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venerdì 5 aprile 2013

Finale di Partito



 Marco Revelli, Finale di Partito, Torino, Einaudi, 2013, 137 pp., ISBN 978-88-06-21554-5.

I partiti politici, così come li abbiamo conosciuti nel Novecento, non esistono più, «sono divenuti  d’un colpo elastici e permeabili» (p. IX). Questo, in breve, il punto attorno al quale Marco Revelli – docente di Scienza della politica all’Università del Piemonte Orientale – costruisce un’analisi lucida e al contempo sconvolgente del nostro attuale panorama politico e istituzionale.
Un presente difficile da interpretare se pensiamo, ad esempio, alle amministrative del 2012 quando nel «Mugello del centrodestra» (la Brianza), il PDL è sceso dal 30-38% al 7-15%, mentre la Lega è passata dal 25-35% all’11-20%. Analoghi dati si sono verificati poi, anche in altre zone del Nord Italia (Cesano Maderno, Cassano Magnago paese di Bossi, Tradate, Besozzo etc.). Un’emorragia di voti senza precedenti: tutto il Nord profondo targato Lega e PDL abbandona i tradizionali partiti non soltanto perché gli scandali che hanno travolto i due leader (Bossi e Berlusconi) fanno a pugni con gli innumerevoli suicidi di piccoli imprenditori che, strozzati dalla crisi e dalle tasse, non riescono più ad andare avanti. Queste sono infatti quelle che Revelli chiama «spiegazioni ordinarie» (p. 6) e non bastano affatto a chiarire cosa sta davvero accadendo.
In primo luogo va detto che alla perdita di voti del centrodestra non ha corrisposto affatto – come accade solitamente nella logica democratica dell’alternanza – il recupero di altrettanti voti da parte del centrosinistra. Anzi, anche in quest’ultimo caso c’è stata un’emorragia di voti consistente. A vincere in queste aree è invece il Movimento 5 Stelle. Tertium datur verrebbe da dire, capovolgendo la celebre locuzione latina.
Vero protagonista delle amministrative del 2012 sembra però – accanto al M5S – l’astensionismo di cui è cambiata, invertendosi, persino la geografia: in questa occasione la diserzione alle urne è stata più forte nelle zone del Nord Italia che, fino a qualche anno fa, risultavano essere le più virtuose. Mentre il Sud, in primis la Calabria, ha dimostrato un maggiore «senso civico».
Se a rinunciare al diritto al voto sono le tradizionali regioni rosse e quelle del profondo Nord, è abbastanza chiaro, dice Revelli, che la disaffezione nei confronti della politica ha toccato maggiormente le parti più politicizzate del paese.
Ma da dove prende i voti il Movimento 5 Stelle? Da Lega, Idv e dall’area della sinistra. I voti del Pdl si perdono invece nell’astensionismo. Fin qui l’analisi lucida dei fatti.
Ma cos’è successo davvero alle tradizionali forme di rappresentanza Novecentesca?  L’autore decide di concentrarsi sull’analisi di quest’ultimo anno: da una parte il governo Berlusconi che viene messo ko dallo spread e, dall’altra, la nascita di un Governo dei tecnici, il cui Presidente appare come un deus ex machina calato dall’alto dal Capo di Stato Giorgio Napolitano, per scongiurare le urne in un momento difficile a causa dei mercati in fibrillazione. Come leggere questi due importantissimi avvenimenti? L’Italia che è una delle più importanti Repubbliche parlamentari, ha assistito ad un processo in cui il Parlamento, esautorato dalle sue funzioni, è rimasto fuori dalla crisi che è stata invece gestita dall’alto e non perché – aggiunge Revelli – qualcuno ha impedito ai partiti di agire, ma «per incapacità manifesta» (p. 17) di fare politica da parte del Parlamento stesso. Abbiamo cioè assistito a un «trasferimento assiale di sovranità» (p. 18) in cui l’uomo del Quirinale prevale su Parlamento e Governo. Sta accadendo nuovamente, in queste ore convulse dopo le consultazioni, in seguito alle quali ancora una volta è Giorgio Napolitano a gestire l’impasse con l’istituzione delle due commissioni di saggi.
