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giovedì 5 giugno 2014

L'età dell'oblio

Tony Judt, L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ‘900, Roma-Bari, Laterza, 2011, 484 pp., ISBN 978-88-420-9632-0.

Impossibile recensire in modo puntuale il testo di Tony Judt. Questo volume offre, infatti, una panoramica piuttosto complessa dei protagonisti e dei fatti più importanti del secolo scorso. Intellettuali, politici, papi, persino Stati (come la Francia, l’Inghilterra, la Germania, il Belgio, la Romania) aiutano il lettore a tratteggiare i momenti storici cruciali del Novecento, con le mille contraddizioni annesse, gli eventi più rilevanti, i momenti di impasse e quelli che hanno, invece, determinato le svolte epocali. Non sempre condivisibili, da parte di chi scrive, alcune affermazioni o prese di posizione da parte dell’autore, ma senza dubbio il contributo storico che questo volume è in grado di offrire al lettore è di inestimabile valore.
L’età dell’oblio raccoglie un insieme di saggi composti da Judt tra il 1994 e il 2006. Pur affrontando svariati temi (dal marxismo francese alla globalizzazione), è possibile rintracciare i nuclei principali attorno ai quali ruotano i vari scritti: il ruolo degli intellettuali e delle loro idee e la funzione esercitata dalla storia in un’età definita appunto dell’oblio.
Nell’affrontare queste due tematiche – indubbiamente connesse tra loro – l’autore sottolinea come si sia diffusa, ormai capillarmente, l’idea secondo la quale il passato non abbia più nulla da insegnarci. Questo discutibile atteggiamento ha provocato, innanzitutto, l’oblio della guerra, rimozione, questa, particolarmente diffusa in Europa, specialmente dopo il secondo conflitto mondiale, ma anche in seguito alle terribili guerre civili che hanno martoriato il ventesimo secolo. Diversa è la realtà statunitense, dove si esaltano ancora le imprese belliche e le forze armate. Le ragioni di tale diversità sono da ricercare, secondo Judt, nel fatto che gli USA non hanno mai patito le conseguenze di una sconfitta: il loro territorio non è mai stato invaso né smembrato e, per tale ragione, i nordamericani credono ancora che le guerre alle quali hanno partecipato siano state delle «guerre giuste» [p. 9]. Quindi, se per gli europei la guerra costituisce l’ultima spiaggia cui fare ricorso, per gli statunitensi, invece, è la prima via da intraprendere in caso di risoluzione dei contrasti.
Strettamente connesso al tema della guerra è, poi, quello del declino dello Stato che ha avuto inizio proprio nel ventesimo secolo. La convinzione più diffusa è che lo Stato impedisca, con le sue innumerevoli pastoie burocratiche, con i ritardi, con la corruzione di buona parte dei suoi funzionari, il buon andamento degli affari umani. Di qui l’ingente ricorso alle privatizzazioni, nell’ultima parte del secolo passato, con conseguenze piuttosto onerose sui cittadini.
Ma il Novecento è stato anche il secolo degli intellettuali. Qual è il loro ruolo oggi?  Difficile rispondere a questa domanda in un’epoca in cui la maggior parte della gente crede che le ideologie o i sistemi di credenze siano del tutto scomparsi. Pur rifiutandoci di ammettere che le ideologie siano ormai roba d’altri tempi, bisogna altresì riconoscere che, quelle formatesi nel corso dell’Ottocento e sviluppatesi poi nell’arco del ventesimo secolo, hanno subito un profondo mutamento. Né, d’altra parte, sarebbe possibile immaginare uno scenario diverso. Le paure con cui i cittadini delle democrazie occidentali devono fare i conti oggi sono, infatti, diverse da quelle del secolo scorso: la paura del terrorismo internazionale, della velocità del cambiamento, della disoccupazione ma, soprattutto, il timore che «non solo non possiamo più decidere della nostra vita, ma che anche coloro i quali comandano hanno perso il controllo in favore di forze oltre la loro portata» [p. 23]. Questo punto della riflessione di Judt è cruciale, a mio parere, perché riesce a spiegare il diffondersi – a partire dagli anni successivi alla stesura di questa introduzione e cioè gli anni in cui stiamo vivendo – dell’avanzata dei populismi, della xenofobia, della chiusura delle frontiere. Perfetto corollario, insomma, della politica dell’insicurezza.
