Piergiorgio Morosini, Il Ghota di Cosa nostra. La mafia del dopo
Provenzano nello scacchiere internazionale del crimine, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2009, 203 pp., ISBN 978-88-498-2373-8
Può una sentenza diventare un’accurata analisi del mondo di Cosa nostra,
della sua struttura, dell’organizzazione interna e perfino della sua storia?
Questa domanda non è né nuova né insolita: quando l’autorevole storico Carlo Ginsburg
decise di “rivedere” le carte del processo Sofri – nel suo saggio Considerazioni
in margine al processo Sofri – si aprì
un dibattito molto acceso e interessante sulla “sovrapposizione” tra la figura
del giudice e quella dello storico. Tale sovrapposizione produrrebbe
inevitabilmente – a dire di alcuni – la
menomazione di entrambe le funzioni. Non ci sembra questo il caso. Anzi, lo
stralcio della sentenza di primo grado emessa dal giudice Piergiorgio Morosini
il 21 gennaio del 2008, nel procedimento penale a carico di Adamo Andrea, mette
in luce, in modo chiaro e autorevole, i rapporti di Cosa nostra con la società;
le complicità e le coperture degli ambienti politici, economici e sociali.
Sorge immediatamente spontaneo, leggendola, l’accostamento tra il giudice e lo
storico; basta andare a rivedere quanto lo studioso Francesco Renda ha sottolineato,
in diverse occasioni, nei suoi scritti sulla mafia e cioè che Cosa nostra
affonda le sue radici nella società, stabilisce con essa solidi e duraturi
rapporti, cerca complici con vari ceti sociali, con la politica, con le
pubbliche istituzioni e perfino con la Chiesa. La mafia non solo si nutre di
questi rapporti, ma sono tali rapporti a darle perfino un’identità forte[1]. La
sentenza, dunque, non fa che confermare con nettezza le analisi storiche e il
testo del giudice Morosini ci dimostra come sia assolutamente naturale che, a
volte, un giudice possa anche – seppur involontariamente – divenire storico.
Tra
quelle carte possiamo osservare il delinearsi di un percorso in cui due mafie
agiscono in parallelo: quella arcaica del boss Provenzano e quella borghese
delle nuove generazioni (p. IX). I due piani non solo si intersecano ma
mostrano il modo in cui l’una finisce per diventare imprescindibile per l’altra.
L’operazione Ghota, da cui il libro prende il titolo, porta innanzitutto
a smascherare l’intero sistema di appoggio e di protezione di cui godeva
Provenzano prima dell’arresto. I pizzini
ritrovati nel suo covo, infatti, spalancheranno le porte del carcere anche a
professionisti insospettabili e naturalmente a politici di spicco.
Il momento dell’arresto di Provenzano è delicato: il vecchio boss è ormai
stanco e braccato; continua ad essere oggetto di rispetto ma non più
incondizionato; nell’ambiente di Cosa nostra, tutti sentono avvicinarsi ormai
il momento dell’abdicazione. É questa la fase in cui la storia della mafia
cambia: è necessario che l’organizzazione criminale ritorni sullo scacchiere
internazionale, dopo gli anni di Riina e dei corleonesi. Ne è ben consapevole
Lo Piccolo che su questa “internazionalizzazione” punta tutto, perfino la sua
candidatura alla leadership di Cosa
nostra, finendo inevitabilmente per scontrarsi con l’ala corleonese capeggiata
da Anotonino Rotolo, capo mandamento di Pagliarelli. Agli arresti domiciliari –
dopo aver congegnato metodiche dalle più artigianali alle più raffinate per
sfuggire sia ai controlli delle forze dell’ordine sia ai suoi potenziali nemici
– Rotolo continua a comandare e disporre, non sapendo di essere, invece,
intercettato.
