerca inoltre di mettere alla luce le
differenze tra la concezione liberale («diritti-libertà») e la concezione
socialista («diritti-rivendicazione») dei diritti dell'uomo. A questa
discussione si inserisce una sintesi del dibattito sulla critica neo-liberale
ai diritti sociali che prende in considerazione problemi riguardanti lo stato
liberale, lo stato assistenziale e lo stato totalitario. E lo stesso autore
indica una stretta correlazione tra il liberismo e lo stato assistenziale più
che tra lo stato assistenziale e quello totalitario.
L'ultimo saggio è di Pasquale Pasquino e s'intitola Il concetto di rappresentanza e i fondamenti
del diritto pubblico della rivoluzione: E. J. Sieyès. Il contributo è
dedicato alla disamina degli scritti di Sieyès in cui si affrontano i temi
fondamentali della rivoluzione francese: «La Costituzione francese del 1791
consacra come fondamenti del diritto pubblico dell'Europa contemporanea,
accanto alla separazione dei poteri (art. 16 della Déclaration des droits), la sovranità nazionale e il governo
rappresentativo» [p. 297].
Il tema principale di questo saggio riguarda la «forma
rappresentativa e la legittimazione popolare, attraverso le elezioni, dei
poteri pubblici restano alla base degli ordinamenti costituzionali delle
democrazie occidentali» [p. 298].
Il saggio affronta anche il concetto di «Nazione»
nella storia, prendendo le mosse da uno studio di E. Fehrenbach. Nel 1789 il
termine/concetto 'nation'» assume nel vocabolario politico «tre diversi significati
polemici:
1. Essa è una totalità omogenea ed
autosufficiente - dal punto di vista politico ed economico - che si oppone alla
società per ordini o ceti. [...] La parte, il terzo stato, si afferma come
totalità, operando una rottura sul piano del diritto, la quale costituisce il
limite più importante della teoria, per altri versi feconda, della continuità,
esposta da Tocqueville ne L'Ancien Régime
et la Révolution.
2. La nazione e la dottrina della sovranità
nazionale si oppongono alla tradizione millenaria del potere monarchico. [...]
Se il conflitto politico-sociale vede schierato il terzo stato contro
l'aristocrazia, quello politico-costituzionale oppone la nazione alla
monarchia. [...] La monarchia in Francia già nel 1789 è distrutta nelle sue
fondamenta. Su questo punto la posizione teorica di Sieyès è più coerente di
quella di Thouret o di Barnave.
3. L'idea di nazione costituisce, infine,
un principio di esclusione nei confronti dell'aristocrazia e dei privilegi,
definiti come ciò che si pone al di fuori del 'diritto comune'» [pp. 301-302].
Sieyès si chiede «chi è la nazione?»
A questa domanda l'autore risponde dicendo
che «l'originalità del concetto di nazione proposto da Sieyès consiste nel
fatto che essa è considerata sotto un duplice punto di vista: come corpo sociale, di cui bisognerà definire
i caratteri, e come soggetto giuridico,
di cui si dovranno specificare i poteri» [p. 307].
Secondo il punto di vista della nazione
come corpo sociale, Sieyès mostra come «terzo stato [...] [sia] una nazione
completa, una totalità autosufficiente e dunque autonoma. [...] La nazione è
dunque il terzo stato, cioè l'insieme dei produttori di beni e valori, che
comprendono i lavori privati e le funzioni pubbliche», identificando il terzo stato
con la «classe universale [p. 308].
Prendendo in considerazione invece, il punto di vista
della nazione come soggetto giuridico, la nazione viene a identificarsi con il «soggetto
titolare del potere costituente» [p. 309].
Alla fine è presente una scheda informativa sugli
autori dei saggi.
Consiglio questo libro a tutti quelli che intendono
affrontare uno studio sulla rivoluzione francese, sebbene sia esso datato e
scritto quando il mondo era diverso, poiché diviso ancora dall'ideologia e
dall'appartenenza al blocco sovietico o occidentale.
Piero Canale
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