L’excursus attraverso le più importanti figure di intellettuali del Novecento, è – per scelta dell’autore – un viaggio attraverso i totalitarismi del «secolo breve»: Primo Levi fra tutti, che cerca le parole per descrivere l’orrore dell’olocausto, stando attento a usare toni “credibili” per i lettori. Perché la tragedia dello sterminio nazista fu anche questa: ci volle tempo prima che qualcuno iniziasse a credere alle vittime. Le prime inibizioni di Levi, in tal senso, aspramente criticate da Jean Améry saranno poi superate, definitivamente, con Se questo è un uomo che si conclude con una inequivocabile accusa di responsabilità collettiva contro quei tedeschi – la maggior parte – che seguirono Hitler [p. 63].
Il tema del totalitarismo è forte anche nell’opera di Hannah Arendt. Esso viene interpretato come «il non plus ultra del controllo e della distruzione dell’essere umano» [p. 79] e, in tal senso, fondamento stesso del regime. Nazismo e stalinismo confluiscono in lei in un unico archetipo. Questa scelta le vale moltissime incomprensioni, attirandole numerose critiche.
È il totalitarismo di Stalin che spinge, invece, Althusser – che pure Judt non esita a tacciare di astruse apologie politiche condite da folli illusioni – a dare del marxismo una «lettura sintomatica» [p. 107]. Né del resto era una novità: a lungo, nel Novecento, molti studiosi presero da Marx quello di cui avevano bisogno, ignorando il resto.
Persino Eric Hobsbawm, nella critica di Judt, vede pregiudicato il suo istinto storico dalla sua “incondizionata” adesione al comunismo. Ciò che nello specifico Judt attribuisce al grande storico, è di non aver mai affrontato «l’eredità morale e politica di Stalin e delle sue azioni» [p. 126].
Sarebbe molto difficile comprendere bene la prima parte del volume se omettessimo di dire che Judt – e chiara appare tale convinzione nel corso di tutto il volume – ritiene che tra gli estremismi di sinistra e quelli di destra, vi sia una «fondamentale affinità» [p. 127]. Non si salva il marxismo che non può certo – a dire dell’autore – sentirsi immune da responsabilità per via del totalitarismo stalinista. Anzi, andando a riprendere l’opera di Leszek Kolakowski e la sua critica feroce al marxismo, Judt si proprone di spiegare ai suoi lettori come le pesanti analogie tra la crisi della fine del diciannovesimo secolo e quella attuale, sintetizzata in parte nella formula marxista dell’«esercito industriale di riserva» [p. 140], potrebbe determinare una rinascita del marxismo come unica chiave risolutiva al declino attuale, come soluzione alla crisi del capitalismo. E ciò per Judt rappresenta, niente meno, che una follia. Proprio perché, coloro che vorrebbero far rinascere il marxismo grazie alla caduta del comunismo, commetterebbero, a suo dire, un errore irreparabile. Quello che però Judt non ci spiega è quale possa essere l’alternativa ai due sistemi, specialmente oggi che il capitalismo sembra essersi incartato in una sorta di spirale perversa, in un labirinto senza via d’uscita, dal quale sembra sempre più difficile venir fuori.
