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martedì 5 febbraio 2013

Fai bei sogni



Massimo Gramellini, Fai bei sogni, Milano, Longanesi, 2012, 223 pp., ISBN 978-88-304-2915-4.

Ho imparato a diffidare dai libri presentati come best-seller mondiali, con centinaia di migliaia di copie vendute. Da questo punto di vista, il libro di Massimo Gramellini suonava veramente minaccioso (‘Il libro dell’anno. 1 milione di copie’, dove i punti esclamativi sono semplicemente sottintesi), ma ho dato fiducia al giornalista intelligente, ironico e mai scontato. E la fiducia non è stata mal riposta.
Gramellini ripercorre la propria vita, segnata irrimediabilmente, all’età di nove anni, dalla perdita prematura della madre che, salutandolo per l’ultima volta prima di andare a dormire, gli dice «Fai bei sogni, piccolino», da cui il titolo del libro. L’augurio si trasforma, invece, nell’incubo personale dello scrittore, tale Belfagor, cioè «un demone sovrappeso (…). Un mostro molle e spugnoso che si alimentava delle mie paure: sfiducia, rifiuto, abbandono» [p. 58] e che lo accompagna per tutta la vita, fino ad una tardiva riconciliazione con se stesso dovuta ad una rivelazione inaspettata ed alla presenza di una donna accanto, la moglie Elisa, che riempie il vuoto lasciato dalla perdita della presenza femminile della madre.
 Quello che rende straordinariamente coinvolgente questo libro e che, credo, ne abbia decretato il successo, è la capacità che Massimo Gramellini possiede di descrivere l’animo umano, partendo dalla sua vicenda personale, con semplicità e leggerezza tali da riuscire a coinvolgere qualsiasi tipologia di lettore, che si compenetra nella storia narrata e si identifica nel suo percorso catartico. La tematica dell’abbandono, intorno a cui ruota il libro, e della sofferenza che l’abbandono determina si solleva, così, dall’ambito personale dell’autore per assurgere a livello universale, con una precisione nella resa che solo la poesia raggiunge nei casi più fortunati. Le frasi da riportare, come esempio sarebbero veramente tante. Una per tutte:
«Non essere amati è una sofferenza grande, però non la più grande. La più grande è non essere amati più. Nelle infatuazioni a senso unico l’oggetto del nostro amore si limita a negarci il suo. Ci toglie qualcosa che ci aveva dato soltanto nella nostra immaginazione. Ma quando un sentimento ricambiato cessa di esserlo, si interrompe brutalmente il flusso di un’energia condivisa. Chi è stato abbandonato si considera assaggiato e sputato come una caramella cattiva. Colpevole di qualcosa d’indefinito». [pp. 28-29]
Gramellini, nella sua ‘poesia in prosa’, sforna delle descrizioni da manuale di sentimenti e stati d’animo in cui è impossibile non riconoscersi, e, parallelamente, provare una sorta di conforto nella certezza di capire ed essere capiti, nel carattere universale di certi sentimenti.
A tutto questo si unisce uno stile deliziosamente ironico e quasi geniale in determinate trovate, che fa ridere, fa piangere e fa riflettere, soprattutto nelle pagine dedicate a quel bambino che è stato, e che ancora si porta dentro, ibernato nell’istante di quel fatidico giorno, a cui guarda con un sorriso tenero e malinconico per la fragilità dei suoi nove anni messa a dura prova da un dolore tanto grande. La domanda che si pone Gramellini: «Volevo essere rassicurato sulla mia ossessione: che la ferita dell’infanzia non mi avesse segnato l’esistenza in modo inesorabile» [p. 74] è la stessa che ci poniamo noi come lettori: avremmo goduto della stessa creatività, della stessa ironia che il dolore della vita ha reso in alcuni punti amaro sarcasmo, se Gramellini non avesse subito questa immensa e incolmabile perdita? Questa domanda resterà senza risposta, ma a noi tutti resta Gramellini: e c’è solo da ringraziare.
Piccola nota a margine: i titoli dei paragrafi in cui è suddiviso il romanzo valgono già il prezzo del libro!
                                                                                
Agata Di Raimondo

1 commento:

  1. Che bella recensione, Agata. Mi hai fatto venire voglia di leggerlo. :-)

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