Roberta Lepri,
Io ero l'Africa, Roma, Avagliano
Editore, 2013, 171 pp., ISBN 978-88-8309-380-7.
Gli italiani che nel dopoguerra emigravano in Somalia e brutalizzavano,
picchiavano, facevano i Padroni con gli indigeni. Razzismo, violenza,
prepotenza. Altro che “gente di cuore” e cliché simili. Il colonialismo
italiano in Africa che è sempre stato feroce e spietato. Le legislazioni
coloniali durante la democrazia liberale e poi durante il fascismo erano da
meno, in quanto a discriminazione, soltanto alle legislazioni naziste e
sudafricane. Una storia sempre non-raccontata dalla storiografia e narrazione
“ufficiale”.
Ecco cosa racconta questo gran bel romanzo di Roberta Lepri, scrittrice
umbra di nascita ma toscana d'adozione, pubblicato nel novembre 2013 da
Avagliano Editore. Racconta questo – uno spaccato storico importantissimo e
colpevolmente trascurato – ma non solo. A partire da uno spunto autobiografico,
e con grande competenza storica e contestualizzante, la Lepri riesce a comporre
un'opera che ha un valore altissimo soprattutto a livello narrativo e – diciamo
così – umano.
Un libro che è quasi un capolavoro, sicuramente un'opera davvero intensa,
autentica, viscerale e allo stesso tempo ben costruita, sudata e lavorata in
ogni minimo dettaglio con evidente amore artigiano.
Un libro che ha solo un difetto: la casa editrice ha deciso di spacciarlo
per un libro di avventure, piazzando in copertina una foto da National Geographic e puntando tutto su
cose tipo l'esotismo del continente africano, la promessa di grandi emozioni,
scenari suggestivi, paesaggi mozzafiato eccetera eccetera. Una scelta un po'
troppo “vintage” e – direi – decisamente superata (a livello di marketing) e
che poi non rende affatto giustizia a un romanzo che invece è molto più
sfaccettato e profondo di un semplice libro di avventure.
La Lepri, infatti, è una scrittrice sapiente e appassionata – di grande
qualità e attualità, a suo modo postmoderna – e questo libro riesce a
raccontare, allo stesso tempo, una sofferta e coinvolgente storia umana e
familiare e insieme a tratteggiare un contesto storico obliato (per chissà
quali motivi) dalla narrazione italiana condivisa, ovvero: il colonialismo
italiano in Africa, soprattutto quello del dopoguerra in Somalia.
Io ero l'Africa racconta una storia italiana e una
storia umana. Una storia di emigrazione e sopraffazione, di scardinamento e
disvelamento. Teo e Angela che dalle campagne umbre se ne vanno in Africa, in
Somalia, a gestire una piantagione di banane nei pressi di Mogadiscio. Sono gli
anni '50 e l'agricoltura delle campagne umbre non rende più niente, la fame e
la miseria peggiorano sempre di più, nonostante che in Italia – dicono in
televisione – ci sia il cosiddetto Boom Economico. Teo è figlio di un mezzadro
di modestissime condizioni economiche. Ha sposato Angela, che è più ricca di
lui, più alta di lui, giunonica, imponente e biondissima tanto che Teo la
chiama “la Normanna”. Angela però è pure chiamata “la Santa” perché è devota,
sottomessa e timorata di Dio, educazione cattolica e addirittura un fratello
vescovo. Per loro – per Teo e Angela – l'Africa è occasione di cambiamento e,
forse, di disvelamento. Bruciare convenzioni e sovrastrutture sociali. Teo –
socialista che in Italia parlava sempre di giustizia ed eguaglianza – diventa
padrone feroce e autoritario che picchia i neri. Angela – la Santa – viene
investita dalla vastità degli orizzonti della terra d'Africa, viene stravolta a
livello intimo da quella natura selvaggia, colori forti, odori forti, Angela
che prova attrazione per la pelle dei neri, che si chiede come dev'essere
toccare la pelle dei neri, che viene sconvolta dall'erotismo suscitato da Said,
guerriero Masai al servizio di Teo, silenzioso, orgoglioso, superiore, quasi
astratto. Angela che non prova più vergogna per i suoi istinti – che freme per
quelle notti africane che odorano “di foglie umide e di sterco” – tutta presa
da una blasfema e inaudita “gratitudine pagana” verso quel cosmo.
La Lepri ha il dono di una lingua di straordinaria qualità: sveglia e
agile, elegante ed efficace, mai banale e capace di essere delicata e
carezzevole ma anche – quando occorre – feroce, crudele, di una violenza
controllata e intelligentissima. Oltre alla lingua in senso stretto, la Lepri
riesce sempre – senza sbagliare un colpo – a raccontare personaggi, situazioni
e azioni che affondano le loro radici in una sensibilità di scrittrice
acutissima e priva di pregiudizi, ideologie, letture stereotipate. Tutto ciò
che viene raccontato dalla Lepri è (o dà l'impressione di essere) carne e
sangue, roba vera, sentita e in qualche modo – sempre – “vissuta”. Niente di
tutto ciò che racconta la Lepri sembra un artificio letterario, un tappabuchi
narrativo, una pigrizia scrittoria. La letteratura della Lepri – per questi
motivi – è di un'intensità e di un'autenticità che raramente si trovano nei
raffazzonatissimi e artificiosissimi Grandi Autori Italiani, e questo libro –
con alcuni minuscoli accorgimenti di editing – ha la qualità, l'energia e la
freschezza per essere notato a livello nazionale e non sfigurare in
competizioni tipo il Premio Strega o queste acclamatissime (e mistificatorie, e
disoneste) occasioni di vetrina letteraria.
Nino Fricano
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