Un altro dramma del Novecento è poi la questione mediorientale, tutt’altro che risolta. Judt fa riferimento a Edward Said e alla sua opera, perché a essa dobbiamo la verità sul trattamento dei palestinesi da parte di Israele, ma anche il riconoscimento della necessità di trovare degli accordi, partendo dall’ammissione dei propri difetti e dei propri errori. Said non esita, infatti, a rivolgere critiche feroci ai leader arabi, in particolare a quelli dell’OLP, accusandoli apertamente di ogni sorta di corruzione e cupidigia; ma non tralascia, per questo, di segnalare tutti gli abusi compiuti da Israele a danno dei palestinesi, con la complicità degli Stati Uniti. La peculiarità della vicenda mediorientale è, tra l’altro, basata sul paradosso vissuto dai palestinesi, di essere «vittime delle vittime» [p. 170]. Sì, perché chi aveva cacciato i palestinesi dalle loro legittime terre non erano i colonialisti occidentali, ma i sopravvissuti all’Olocausto. Questa riflessione, legata anche alle analisi sui puntuali fallimenti di tutte le negoziazioni, ha spinto Said a passare dalla convinzione di una necessaria costruzione di due stati per due popoli, all’idea che fosse meglio, invece, creare uno stato unico secolare per israeliani e palestinesi.  Ma Said si spinge oltre: comprende che i veri nemici della pace in Medio Oriente sono gli americani. Non tanto i governi quanto piuttosto l’opinione pubblica statunitense, che si mostra sensibile alla causa israeliana perché non ha mai conosciuto quella palestinese. Per questo, per tutta la vita, Said cerca di tenere sempre vivi in America la questione palestinese e il conflitto mediorientale. Ed è proprio sulla scia delle teorie di Said che Judt formulerà, nel 2006, un articolo molto interessante, pubblicato sul quotidiano liberale israeliano Ha’aretz, che peraltro susciterà molte reazioni critiche. In esso Judt taccia apertamente Israele di immaturità. Successivamente alla Guerra dei Sei giorni (1967), la percezione che gran parte del mondo aveva avuto di Israele, fino a quel momento, cambia radicalmente, come dimostra la diffusione repentina di un nuovo simbolo, destinato ad avere una fortuna universale, e che verrà riprodotto su migliaia di editoriali giornalistici e vignette satiriche: la Stella di David su un carro armato [p. 279]. L’autore afferma apertamente che non è possibile giustificare ogni azione di Israele ricordando Auschwitz. Anzi: non è accettabile la teoria secondo la quale chiunque critichi la politica di Israele, venga tacciato di antisemitismo. E non è accettabile perché, così facendo, Israele finisce per parlare e agire, impunemente, a nome di tutti gli ebrei. In relazione alla violazione delle leggi internazionali nei territori occupati, o all’umiliazione delle popolazioni sottomesse a cui ha confiscato le terre, è come se gli israeliani dicessero: «queste azioni non sono israeliane, ma ebree; l’occupazione non è israeliana ma ebrea; e se questo non vi va giù è perché non vi piacciono gli ebrei» [p. 281].  Israele dunque non cambia e si ostina, immaturamente, a restare immobile sulle sue posizioni. Il punto è, però, che il mondo invece è cambiato. Oggi sono sempre più numerosi i cittadini che considerano lo Stato di Israele alla stregua della Spagna di Franco. E moltissimi di questi cittadini sono statunitensi. Tutto ciò, afferma Judt, dovrebbe far riflettere tanto Israele quanto il Nord America che è l’unico suo sostenitore.
Sugli Stati Uniti e sulla sua storia novecentesca, fatta di ostilità più o meno cruente, l’autore si sofferma a lungo. Da qui l’affascinante report sulla crisi missilistica a Cuba del 1962. La ricostruzione storica e dettagliata dell’evento è condita dalla citazione di numerosi dialoghi tra i protagonisti della vicenda – ricavati dalle registrazioni – che ci forniscono un quadro preciso sia sui rapporti di forza all’interno degli Stati Uniti e tra gli uomini della presidenza Kennedy, sia sulle loro qualità caratteriali e sul loro modo di reagire ai momenti di crisi nelle fasi cruciali e concitate. Solo i fratelli Kennedy, peraltro, sapevano che le conversazioni venivano registrate. Possiamo quindi leggere stralci di discussioni tra il vicepresidente Lyndon Johnson e l’ExComm Mc Namara; oppure tra il Presidente Kennedy e il Generale Wheeler o tra Kennedy e l’ex ambasciatore a Mosca Llewellyn Thompson. Attraverso queste testimonianze dirette, riusciamo a comprendere meglio non solo quella crisi, ma anche i rapporti reali tra il Presidente USA e i militari. Questi ultimi non provavano per lui che un mero sentimento di disprezzo, assolutamente ricambiato, peraltro, con l’aggiunta di una buona dose di sospetto.
Profonda e interessante analisi, poi, è quella che l’autore dedica al confronto tra Europa e Stati Uniti. Colpisce molto la parte dell’articolo – scritto tra il 2002 e il 2006 – in cui Judt fa riferimento a diverse autorevoli voci, secondo le quali un’Europa compatta e unita rappresenterebbe una minaccia agli interessi degli Stati Uniti. Dunque l’America ha tutto l’interesse a bloccare sul nascere questa unione [p. 391]. In effetti, osservando bene quanto sta accadendo oggi, a ben otto anni di distanza da quell’articolo, tale affermazione deve far riflettere. Siamo alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo e l’Europa sembra tutt’altro che una realtà unitaria e solidale, anzi, in molti casi è sentita fortemente come un’entità lontana e persino ostile ai cittadini, tanto che i sondaggi danno l’astensionismo al 40% e le previsioni decretano una pericolosa avanzata dei populismi.
