Massimo
Gramellini, Fai bei sogni, Milano, Longanesi, 2012, 223 pp., ISBN
978-88-304-2915-4.
Ho
imparato a diffidare dai libri presentati come best-seller mondiali, con
centinaia di migliaia di copie vendute. Da questo punto di vista, il libro di
Massimo Gramellini suonava veramente minaccioso (‘Il libro dell’anno. 1 milione
di copie’, dove i punti esclamativi sono semplicemente sottintesi), ma ho dato
fiducia al giornalista intelligente, ironico e mai scontato. E la fiducia non è
stata mal riposta.
Gramellini
ripercorre la propria vita, segnata irrimediabilmente, all’età di nove anni,
dalla perdita prematura della madre che, salutandolo per l’ultima volta prima
di andare a dormire, gli dice «Fai bei sogni, piccolino», da cui il titolo del
libro. L’augurio si trasforma, invece, nell’incubo personale dello scrittore,
tale Belfagor, cioè «un demone
sovrappeso (…). Un mostro molle e spugnoso che si alimentava delle mie paure:
sfiducia, rifiuto, abbandono» [p. 58] e che lo accompagna per tutta la vita,
fino ad una tardiva riconciliazione con se stesso dovuta ad una rivelazione
inaspettata ed alla presenza di una donna accanto, la moglie Elisa, che riempie
il vuoto lasciato dalla perdita della presenza femminile della madre.
Quello che rende straordinariamente coinvolgente
questo libro e che, credo, ne abbia decretato il successo, è la capacità che
Massimo Gramellini possiede di descrivere l’animo umano, partendo dalla sua
vicenda personale, con semplicità e leggerezza tali da riuscire a coinvolgere
qualsiasi tipologia di lettore, che si compenetra nella storia narrata e si
identifica nel suo percorso catartico. La tematica dell’abbandono, intorno a
cui ruota il libro, e della sofferenza che l’abbandono determina si solleva,
così, dall’ambito personale dell’autore per assurgere a livello universale, con
una precisione nella resa che solo la poesia raggiunge nei casi più fortunati.
Le frasi da riportare, come esempio sarebbero veramente tante. Una per tutte:
«Non essere amati è una sofferenza grande,
però non la più grande. La più grande è non essere amati più. Nelle
infatuazioni a senso unico l’oggetto del nostro amore si limita a negarci il
suo. Ci toglie qualcosa che ci aveva dato soltanto nella nostra immaginazione.
Ma quando un sentimento ricambiato cessa di esserlo, si interrompe brutalmente
il flusso di un’energia condivisa. Chi è stato abbandonato si considera
assaggiato e sputato come una caramella cattiva. Colpevole di qualcosa
d’indefinito». [pp. 28-29]
Gramellini,
nella sua ‘poesia in prosa’, sforna delle descrizioni da manuale di sentimenti
e stati d’animo in cui è impossibile non riconoscersi, e, parallelamente,
provare una sorta di conforto nella certezza di capire ed essere capiti, nel
carattere universale di certi sentimenti.
A tutto
questo si unisce uno stile deliziosamente ironico e quasi geniale in
determinate trovate, che fa ridere, fa piangere e fa riflettere, soprattutto
nelle pagine dedicate a quel bambino che è stato, e che ancora si porta dentro,
ibernato nell’istante di quel fatidico giorno, a cui guarda con un sorriso
tenero e malinconico per la fragilità dei suoi nove anni messa a dura prova da
un dolore tanto grande. La domanda che si pone Gramellini: «Volevo essere rassicurato sulla mia
ossessione: che la ferita dell’infanzia non mi avesse segnato l’esistenza in
modo inesorabile» [p. 74] è la stessa che ci poniamo noi come lettori:
avremmo goduto della stessa creatività, della stessa ironia che il dolore della
vita ha reso in alcuni punti amaro sarcasmo, se Gramellini non avesse subito
questa immensa e incolmabile perdita? Questa domanda resterà senza risposta, ma
a noi tutti resta Gramellini: e c’è solo da ringraziare.
Piccola
nota a margine: i titoli dei paragrafi in cui è suddiviso il romanzo valgono
già il prezzo del libro!
Agata
Di Raimondo
Che bella recensione, Agata. Mi hai fatto venire voglia di leggerlo. :-)
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