Tahar Ben Jelloun,
La rivoluzione dei gelsomini. Il
risveglio della dignità araba, Milano, Bompiani, 2011, 140 p., ISBN
978-88-452-6774-1.
Che
fine ha fatto la primavera araba?
Quello straordinario movimento di ribellione spontanea è davvero riuscito a liberare
le popolazioni che hanno deciso di porre fine alle vessazioni e alla dittatura?
È questa la domanda cui cerca di dare risposta Tahar Ben Jelloun in questo
libro. L’analisi iniziale è di assoluta condanna nei confronti dei dirigenti
arabi. Tunisia, Marocco, Yemen, Algeria, Egitto, Libia: Stati diversi,
accomunati da politici che hanno confuso il paese con casa loro, e disposto dei
beni e dei cittadini come se fossero proprietà privata.
Repressioni,
arresti indiscriminati, torture, servizi segreti. Non è un mistero che Mubarak,
Ben Ali, Gheddafi non brillassero per rispetto della democrazia e dei diritti
umani. Eppure l’Europa, in più occasioni, ha deciso di chiudere entrambi gli
occhi perché è preferibile il silenzio assenso a tutela degli accordi economici
e dei grossi affari che potevano garantirle i capi di stato arabi. Per fare un
solo esempio, l’Italia è il secondo partner commerciale della Tunisia dopo la
Francia e il terzo investitore straniero: l’ENI investe in Tunisia.
Ufficialmente però la giustificazione dei ministri degli esteri di molti paesi
europei è che questi governi servono a scongiurare il pericolo di una
repubblica islamica stile Iran.
Ma
davvero l’unica alternativa possibile è
la scelta tra dittatura e integralismo islamico?
Sebbene
Ben Jelloun sia scettico riguardo all’ipotesi di un ritorno al potere degli
integralisti, i fatti recenti purtroppo ci dicono il contrario. Basti guardare
a cosa è accaduto in Egitto dopo le rivolte e il trionfo dei Fratelli
Musulmani, o a ciò che sta accadendo in Libia, dopo l’eliminazione del
colonnello Gheddafi e della sua famiglia, oppure all’Algeria dove sono ancora
brucianti le ferite per la strage di In Amenas. L’Egitto, un tempo «faro della
cultura e della civiltà araba» [p.21], si è trasformato in un paese spaccato
dove, appena un mese fa, il 64% della popolazione – pur tra mille proteste e
denunce di brogli – ha votato un referendum che introduce una costituzione
filoislamista.
È vero
che quelle rivoluzioni – che l’autore definisce «una poesia che sgorga dal
cuore di un poeta che scrive sotto dettatura della vita, che si ribella e vuole
giorni migliori» [p. 15] – sono state determinanti poiché sono riuscite a rovesciare
regimi oppressivi; ma è altrettanto vero che non sono state affatto risolutive
per i problemi reali dei paesi in cui si sono verificate. Non si tratta di
sposare tesi complottistiche riguardo ai rivoluzionari, o di chiedersi
provocatoriamente chi li ha armati e a che scopo. Si tratta di registrare un
fatto indiscutibile (in quei paesi è scoppiata la guerra civile) e di chiedersi
il perché sia accaduto.
Il
testo non si occupa, se non marginalmente, di questioni cruciali per tutto il
mondo arabo: la soluzione dell’annoso conflitto israelo-palestinese in primo
luogo; i rapporti tra Stati Uniti e Israele e i condizionamenti che questi
rapporti determinano nelle relazioni tra occidente e mondo arabo.
Il
libro ci racconta la tendenza da parte dei popoli arabi a sviluppare il bisogno
di un «padre carismatico e autoritario, unificatore e onnipresente» [p. 90] ma
anche la propensione alla frammentazione dei vari paesi arabi che tanto ricorda
– seppur per aspetti diversi – quella dei popoli europei. Peccato però che
tutto venga soltanto citato e mai approfondito.
Il
testo comunque potrebbe essere utile a quanti necessitassero di un quadro
generale relativo alla situazione di Egitto, Tunisia e Libia prima delle
rivoluzioni del 2010-2011.
Alessandra
Mangano
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