Ritornando, per un attimo, al confronto tra Europa e America esce fuori un quadro mediamente idilliaco della prima, rispetto alla seconda: vi campeggia un continente che, grazie alla lezione appresa nel passato, «non conoscerebbe, se non raramente, il patriottismo belligerante di stile americano» [p. 393]. Eppure l’Europa è una realtà piena di contraddizioni e, spesso, di scelte violente che non si possono omettere: dalla produzione di armi (di cui il nostro continente detiene il triste primato) agli interventi militari (Iraq, Afghanistan, Libia) solo per fare alcuni esempi. Un’Europa che non sembra interessata né alla questione mediorientale, se non per appoggiare la politica statunitense di supporto a Israele, proprio in un momento in cui – come abbiamo visto – le reazioni alla condotta americana si fanno sempre più severe; né alla incredibile emergenza umanitaria delle massicce ondate migratorie provenienti dal continente africano e dalla Siria che, in questi giorni, stanno interessando le coste della Sicilia.
Dinanzi a questo panorama tutt’altro che idilliaco, le conclusioni di questo volume, appaiono di incredibile attualità. Non è casuale, a mio avviso, la scelta da parte di Judt, di una lucida quanto sconfortante analisi, risalente al 1997, del sorpasso da parte della destra neofascista e xenofoba sui partiti di sinistra. In Francia, ad esempio – allora come oggi – sono proprio gli ex elettori di sinistra a votare Le Pen.  Perché? Le parole amare che Judt dedica, alla fine, alla sinistra europea (in particolare ai socialisti) riflettono una condizione attualissima e una ferita ancora aperta che si è già ulteriormente incancrenita: la visione di una sinistra incapace di governare e in permanente protesta. Dice l’autore: «la sinistra non ha idea di cosa potrebbe significare un suo successo politico, se riuscisse a conseguirlo; non ha una visione articolata di una società buona, o semplicemente migliore, di quella attuale. In assenza di una simile visione, far parte della sinistra non è che prendere parte a una protesta permanente» [p. 411]. Come è possibile, del resto, dargli torto? Oggi, poi, che la situazione si fa ancora più pesante – rispetto al 1997 – in considerazione del fatto che i governi hanno un margine limitato di iniziativa politica in materia fiscale e monetaria? Ciò, ovviamente, determina il principio secondo cui, vinte le elezioni, nessun governo rispetta mai gran parte delle promesse fatte in campagna elettorale.
Come salvarci dunque? Judt ci ha lasciati nel 2010, stroncato da una malattia orribile che lo ha tenuto, fino all’ultimo, prigioniero lucidissimo di un corpo ormai morto. In una sua ultima intervista a Charlie Rose, ci dice, tra le tante cose, che la sua paura più grande è quella di venir privato della possibilità di comunicare. Pensiamo che per uno storico questa sia una delle pene più atroci da sopportare. Non possiamo fare a meno di chiederci cosa penserebbe Judt di questi ultimi quattro anni, del modo in cui rileggerebbe la storia del Novecento alla luce degli ultimi eventi, ma soprattutto ci chiediamo se continuerebbe a pensare, con speranza, che lo Stato moderno possa ancora salvarsi, determinando il modo migliore della distribuzione – sia pure soltanto a livello locale – della crescita economica generata dai privati [p. 415].
Consiglio la lettura di questo volume perché – a prescindere dalle convinzioni ideologiche o dagli approcci storiografici – rappresenta un ricchissimo strumento di conoscenza e riflessione sugli uomini e i fatti di un secolo, il Novecento, col quale dobbiamo fare i conti ancora oggi. Perché è soltanto leggendo tra le carte di quel secolo che, forse, possiamo trovare la chiave interpretativa per il presente – del tutto oscuro e ancora in fieri – che ci tocca in sorte vivere. E forse, almeno così si augura chi scrive, la sinistra europea, sempre più divisa dai protagonismi e dall’inettitudine, troverebbe qualche spunto per decidersi, finalmente, ad intraprendere una seria riflessione sulle alternative concrete alla globalizzazione economica, alle sue leggi spietate e alle sue insaziabili richieste.


Alessandra Mangano

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