Leonardo
Sciascia, La storia della mafia, Palermo, Barion, 2013, 67 pp. (Pugni), ISBN
978-88-6759-001-8.
«La
mafia è un’associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per
i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta
con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il
consumo, tra il cittadino e lo Stato.» (p. 25): questa è la definizione della
mafia a cui arriva Sciascia all’interno di questo breve ma intenso volumetto,
che in sole 37 pagine, si pone l’arduo obiettivo di ricostruire passo passo i
momenti che hanno portato la mafia ad essere l’atroce piaga che ancora oggi non
vuole – o non può? – scomparire da questa splendida isola.
La
trattazione prende spunto dall’analisi etimologica del termine, che si fa
derivare, seguendo la lezione del Traina, da maffia, ossia miseria, parola importata da funzionari piemontesi
venuti in Sicilia dopo l’unità d’Italia. Del Traina e soprattutto del Pitrè
Sciascia rifiuta e contesta la concezione del fenomeno mafioso, secondo cui «la
mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti» (p. 8), ma è
anzi «ipertofia dell’io, dell’io dei singoli siciliani» (p. 10).
Lo
studio continua facendo risalire l’invenzione della mafia come associazione a
delinquere a Giuseppe Rizzotto, che nel 1862 compose la commedia I mafiusi di la Vicaria: momento
cruciale per la lotta contro la criminalità, secondo Sciascia, visto che il
cambio di prospettiva attivò una serie di studi e indagini che misero in evidenza
il fenomeno mafioso; l’autore è convinto che la mafia sia uno dei più grandi
mali sociali e in quanto tale non può essere minimizzato, se c’è la volontà di
liberarsene.
Nel
testo non mancano i riferimenti letterari: notevole è quello a I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.
Per spiegare cosa fosse la mafia in origine, Sciascia prende ad esempio il
fenomeno della «braveria»: «sgherri del tipo dei bravi,» dice «al servizio
degli interessi e dei capricci dei nobili, in Sicilia furono i prototipi dei
mafiosi» (p. 25). Mentre in Lombardia, una volta finito il dominio spagnolo, la
“braveria” fu eliminata grazie all’energica attività dei funzionari austriaci,
in Sicilia essa perdurò fino a diventare quella che vediamo ancora oggi.
Sciascia
successivamente riflette sul tema del trasferimento, come arma più forte del
potere mafioso: «in Sicilia un funzionario che si mostrasse sagace e onesto,
resistente alla corruzione o alla pressione dei potenti, veniva isolato o
espulso come corpo estraneo» (p. 27). Ne deriva che la storia della mafia non è
altro che «storia della complicità dello Stato […] nella formazione e
affermazione di una classe di potere improduttiva, parassitaria» (p. 28).
Il
saggio si conclude con un breve accenno al rapporto tra mafia italiana e americana,
emblema dell’inefficienza dello Stato di fronte alla potenza criminale.
Il
libro consta di tre parti: la prima, di cui si è discusso sopra, reca il titolo
che è anche dell’intero volume; la seconda, intitolata Io, Nanà e i don, scritta da Giancarlo Macaluso, è il racconto del
rapporto di Sciascia col fenomeno mafioso, esposta da uno dei suoi più cari
amici, Stefano Vilardo. Questi ci racconta quanto Nanà – così confidenzialmente gli amici chiamavano Sciascia – fosse
stato un attento spettatore e un narratore lucido delle dinamiche che regolano
i rapporti mafiosi, partendo dagli esempi concreti che osservava nella sua
Caltanissetta: «Sciascia mi diceva che quando la mafia si imborghesisce […] poi
sforna avvocati, medici, imprenditori, professionisti. Insomma, quelli che si
chiamano colletti bianchi. Cambia la forma del mafioso, ma la sostanza resta
sempre quella» (p. 49).
Il
libro si conclude, e questa è la terza parte, con la Postfazione di Salvatore Ferlita, in cui è narrato il fitto scambio
epistolare tra Sciascia e Italo Calvino.
Vincenzo
Bagnera
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