Binnu è una figura complessa e al tempo stesso cruciale nella svolta che si
determinerà all’indomani del suo arresto; di lui Morosini ci dice che sembra un
personaggio uscito dal Tractatus politicus di Spinoza: uno che, insomma,
riesce a sottomettere offrendo paura ma anche ricchezze, un vero maestro nella
strategia del bastone e della carota. Sottomissione in cambio di vantaggi e
benefici, è questo il suo metodo. Non a
caso è a lui che si deve la creazione, all’interno di Cosa nostra, di un vero e
proprio welfare secondo il quale i mandamenti più ricchi, avevano l’obbigo di
redistribuire i profitti a quelli più poveri, evitando così faide legate agli
affari.
Eppure il vecchio e onorato boss, a un certo punto, non riesce più a
tenere a bada le rivalità interne alla sua organizzazione che – proprio alla
vigilia del suo arresto – è sempre più vicina alla resa dei conti con una nuova
guerra di mafia che sembra ormai tanto imminente quanto inevitabile. Rotolo è
furioso perché è contrario al rientro degli Inzerillo in Italia. Lo Piccolo ne
è consapevole: ricorda perfettamente il veto che Totò Riina pose su di loro e
sa – da “uomo d’onore” – che i patti, dentro Cosa nostra, non si violano. Ma la
consapevolezza non basta, gli Inzerillo servono a svecchiare Cosa
nostra, a farla rientrare nel circuito dello spaccio internazionale di droga. Uno dei temi principali del processo Ghota è
proprio il ruolo che Cosa nostra esercita nella rotta Palermo-New York della
droga: chiave di lettura fondamentale non solo per studiare il passato della
mafia ma anche per capirne le future scelte.
La droga produce profitti altissimi, conferisce potere, ma garantisce
anche dominio ed espansione. In tal senso, riallacciare i rapporti con gli
Inzerillo è essenziale per la famiglia Lo Piccolo. Rotolo dal canto suo è
spaventato da questo ritorno perché sa bene che «per il sangue di un proprio
congiunto non esiste il perdono nel codice di Cosa Nostra» (p.44). Proprio lui è
stato protagonista diretto delle stragi con cui Riina, agli inizi degli anni
ottanta, ha eliminato scientificamente numerosi membri di quella famiglia,
proprio in relazione al controllo delle rotte che portavano la droga in
America.
E come si comporta il boss di Pagliarelli dinnanzi a tale eventualità?
Parla con Provenzano e in un pizzino gli scrive che non è ammissibile un
rientro degli “esiliati” a Palermo. Il vecchio boss temporeggia per poi
decretare, alla fine, che forse almeno in occasione della Pasqua, si potrebbe
loro concedere una visita. Sembra che il “fantasma” non voglia prendere una
posizione chiara e Rotolo, incassato il colpo, decide di fare a modo suo:
inizia pertanto a progettare l’omicidio dei Lo Piccolo, padre e figlio. La
presenza di Provenzano diventa dunque, sempre più lontana, sempre più sbiadita,
quasi spettrale.
Alla fine la guerra si sfiora ma non si concretizza solo perché
l’operazione Gotha porterà all’arresto di Provenzano. Mentre l’anno successivo saranno
i Lo Piccolo a cadere nella rete degli inquirenti.
Al di là delle logiche interne ai clan, delle faide per la successione e delle
guerre intestine, quello che rende interessante la sentenza – che non a caso
diventa un libro accessibile anche ai non esperti del settore – è il modo in
cui viene raccontata Cosa nostra dagli stessi appartenenti all’organizzazione
criminale. Se prendiamo ad esempio le intercettazioni ambientali a casa di
Rotolo o qualche “pizzino” ritrovato nel covo di Provenzano, da quelle
conversazioni viene fuori una «Cosa nostra dal “vivo”, nel suo modo di essere e
di pensare, con tutte le sue ambiguità, le sue contraddizioni e in tutta la sua
terribile ingenuità» (p.19); non solo: emerge in modo drammatico quanto la
mafia sia garantita da legami di acciaio che coinvolgono tanto la gente comune
quanto le alte sfere non solo della politica – in modo trasversale ai partiti –
ma anche del mondo delle imprese e della sanità. Le famiglie mafiose sono
eterogenee e numerose. Al loro interno non mancano professionisti – dai medici,
Antonino Cinà e Guttadauro, agli avvocati – e infiltrati nel mondo politico.
