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sabato 1 dicembre 2012

Racconti siciliani



Danilo Dolci, Racconti siciliani, Palermo, Sellerio editore, 2008, 417 pp., ISBN 88-389-2307-8.

Danilo Dolci scrive la Sicilia. Non nel senso che la interpreta restituendocene l’immagine attraverso il filtro dei suoi occhi o della sua interpretazione personale. No. È come se lui la facesse parlare senza intermediari, così, in forma diretta con tutte le sue disperazioni, con la povertà e la fame; con quelle strade «miserabili e putride» descritte da Carlo Levi ne Le parole sono pietre. La Sicilia che Dolci ci racconta non può essere abbellita, nemmeno dal punto di vista linguistico; le voci dei protagonisti vengono fedelmente registrate così come sono, senza intenti estetizzanti. L’esito non è scontato perché Dolci è siciliano solo d’adozione, è un settentrionale che per vivere e raccontare la Sicilia, si fa – come dice, in più occasioni, lo storico Francesco Renda – meridionale tra i meridionali, siciliano tra i siciliani. 
I suoi personaggi sono braccianti, casalinghe, falegnami, ma anche madri senza latte e bambini denutriti. Gente comune che vive di espedienti, che cerca nella terra una disperata sopravvivenza, quella terra che regala l’erba da mangiare a Vincenzo, quando manca il lavoro e non ci sono soldi per comprare altro. Questa Sicilia dei racconti di Dolci è un universo ricco di simboli: un mondo parallelo dove ogni spiegazione alle grandi domande della vita è mutuata dai campi. Le stelle sono come le vacche che «quando aggiorna si ritirano sempre» [p.23] e la luna è fatta di cielo e «il cielo di fumo che si fa in terra e è salito» [ibi]. Volendo farne un’analisi scientifica, il tema è quello annoso della contrapposizione tra la cultura prodotta dalle classi popolari e la cultura imposta alle classi popolari e della tradizionale questione: se e come sia possibile rintracciare una forma di circolazione tra i due livelli. Nel dibattito tra storici e antropologi, tutt’oggi attuale, si inserisce il dualismo tra oralità e scrittura che ci riporta inevitabilmente agli studi condotti da Mandrou e da Bolème, alla creatività popolare, ma anche a Rabelais, a Bacthin e al carnevale. In tal senso i protagonisti dei racconti siciliani di Dolci, richiamano inevitabilmente alla mente anche Menocchio: il mugnaio friulano descritto da Ginzbourg ne Il formaggio e i vermi per il quale il caos è identificabile con una massa simile al formaggio dentro cui nascono gli angeli e Dio - per volontà della Santissima Maestà - proprio come dal prodotto gastronomico nascono i vermi.
Il mondo parallelo cerca una definizione di sé alternativa, quando non addirittura in aperta contrapposizione, a quello ufficiale. È il caso di Vincenzo, condannato a 4 anni e 20 giorni di reclusione per aver rubato due mazzi d’erba. Perché la Sicilia degli anni ‘50 è quella della riforma agraria e dei decreti Gullo, del separatismo, dell’occupazione delle terre e degli omicidi dei sindacalisti più rappresentativi di quelle lotte contadine: Accursio Miraglia, Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale, solo per citarne alcuni. Eppure da questo mondo, pur condividendone le istanze e le rivendicazioni, Dolci si discosta, scegliendo una via diversa alla seppur necessaria rivoluzione: gli scioperi della fame (digiuni individuali o collettivi) come arma nonviolenta, perché – come il titolo di un’altra sua opera fondamentale – bisogna Fare presto (e bene) perché si muore; o, ancora, lo sciopero alla rovescia causa di carcerazione e processo, ma anche di sostegno e  solidarietà da parte di intellettuali del calibro di Erich Fromm, Betrand Russell e Jean-Paul Sartre. Avversato dalla Chiesa del Cardinale Ruffini, tacciato come eccentrico dalla sinistra tradizionale, la sua “eresia” diventa prassi sociale e il suo dare voce alla gente non prevede un ammaestramento, o peggio, un tentativo, seppur minimo di acculturazione, ma solo una profonda empatia che l’autore – sollecitato nella stesura di questa raccolta da Italo Calvino – mostra con il profondo legame che nella sua vita hanno il pensare e l’agire. Secondo Dolci, infatti, per conoscere i poveri e dar loro una voce bisogna vivere come loro. È in quest’ottica che l’autore ha scritto Racconti siciliani ed è in quest’ottica che il lettore deve accogliere il libro, documento preziosissimo di un passato più che mai attuale. In un’epoca complessa e turbinosa, in cui le politiche di austerity, mascherate da imprescindibile necessità, aumentano il divario tra ricchi e poveri, creando nuove sacche di marginalità e di stenti, una rilettura di Dolci appare imprescindibile per comprendere la simbologia del disagio, della ghettizzazione e della paura. 

Alessandra Mangano

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