Come reagiscono gli elettori dinanzi a tale scenario? Nel primo caso si sono comportati conseguentemente all’atteggiamento tenuto dalle forze politiche e questo spiegherebbe i risultati delle scorse amministrative.
      Ma la crisi di rappresentatività non è un fatto ascrivibile al 2012, era già partita un anno prima quando, in due città chiave come Napoli e Milano, a vincere le amministrative sono stati due uomini nuovi, fuori dalle logiche di partito e di schieramento: De Magistris e Pisapia.
E, se proprio si vuole essere precisi, bisogna andare ancora a ritroso nel tempo, ai referendum abrogativi del giugno 2011 il cui significato è importantissimo perché i temi sul tavolo non erano affatto rispondenti a logiche di partito; lo dimostra il fatto che filonuclearisti e politici scettici sulla “nazionalizzazione” dell’acqua c’erano anche nel centrosinistra. Secondo Revelli quel voto referendario mostra fortemente «una rivendicazione e una ri-appropriazione di ciò che è comune da parte della comunità: dei cittadini che ne rivendicano l’inalienabilità, al di là di ciò che possono decidere i loro rappresentanti politici» (p. 21).
Ci siamo trasformati dunque in una «democrazia senza popolo» e potremmo trovarci presto dinanzi a un «popolo senza democrazia» (p. 26). Se pensiamo infatti agli innumerevoli scandali bipartisan: dal sistema Penati allo scandalo Ruby; agli indagati; alle immunità per reati di mafia (Cosentino, Romano…); agli sprechi dei rimborsi elettorali, è facile intuire le profonde ragioni del rancore che muove i cittadini contro le istituzioni che dovrebbero rappresentarli.
La sfiducia nei partiti non è poi un fenomeno solo italiano ma coinvolge l’intero Occidente industrializzato ed è oggetto di numerosi studi. Ricerche non tanto recenti fanno riferimento a un discorso tenuto da Jimmy Carter, ex presidente degli USA nel 1979, in cui egli accenna già alla crisi di fiducia che i cittadini americani mostrano nei confronti delle istituzioni di governo.
Da queste ricerche emerge che il sentimento che accomuna gli elettori di tutto l’occidente è l’insofferenza nei confronti della «connotazione oligarchica dei propri sistemi consolidati di rappresentanza» (p. 33), cosa di cui, peraltro, aveva  già parlato, un secolo fa, Roberto Michels nella sua «teoria elitista» della politica (p. 38): ogni processo democratico è destinato, per forza di cose, a sfociare nell’oligarchia.
Non è dunque possibile ampliare la partecipazione democratica. Agli inizi magari gli obiettivi cui tendono sia il Partito che lo Stato sono nobili, ma quando la democrazia comincia a crescere e dunque ad ampliarsi, parallelamente cresce anche il bisogno di affidarne la direzione a un gruppo di cosiddetti capi. Michels paragona questo processo a un morbo autoimmune nutrito dalle masse  che mostrano di avere una naturale tendenza a sottomettersi a un padrone e a delegare tutto. 
Preferibile dunque per Michels –  che non per nulla aderì al fascismo – il rapporto diretto tra il Capo e la Massa senza «la mediazione non solo ingombrante ma deviante – parassitaria e generatrice di privilegi – della burocrazia di partito e di apparato» (p. 47).
Dopo il secondo conflitto mondiale però, si ritorna con convinzione alla democrazia rappresentativa e questo ritorno dura – in modo meno convinto forse, ma pur sempre forte – fino agli anni settanta e ottanta. Perché oggi la fiducia nella democrazia è venuta meno in modo così forte? Secondo Revelli i vecchi leader erano amati dalla massa sia per i sacrifici cui hanno dimostrato di saper far fronte, che per le rinunce, il senso dello Stato. Oggi invece i capi partito sono avvertiti sempre più come “casta” piena di privilegi e vizi, i leader sono peggiorati, sono mediocri, non conoscono i problemi della gente, sono inefficienti: di Peggiocrazia parla a tal proposito l’economista Luigi Zingales, ovvero di una zona grigia in cui si è definitivamente rovesciato il tradizionale rapporto che legava masse ed èlite istituzionali nel Novecento, quando le prime erano mobili mentre le seconde rappresentavano il punto fermo.
