Mordecai Richler, La versione di Barney, Milano, Adelphi, 2004, 490 pp., ISBN 978-88-459-1570-3.
"Senti, Miriam è a Toronto, e tu sei qui. Divertiti un
po'".
"Non capisci".
"No, sei tu che non capisci. Alla mia età non
rimpiangerai
le marachelle che hai fatto, ma quelle che non hai
fatto".
C'è questo tizio di circa
sessant'anni, non troppo straordinario, che nella sua vita ha vissuto un po' di
eventi straordinari. Si chiama Barney ed è canadese. Di Montréal, per la
precisione. Ha avuto tre mogli, di cui una (la prima) morta suicida, un amico,
tanto genio quanto fallito, della cui scomparsa è stato accusato, e soprattutto
ha frequentato, durante la sua bohème parigina, un tizio che ha avuto la
ventura di diventare uno scrittore famoso e la pessima idea di scrivere un
libro di memorie (Il tempo, le febbri – il titolo lascia intendere con
miracolosa chiarezza di che razza di scrittore stiamo parlando), pieno di
menzogne su Barney. O almeno: menzogne a detta di Barney. Che decide,
quindi, di mettersi a scrivere a sua volta (infrangendo un solenne
giuramento) per stendere
la propria autobiografia. Ossia, la propria versione della propria
vita.
Se Barney racconti bugie o meno,
non ci è dato saperlo. Che sia sincero, invece, è una certezza.
Nel suo ultimo lavoro, dato alle
stampe nel 1997 (2001 in Italia), Mordecai Richler (1931-2001) celebra la vita
nella sua pienezza contraddittoria, fatta di gioia e dolore, povertà e
ricchezza, amore e tradimento, giovinezza e vecchiaia, memoria e oblio. Presta
al suo protagonista una serie di vizi, tratti biografici, visioni del mondo e
tic che gli sono propri (il whisky, i sigari, l'origine ebraica, l'umile
estrazione sociale, la verve polemica, per nominarne alcuni) e crea un
personaggio a cui manca soltanto un documento d'identità perché si crei la
ressa di ambasciatori che vogliono offrirgli la cittadinanza onoraria della
propria nazione.
Molti hanno visto nella vita di
Barney una autobiografia romanzata e camuffata di Richler, dimentichi del fatto
che, per scrivere un libro come questo, con un personaggio così fortemente
caratterizzato, bisogna pur attingere da qualche parte; e da dove, se non dalla
propria vita?
Certe cose si imparano leggendo,
altre semplicemente vivendo: si può imparare dalle pagine di un libro come si convive
per una vita col senso di colpa per aver causato il suicidio di una donna
fragile e insopportabile che si è sposata più per dovere che per amore?
Si può imparare come sopprimere il
rimorso per avere dilapidato un patrimonio inestimabile di sentimenti tradendo
l'unica, straordinaria donna che si sia mai realmente amata?
Si può capire come ci si sente a
vedere il più dotato dei propri amici, quello per il cui talento si prova la
più smisurata ammirazione e la più sfrenata soggezione, affannarsi ostinatamente
a trasformare se stesso nelle macerie di ciò che avrebbe potuto essere? E che
profonda antipatia si può arrivare a provare per un altro che, sopperendo con
l'ostinazione al talento, diviene un'istituzione della letteratura inglese
contemporanea?
No. Ma Richler dimostra, una volta
per tutte, che uno scittore realmente bravo può agevolare notevolmente il
lettore in un'impresa del genere. Uno scrittore realmente bravo e di una certa
età. O, quantomeno, con una buona dose di vissuto alle spalle. Chi scrive
propende per la prima ipotesi: certi libri si possono scrivere, senza cadere
nel manierismo, solo dopo aver vissuto un certo numero di anni.
È innegabile che, lasciandosi
trasportare dalla prosa equilibrata e raffinata dell'autore canadese,
caratterizzata da periodi a volte anche ampi, ma mai prolissi, trasudante
cultura ma senza accenni di cedimento alla stucchevolezza, venga quasi da
pensare “questo tizio vorrei conoscerlo e sentirlo parlare per ore”,
sorprendendosi nel ricordare che il tizio in questione non esiste. E, meglio
ancora (forse il risultato migliore che un certo tipo scrittore possa
auspicarsi), la lettura di certe pagine dense di battute fulminanti e
personaggi delineati con pochi, essenziali tratti, riempie il lettore di una
insopprimibile voglia di guadagnare la porta di casa e ficcarsi nel folto della
vita, nella folla di personaggi, il più possibile simili a quelli del libro,
che ognuno sa dove trovare, se conosce veramente certi luoghi della propria
città.
E, a proposito di città, anche
questo romanzo di Richler è ambientato a Montréal, sua città natale, della cui
evoluzione, nel corso delle proprie opere, ha steso un ritratto vivissimo,
partendo dal nucleo della comunità ebraica (di personaggi che vi appartengono,
di termini Yiddish, di ironia giudaica sono pieni tutti i suoi libri, compresso
quello in questione), a volte limitandosi ad essa, altre (come in questo caso)
con uno sguardo rivolto all'esterno (le vicende narrate si svolgono in due
continenti).
Nonostante Barney sia schifosamente
ricco e notevolmente scafato, deve arrendersi alla malattia che lo
priverà dell'ultimo, persa la moglie e l'intimità dei figli, tesoro che gli
rimane: la memoria. Ebbene sì, il nostro soffre di alzheimer. E Richler ha
sparso indizi lungo tutta la storia, tanto che, ad un certo punto, terminare la
sua autobiografia diverrà per Barney una lotta contro il tempo. Per nostra
fortuna, il personaggio di Richler la vince. Altrimenti, senza nessuno a
raccontarla, sarebbe stato un po' come quando Boogie (l'amico idolatrato da
Barney) racconta l'incipit del suo, eternamente incompiuto, romanzo:
(...) il protagonista
sbarcava dal Titanic, approdato senza incidenti al molo di New York dopo una
traversata inaugurale. E qui veniva abbordato da una cronista, che voleva
sapere come era stato il viaggio.
Risposta:
“Noiosissimo”.
Dan Skorsky
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