Non è un mistero ormai che il salotto di Guttadauro era frequentato, durante
gli arresti domiciliari, da numerosi esponenti del mondo politico e della
borghesia cittadina.
È questo il modo in cui le due mafie – quella tradizionale e quella nuova
– provano a convivere: dopo la stagione stragista di Riina inizia una nuova era
in cui Cosa nostra mostra di avere come obiettivo primario l’accumulazione
della ricchezza, l’impresa. Guttadauro e Cinà sono il volto della mafia che si
innova e che vuole sostituirsi a quella dei vecchi boss «sanguinari e
analfabeti» (p. 165); nessuno spargimento di sangue ma la costruzione di una
nuova classe dirigente mafiosa che mira a fare affari insieme con e attraverso
la politica. Certamente questa commistione esisteva anche ai tempi di Riina ma,
in quel periodo storico, la mafia pretendeva la gestione diretta e
centralizzata del sistema degli appalti. Già con Provenzano cambia tutto: si
preferisce lasciare questo compito alle imprese di riferimento e quindi la
presenza di Cosa nostra – seppur sempre forte e incisiva – appare molto più
discreta. Meglio trattare con le istituzioni e magari anche «infiltrare mafiosi
nella rete dei collaboratori di giustizia per depistare indagini e smontare
sentenze già definitive» (p. 70).
Cosa nostra per divenire impresa ha
dunque bisogno di relazioni e appoggi, del resto «non esiste mafia senza
rapporti con la società, con la politica, con l’economia» (p. 138).
La sentenza del Giudice Morosini è del 2008. Oggi i rapporti tra la
criminalità organizzata e la politica non solo continuano ad essere intensi ma
hanno addirittura subito un mutamento antropologico: basti andare a riascoltare
le intercettazioni telefoniche del camorrista che si dice soddisfatto di aver
fatto piangere il deputato. La politica, dunque, non solo è complice ma appare
persino totalmente sottomessa alla criminalità organizzata. Del resto, in molti
casi, il bacino di consensi viene fuori proprio dalle decisioni interne alle
organizzazioni criminali e – come è sempre stato – il favore ha un prezzo da
pagare, spesso molto alto. Restano forti anche i legami con il mondo delle
imprese, soprattutto quelle del Nord, e ciò crea uno scenario da brivido in cui
le due categorie geografiche smettono di esistere come opposti, sovrapponendosi
in un pericoloso intreccio di interessi, scambi, vantaggi reciproci che hanno
dei costi altissimi che finiscono per gravare sulle spalle di tutti i cittadini
onesti. Va detto però, che negli ultimi anni, anche gli imprenditori
–soprattutto quelli di ultima generazione – hanno mostrato di voler mandare in black-out
la spirale perversa del circuito delle estorsioni decidendo, finalmente, di
denunciare e di opporsi, così facendo, al giogo del pagamento di questo odioso
balzello.
Quale sarà il futuro di Cosa nostra non sappiamo. Molto ancora andrebbe
fatto sul piano culturale – spesso trascurato – e non puntare soltanto tutto
sulla sfera repressiva. Molto sicuramente potrà incidere anche l’esito
dell’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia, aiutandoci a svelare i misteri più
profondi di una delle stagioni più tragiche della storia del nostro paese.
Quello che è certo – e che questa sentenza spiega in modo chiaro e preciso – è
che la mafia non ha futuro senza relazioni parallele col mondo politico ed
economico.
Si dice che per trovare un antidoto ai mali è necessario prima conoscerne
le cause. Le seconde le abbiamo da anni, attendiamo ancora di trovare
finalmente il primo.
Alessandra Mangano
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