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domenica 5 maggio 2013

Il trono cremisi



Sudhir Kakar, Il trono cremisi, Vicenza, Neri Pozza, 2010, 318 pp. (Le Tavole D'Oro), ISBN 978-88-545-0482-0.

Il libro racconta gli ultimi anni del regno di Shah Jahan, imperatore Mogul, e la guerra fratricida per la conquista del trono; la vittoria di Aurangzeb su Dara, il Wali Ahad (l'erede al trono). Questa però è soltanto la storia dell'India del XVII secolo.
Il romanzo racconta questa vicenda attraverso gli occhi di due "medici" europei, Niccolò Manucci (un veneziano) e François Bernier (un francese discepolo del filosofo Gassendi), entrambi entrati a far parte della corte dei Mogul. Agli occhi dei due narratori l'India si presenta con tutte le sue stranezze, con tutte le sue differenze e bizzarie, con tutte le sue contraddizioni. Emergono infatti nelle pagine narrate, le descrizioni dei luoghi, molto attente puntuali, e anche una descrizione delle genti che i due europei incontrano. Nulla sfugge ai due osservatori e, infatti, mirabili e affascinanti sono le immagini che essi riescono a dare di quel mondo lontano, in cui convivono indù, musulmani e sciiti. La tolleranza religiosa di Dara si scontra con il fanatismo religioso di Aurangzeb. La guerra che si scatena fra i fratelli racconta una storia di tradimenti, di vendette e di una rassegnazione al fato: «Gli astri possono anche rivelarsi crudeli, soprattutto se il loro fuoco ha cominciato a spegnersi» (p. 245).
Nel romanzo storico si assiste anche alle diverse opinioni che ognuno dei due narratori si fa della situazione politica in India. Niccolò Manucci piange sei mesi per la disfatta di Dara e la vittoria di Aurangzeb, e la sorte che da tale vittoria toccherà agli indù perseguitati dal fanatismo religioso. François Bernier non può che lodare le doti machiavelliche del vincitore (anche se sarebbe più giusto parlare di Arthasastra, capolavoro dell'arte di governo anteriore al Principe), deprecando l'incapacità e la mollezza di Dara.
Il trono cremisi è però anche la storia di voluttà, di gelosie, di amori, di spezie e di colori. Le cronache dei due narratori europei sono anche un tentativo antropologico di comprensione dell'altro-da-sé. Questo dato risulta interessante dal fatto che, l'India descritta dagli occhi dei due viaggiatori europei, è a sua volta filtrata e narrata dall'autore Sudhir Kakar, uno dei più noti scrittori e psicanalisti indiani. L'autore si serve, infatti delle opere redatte dai due cronachisti, le quali sono puntualmente riportate in un'appendice bibliografica.
Mi piace citare questo brano dell'opera, perché mi ha profondamente colpito e reso la bellezza di un mondo lontano:
«Rifugiamoci nei piaceri della filosofia mentre intorno a noi infuriano i conflitti, Bernier» mi disse con un sorriso che non riusciva a dissimulare la tensione degli ultimi quattro mesi. «Rimarremo qui a Delhi anziché raggiungere la corte ad Agra. E voi mi svelerete i misteri del pensiero di Cartesio, e soprattutto la quarta parte del suo Discorso sul metodo. Ancora non capisco perché la frase: ‘Penso, dunque sono’ sia il principio fondamentale della sua filosofia, né per quale motivo egli la definisca una verità ‘così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla’. A me sembra la dichiarazione di fede di un credente, e non la conclusione ragionata di un filosofo» (p. 243).
L'edizione della Neri Pozza di Vicenza è corredata inoltre di un glossario in cui è riportato il significato delle parole indiane che ricorrono nel testo, un modo molto utile per far conoscere la cultura indiana di quel periodo (infatti nel glossario sono indicati i nomi degli indumenti tipici, il gergo di corte, le piante, i cibi, ecc.).
Piacevole, pregevole e utile lettura: lo consiglio.



Piero Canale



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