Ma non sono solo i leader politici ad essere cambiati. Protagonisti del mutamento sono anche gli elettori oggetto della rappresentanza: da braccianti e operai del Novecento siamo passati agli studenti, ai tecnici, agli intellettuali e ai professionisti. Questi nuovi elettori tendono ad autorganizzarsi, in una logica di subpolitcs o di politica della seconda modernità (si vedano a tal proposito le teorie di Ulrick Beck) una politica dal basso che «tende a mobilitare [orizzontalmente] tutti i settori della società» (p. 60).
Infine, la crisi della tradizionale organizzazione politica – il partito – è ascrivibile anche all’avvento del post-fordismo e ad un terzo mutamento, quello del modello organizzativo, che si concretizza nel passaggio dal «paradigma socio-produttivo» (p. 65) fordista-weberiano ad un altro diverso e contrapposto che non è più basato sulla centralizzazione, ma sul decentramento e la delocalizzazione: una sorta di vero e proprio post- fordismo politico.
Lo stesso Weber aveva profetizzato, già nel 1918, il passaggio dalla democrazia statale alla democrazia burocratizzata.
Le macchine organizzative novecentesche hanno tutte le stesse caratteristiche: dalla fabbrica, all’esercito, ai partiti, alle Chiese… queste macchine hanno funzionato bene fino a qualche tempo fa, poi all’improvviso – impossibile dire con precisione quando – hanno smesso di funzionare. Non è stato soltanto il funzionamento dei partiti a incepparsi, ma tutto il sistema: dai mercati che «si fecero a un tratto saturi, a crescita lenta, o vicina allo zero» (p. 76) alle amministrazioni pubbliche con i bilanci in rosso e un altissimo tasso di inefficienza. E se muta l’economia col passaggio da un tipo di organizzazione burocratica a uno di tipo catalitico (p. 78),  allora è inevitabile che anche i partiti di massa siano destinati a cambiare, specialmente quelli di tradizione socialista e comunista. Proprio i partiti comunisti sono quelli che meno di tutti sono riusciti a reggere al mutamento e, di conseguenza, sono scomparsi. Proprio loro che avevano basato tutto sulla logica della centralizzazione non hanno retto, un po’, dice Revelli, «come accadde ai sovrani d’Ancien régime quando venne meno l’antico principio dinastico» (p.83).
Il sistema fordista implode per diverse ragioni: la prima in assoluto è quella relativa ai costi organizzativi utilizzati per far funzionare i «giganteschi apparati» (p.84), troppo alti in un’epoca in cui la domanda era stagnante e la produzione si articolava ormai in piccoli lotti. Meglio pagare solo quando si acquista ed eliminare i costi fissi. Anche i partiti dovettero fare i conti con i costi di gestione. E proprio su questo tema, ovvero quello dei costi, si gioca oggi la crisi attuale della politica e aggiungerei anche del sindacato, almeno nella sua forma confederale. La politica post-fordista costa di più perché «deve comprarsi quanto non sa più (e non può più) produrre da sé, a cominciare dalla fiducia degli elettori» (p. 85).
Quindici anni fa Bernard Manin aveva illustrato il passaggio dalla «democrazia dei partiti» alla «democrazia del pubblico» (p. 105); ancor prima la democrazia dei partiti aveva sostituito il parlamentarismo delle origini. Secondo Manin queste trasformazioni sono strettamente connesse alle trasformazioni sociali, il fatto che oggi i partiti sono in declino è dovuto, a suo dire, alla liquefazione della società di classe novecentesca. Nella democrazia del pubblico non si vota più per il partito bensì per la persona, esattamente come nel parlamentarismo delle origini. La differenza sta nel fatto che mentre nel parlamentarismo elettore ed eletto spesso si conoscevano, nel caso della democrazia del pubblico gli elettori sono messi in contatto con gli eletti dai media.
Partendo dalle considerazioni di Manin possiamo definire quella dei grillini “democrazia di pubblico?”  La posizione del Movimento è perfettamente espressa dai due deputati del M5S al termine delle consultazioni con il capo dello Stato: «non abbiamo il nome del nostro candidato premier – dice il cittadino Crimi alla stampa incredula – ma non importa, lo troveremo due minuti dopo aver ricevuto l’incarico di formare un governo»; «ciò che conta – gli fa eco la Lombardi – non è la persona ma il programma del movimento». Bastano queste dichiarazioni a rendere il M5S una democrazia di pubblico?
