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giovedì 5 giugno 2014

Il trono vuoto

Paolo Viola, Il trono vuoto. La transizione della sovranità nella rivoluzione francese, Einaudi, Torino 1989, 200 pp., ISBN 88-06-11447-6.

Prima dei fatti del 1789 il termine "rivoluzione" indicava un grande atto riformatore che facesse uscire lo Stato dall'illegalità, rendendo una «libertà precedente, forse mai esistita prima di allora, ma in qualche modo radicata nella ragione umana, e quindi nel tacito patto fra chi governa e chi è governato» (p. VII).
La rivoluzione francese fu, invece, un fenomeno innovativo, che colse di sorpresa sia le persone colte e politicizzate, sia «chi era stato da sempre oggetto passivo della sovranità e si trovava ora a esserne collettivamente il soggetto» [p. VIII].
La rivoluzione fu quindi un «trauma della transizione della sovranità». Tuttavia essa è il luogo anche di altre transizioni nelle diverse sfere della politica, dei conflitti sociali e dell'economia.
L'ambiguità del termine "rivoluzione" fa in modo che i contemporanei parlassero di «terminare la rivoluzione» ancor prima dei fatti dell'Ottantanove.
Dal 1789 al 1793 si verificò quel vuoto di sovranità che terrorizzò il popolo. A questo punto si fa forte e storicamente rilevante la posizione dei giacobini. Il giacobinismo, infatti, riuscì a «dirigere la rivoluzione», e «fu l'unica forza politica che si diede da fare concretamente ed efficacemente per essere gruppo dirigente della rivoluzione, e per far valere la propria 'egemonia' sulle forze sociali che erano state evocate» [p. X]. Il giacobinismo non a caso è visto come luogo di nascita della politica moderna.
La transizione della sovranità si concluse, o si avviò a conclusione nel 1793, quando il «trono vuoto» venne rioccupato.
L'analisi compiuta da questo libro propone l'individuazione di due momenti di svolta della rivoluzione francese.
Il primo momento è l'estate del 1789: la rivoluzione si trasforma dal «progetto costituente che si sforzava di terminare la 'rivoluzione', cioè l'illegalità della monarchia, in una catastrofe alla quale non si può, non si sa, addirittura non si vuole opporsi». Il secondo momento è la fine del 1792, quando la rivoluzione ha esaurito il suo andamento catastrofico: allora essa potrà esprimere un gruppo dirigente egemone capace di rioccupare il trono rimasto vuoto.
I due momenti, a giudizio di Paolo Viola, separano le tre fasi della rivoluzione francese: bisogna però badare – ed è l'autore a specificarlo – che non si tratta di tre fasi cronologiche, ma di tre momenti logici.
La prima fase della rivoluzione, alla quale è dedicata la prima parte del libro, è caratterizzata dalla volontà dei dirigenti di terminare l'illegalità con un progetto costituzionale, e quindi di «terminare la rivoluzione». La prima fase è quindi quella dell'«immenso equivoco che caratterizza l'avvio della rivoluzione francese. Ci si proponeva di bloccare la rivoluzione con cui il re tentava di accrescere la propria sovranità, e di riequilibrarne il potere con il ricorso della conservazione, garantita dal consenso popolare, delle antiche istituzioni del regno. E così facendo, si avviava quella transizione della sovranità dal monarca al popolo, che avrebbe sprofondato un paese, mentalmente e istituzionalmente impreparato, verso il baratro della vera e propria rivoluzione» [p. 20].
La seconda fase, alla quale è dedicata la seconda parte dell'opera, è invece quella della «rivoluzione vera e propria, che nessuno si aspettava e che sul momento nessuno seppe fronteggiare: non un progetto, ma una fatalità; negazione di ogni costituzionalismo ma anche di qualsiasi direzione [...]», e quindi quella in cui fu impossibile non «subire la rivoluzione». In questa fase comincia a manifestarsi un movimento popolare dalle sconosciute potenzialità, che era indotto a usare la violenza; ma non era un popolo «assetato di sangue, ma di giustizia, e la giustizia fatta su Luigi XVI gli sembrava che scaricasse la nazione da un pesante fardello; che finalmente compisse la rivoluzione, o piuttosto che finalmente la iniziasse, con l'ambivalenza delle svolte fondamentali della storia, e che la libertà, come una dea dell'antichità, non si potesse propiziare se non col sacrificio di un colpevole» [p. 165].
La terza fase della rivoluzione, alla quale è dedicata la terza parte del libro, vede il tentativo di governare una violenza, di governare la rivoluzione, di occupare il trono vuoto, di «dirigere la rivoluzione», ed era necessario che «il popolo non si scindesse, bisognava che continuasse a operare in corpo unico, mantenendo la sua caratteristica, che si potrebbe definire di società naturale, di rapporto fra fratelli, prevenendo il rischio che i cittadini si isolassero per riaggregarsi secondo raggruppamenti volontari arbitrariamente legati a loro volta da vincoli organizzativi estranei alla legge, che avrebbero minacciato la collettività, perché facilmente utilizzabili dai cospiratori. [...] Senza la difesa dell'unità, o indivisibilità, o fraternità, secondo i giacobini, ma anche secondo i loro avversari, si sarebbero persi gli altri termini della triade: la libertà e l'uguaglianza. Essa diventava così il perno centrale intorno a cui ruotava tutta la politica rivoluzionaria» [p. 220].
Forse è superfluo (e magari banale) dire che ogni fase della rivoluzione francese è legata a uno dei tre termini della formula rivoluzionaria: «Liberté Egalité Fraternité». Sebbene, a conti fatti, alla libertà che mosse la prima fase e all'uguaglianza della seconda fase sopravvisse solo la fratellanza, l'unica «in grado di far sopravvivere il paese e di conservare nei limiti del possibile l'uguaglianza; mentre era incompatibile con la libertà e ne provocò, o non ne impedì la rovina» [p. 220].


Piero Canale

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