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giovedì 5 settembre 2013

Finzioni



Jorge Luis Borges, Finzioni, Torino, Einaudi, 1995, 154 pp. (ET Scrittori, 328), ISBN 978880617367.

Esistono libri cui si appartiene.
Non è necessario averli letti. Basta anche solo conoscerne il titolo, perché s'instauri un profondo legame tra la persona e il libro. E il titolo del libro ricorre nella vita, rincorre l'esistenza nelle strane circostanze, negli amori, nelle giornate infinite in cui è insopportabile riflettere, nelle giornate in cui la memoria fa cilecca e le immagini dei giorni andati ritornano confuse e fastidiose.
 È già il titolo a parlare, a trasmettere, a guidare riflessioni su mondi lontanissimi, girando l'angolo, e labirinti intricati.
 La mano, in totale autonomia, riempie le pagine di questo titolo.
Ficciones di Borges è tutto e niente. È niente come libro, raccolta di racconti. Ogni racconto è tutto. Ogni racconto è un universo che implode sulla sua contraddizione di surreale variante del mondo possibile. Come se, invece, nel nostro mondo non si scatenassero contraddizioni e situazioni surreali... la legge del verosimile in questo libro è ridicolizzata e violentata: non serve.
 Inutile seguire il filo di questo libro: è un dedalo, come quello di Ts'ui Pên, che fu governatore dello Yunnan, che dà incomodo alla memoria; una memoria che fa disprezzare di noi stessi, perché a ognuno mostra «sul volto il marchio della [propria] infamia».
 E la "luna" di Vincent Moon sorge sulle notti della lettura. E ogni pagina riapre le contraddizioni e le difficoltà. È un po' la storia della biblioteca di Babele e di tutti i libri: il dover essere, il voler dire, il dover dire, il voler dire, il dover dire, il voler essere.
 Bioy Casares è certo di aver letto la voce Uqbar nella opera The Anglo-American Cyclopaedia, ma noi siamo certi di queste "finzioni"?
 Non a caso in questa raccolta si può leggere la storia di Babilonia e della sua lotteria e dei suoi centri-scommesse che aprono in ogni quartiere e in cui tutti gli abitanti babilonesi giocano la propria esistenza e non la moneta. E c'è chi gioca l'intera pensione nelle riffe di Babilonia. Prima c'erano le librerie o i negozietti di alimentari, ora ci sono le finzioni del guadagno facile e della vincita al super enalotto. E mi viene in mente quello che scrisse Pessoa ne Il banchiere anarchico in merito alle finzioni sociali:

Il vero male, l'unico male, sono le convenzioni e le finzioni sociali, che si sovrappongono alle realtà naturali – tutto, dalla famiglia al denaro, dalla religione allo stato. Si nasce uomo o donna – voglio dire, si nasce per essere, da adulti, uomo o donna; non si nasce, a buon diritto naturale, né per essere marito, né per essere ricco o povero, come non si nasce per essere cattolico o protestante, o portoghese o inglese. Si è tutte queste cose in virtù delle finzioni sociali. Ora, queste finzioni sociali perché sono negative? Perché sono finzioni, perché non sono naturali. È negativo tanto il denaro che lo stato, l'istituzione famigliare come le religioni. Se ce ne fossero altre, che non fossero queste, sarebbero egualmente negative, perché sarebbero anch'esse finzioni, perché anch'esse si sovrapporrebbero e disturberebbero le realtà naturali. Dunque, qualunque sistema che non sia il puro sistema anarchico, il quale si prefigge l'abolizione di tutte le finzioni e di ciascuna di esse totalmente, è anch'esso una finzione. Usare tutta la nostra volontà, tutti i nostri sforzi, tutta la nostra intelligenza per creare, o contribuire a creare, una finzione sociale invece di un'altra è un assurdo, quando non è addirittura un crimine, perché è realizzare una perturbazione sociale con il fine esplicito di mantenere tutto uguale. Se riteniamo ingiuste le finzioni sociali perché schiacciano e opprimono quel che è naturale nell'uomo, a quale fine adoperarci per sostituirle con altre finzioni, quando possiamo agire per distruggerle tutte?
[...]
La tirannia che può essere scaturita dalla mia azione di lotta contro le finzioni sociali, è una tirannia che non parte da me e che dunque non ho creato io; sta nelle finzioni sociali, non l'ho sommata a quelle. Quella tirannia è la tirannia specifica delle finzioni sociali; e io non potevo, né era il mio scopo, distruggere le finzioni sociali. Glielo ripeto per la centesima volta: solo la rivoluzione sociale può distruggere le finzioni sociali; al contrario, l'azione anarchica perfetta, come la mia, può solo soggiogare le finzioni sociali, soggiogarle solo in relazione all'anarchico che mette in pratica quel processo, perché tale processo non permette una più ampia sottomissione di quelle finzioni [Fernando Pessoa, Il banchiere anarchico, pp. 14-15, 55].

 E se il dramma claustrofobico dei racconti di Borges necessita una fuga, è bene sapere che ogni via è preclusa. Nemmeno il sogno rappresenta una possibilità di evasione da queste finzioni sconcertanti. Divenire è un pericolo. Dormire anche, poiché il sogno, nel racconto Le rovine circolari, rischia di intrappolare l'esistenza nel sogno di qualcun altro. E chi ci dice che non siamo il sogno di qualcun altro?
E Finzioni è anche un'elucubrazione mentale. Gli anni della gioventù, le idee e i sogni mi avevano sempre fatto credere che le parole, e solo le mie, fossero le più vere. Credevo che i miei sentimenti fossero verità assoluta rivolta a persone vere, autentiche, legate a giorni vissuti, momenti goduti o funestamente occorsi.
 Poi però nella solitudine mi emozionai della finzione, di cose che oltre ad apparire sempre più lontane, apparivano irreali, incomprensibili. Ma la sorpresa terribile fu quella dello scoprire che la poetica creazione a vere e proprie finzioni fu rivolta. Finzioni di finzioni quindi: ispirata da finzioni, pséudea...
 Allora fu naturale porsi la domanda se anche tutto il resto non fosse anch'esso una finzione di finzioni.
 E la risposta fu solo una, nonostante Funes, tutto è finzione: ecco perché Finzioni.
 «Io ascoltavo con rispettosa venerazione queste antiche finzioni, forse meno ammirevoli del fatto che le avesse ideate un uomo d'un impero remoto, nel corso d'una disperata avventura, in un'isola occidentale. Ricordo le parole finali, ripetute in entrambe le versioni come per un comando segreto: 'Così combatterono gli eroi, tranquillo e ammirevole il cuore, violenta la spada, rassegnati a uccidere o a morire'» [Il giardino dei sentieri che si biforcano, p. 89].
Ecco perché finzioni ha un altro significato: separare e il suo contrario, unire. Già, perché finzioni e verità sono cose diverse, ma credere alle finzioni e non credere alla verità è la stessa cosa. Ed è inutile spiegare dove sta la finzione e dove la verità, tutto si mescola perché in ogni cosa si crederà in ciò che è conveniente e si taccerà di menzogna quello che non conviene.
 Ecco perché Finzioni di Borges è anche la fine di un amore, perché fu più facile credere e gioire delle finzioni, che delle verità.

Lorenzo Cusimano



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