Beppe Grillo non vede nella crisi dei partiti cause sociali e culturali. Pensa invece che la causa sia piuttosto tecnologica: la rete ha lo stesso ruolo che l’automobile e la produzione di massa standardizzata ebbero nel sancire la fine del «partito dei notabili» e della «democrazia parlamentare». La fine della politica così come l’abbiamo conosciuta dal Novecento a oggi, è un bene secondo Grillo, perché permette lo sviluppo di una democrazia diretta. La rete sostituirà tutto: giornali, tv, libri. I partiti spariranno e lasceranno il posto ai movimenti;  la rete, quindi, avrà lo stesso ruolo che, ai tempi della Riforma protestante, ebbe l’invenzione di Gutenberg. Alla stregua dell’invenzione della stampa – che nel 1500 favorì il diffondersi delle idee protestanti, contribuendo ad eliminare il divario tra i fedeli e le Sacre Scritture – la rete permetterà  ai cittadini di partecipare attivamente al processo decisionale e legislativo. La rete inoltre permette già «di emendare la politica dal vero male del secolo: la sua connessione con il denaro» (p. 117). Ancora una volta torna in mente l’accostamento a Lutero e alla sua battaglia contro il mercato delle indulgenze e la corruzione di Roma. Eppure la legge di Michels è sempre lì e prima o poi anche il Movimento 5 Stelle sarà inevitabilmente soggetto alla sottomissione a un processo di oligarchizzazione. Anzi, ne è già vittima, in quanto gli stessi membri delle commissioni nominate da Napolitano sono vere e proprie oligarchie (come ricordava qualche giorno fa Barbara Spinelli in un suo interessante editoriale) e tale risultato è frutto anche dell’indisponibilità del M5S a trattare con Bersani per rendere possibile la formazione di un governo.
Dunque più che di democrazia di pubblico dovremmo forse parlare di “democrazia immediata elettronica” che, se può anche andar bene quando c’è da scegliere tra due opzioni (ad esempio se sia meglio bombardare la Libia oppure costruire ospedali) potrebbe invece rivelarsi un boomerang, se si dovesse chiedere al web, sull’onda emotiva di un delitto, se si è favorevoli o contrari alla pena di morte, o se si approva o meno il ricorso alla guerra dopo un eclatante attentato. Questo tipo di democrazia potrebbe dunque rivelarsi un disastro.
Ma come siamo arrivati a questo punto? Si può davvero pensare di risolvere tutto addossando la colpa a quella che alcuni, forse in maniera semplicistica, hanno definito antipolitica, ma che – avvisa Revelli – andrebbe più opportunamente definita come contro-democrazia, che non è affatto la negazione della democrazia? Il popolo sente il bisogno di controllare gli eletti per evitare abusi di potere e corruzione. Una vera «democrazia della sorveglianza» (p. 123) in cui «il controllo monopolistico dello spazio pubblico da parte del partito novecentesco è finito» (p. 135) e lo dimostrano non solo Grillo, ma anche figure ambivalenti come quella di Renzi, che piace a sinistra e non dispiace a destra e che parla più o meno un linguaggio analogo, per certi versi, a quello grillino; e le primarie che – da che mondo è mondo – si celebrano sempre in concomitanza di una crisi di consenso: è accaduto nel 1995 in Francia; in Spagna all’epoca di Felipe Gonzàlez; negli anni ‘90 in Inghilterra.
Quali sono le responsabilità della politica? Perché – ci si chiede – bisognava aspettare Grillo per iniziare una seria e attenta rivalutazione degli sprechi della politica, oppure per comprendere la profonda necessità di dare al Paese una legge anticorruzione; o ancora accordare il rispetto dovuto alla volontà popolare su temi importanti quali l’ambiente, le energie alternative, i beni comuni?  
Un libro dal finale aperto: una domanda bruciante – è possibile una politica oltre i partiti? – che resta drammaticamente senza risposta e che oggi è ancora più attuale e incalzante, in questa crisi istituzionale senza precedenti, i cui scenari possibili diventano, ogni giorno che passa, più preoccupanti.

Alessandra Mangano







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