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sabato 5 aprile 2014

I Giorni della Parola

Salvatore Lo Bue, I Giorni della Parola. Il vangelo secondo Giovanni e la Poetica, Milano, Franco Angeli, 2013, 127 pp., ISBN 978-88-204-5236-0.

L'ultima fatica di Salvatore Lo Bue, docente di Poetica della fu Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo, si intitola I Giorni della Parola. Il vangelo secondo Giovanni e la Poetica. Voglio precisare che non si tratta in questo libro di questioni teologiche o di fede, ma di Poetica. Poetica che Aristotele definisce scienza, rigorosa operazione creativa e che indaga l'origine, il divenire e il manifestarsi dell'atto di poesia. Per Lo Bue, infatti, la struttura della narrazione evangelica (in questo caso quella del vangelo di Giovanni) ripropone i principi della poetica aristotelica.
Nel vangelo di Giovanni noi abbiamo la rappresentazione di un'azione seria, complessa e compiuta in se stessa, che ha una certa estensione, con uno stile opportuno in ogni sua parte e che racconta una storia che è principio e anima dell'opera, la storia di Gesù di Nazareth.
I fondamenti dell'azione tragica canonizzati da Aristotele si riscontrano nel nodo (δέσις), ossia «tutti questi casi che sono estranei all'azione propriamente detta, e spesso anche taluni di quelli che fanno parte di essa azione, costituiscono il nodo. In altre parole, chiamo nodo quella serie di casi che vanno da ciò che si prende come principio della favola fino a quel punto della tragedia da cui immediatamente si inizia la mutazione da uno stato di infelicità a uno stato di felicità o viceversa»;[1]
e poi nello scioglimento del nodo (λύσις) che avviene attraverso un'azione tragica complessa che comprende sia le peripezie sia il riconoscimento.
Sembrerebbe una passeggiata il lavoro di Lo Bue, che si limita semplicemente ad applicare le rigorose leggi della poetica aristotelica a uno dei quattro vangeli. Tuttavia, il libro mostra un aspetto non secondario, che si rivela invero il problema centrale della poetica del vangelo di Giovanni. E all'autore va il merito di averlo esaminato in maniera attenta. Il "problema" si chiama Prologo del vangelo di Giovanni.
Che vuol dire? Sempre riferendoci all'Aristotele della Poetica, il filosofo greco sostiene che la verità abbandona la ragione della poesia, è cade ogni rapporto tra essenza e parola. L'unica scienza in grado di pensare l'essere in quanto essere è la Metafisica. È tolto pertanto ogni orizzonte celeste alla poesia. La poesia non è più dono del dio, ma soltanto una scienza, un'operazione creativa.
Nel prologo del Vangelo di Giovanni è però scritto:
«In principio era il Logos, / e il Logos era presso Dio, / e il Logos era Dio. / Il Logos era, in principio, presso Dio. / Tutte le cose, per lui, sono venute alla luce / e niente, di tutto ciò che esiste, senza di lui / è venuto alla luce. / La Vita era in lui, / e la Vita era la luce degli uomini: / e la luce illuminò le tenebre, / e le tenebre la rifiutarono. / [...] E il Logos si fece carne / e venne e abitò tra di noi. / Di lui abbiamo visto la gloria, / la gloria di colui che è l'Unigenito, / pieno di grazia e di verità».[2]
È evidente che il Prologo non lascia spazio ad altre interpretazioni: Gesù è la Parola, l'Opera che racconta Dio, che racconta se stessa.
Non può essere la poesia analizzata da Aristotele, lontana dall'essere e dalla verità.
Qual è dunque la libertà del poeta? La libertà dell'autore Giovanni sta nell'essere autore di una cornice che racchiude il quadro che è già fatto, perché è lo stesso Logos a essere racconto e voce narrante.
Lo Bue introduce, quindi, Platone e i dialoghi di Socrate, per realizzare quel paragone che è utile a farci comprendere il superamento della poetica aristotelica, e nello stesso tempo la poetica platonica. Socrate è protagonista delle opere di Platone, Gesù non è protagonista, bensì Opera e creatore.
A complicare ulteriormente la trama del libro è la teoria del «terzo schema». Infatti, per Lo Bue, la poetica evangelica è il superamento della tradizione poetica omerica dove la poesia è poesia dei moti del cuore, poesia del presente, poesia fatta di gesti, di movimenti e di azioni. L'autore riporta come esempio l'episodio del canto XIX dell'Odissea in cui Euriclea riconosce l'eroe. È superamento anche della poesia biblica del Vecchio Testamento, una poesia definita del silenzio, dell'indeterminato, del non detto, «degli spazi interminati, dei sovrumani silenzi» [p. 16], dice Lo Bue. E riporta come esempio il sacrificio di Isacco. E questa è la narrazione biblica che canta soltanto la gloria di Dio unico e solo, e che non tiene conto della vita umana.
Superamento significa anche sintesi e questa sintesi poetica dei due modelli, quello omerico e quello biblico, rappresenta il modello della scrittura giovannea.
Un modello che influisce in maniera potente nella narrazione occidentale e nella poetica occidentale.
Il professore Lo Bue individua cinque elementi che caratterizzano la poetica del vangelo di Giovanni.
1) La scena
che muove sempre da luoghi geograficamente precisi e da scene ben costruite: descrizioni minuziose, movimenti dei personaggi, variazioni psicologiche. Le scene del vangelo sono definite pittura, quasi una forma di realismo che è di matrice omerica;
2) L'incontro
tutto accade nell'incontro, nell'incontro con la Verità. Il vangelo di Giovanni è storia dell'incontro con Gesù che si rivela e si dice e si manifesta e agisce per la salvezza di tutti i viventi (l'incontro con Giovanni Battista, l'incontro con la Samaritana, l'incontro con l'emorroissa, l'incontro con Marta, e con l'adultera);
3) Il dialogo e la rivelazione di sé
negli incontri e nei dialoghi emerge l'elemento di identità tra personaggio e pensiero in cui Gesù è il Logos, Dio è Persona e non forma ed è proprio la rivelazione a muovere gli incontri;
4) L'azione
questo è uno degli elementi che supera veramente gli altri modelli. In questo Giovanni si fa costruttore di scene e non di verità, la verità non ha bisogno di essere costruita, perché la verità è essa stessa e va messa in scena;
5) I personaggi
i personaggi del vangelo sono nuovi e sono determinanti per la letteratura occidentale. Essi sono complessi, ma nello stesso tempo occupano spazi di pochissime battute in dialoghi serratissimi e diventano figure universali. Non ci sono 100 pagine a descrivere la Samaritana, come ad esempio fa Manzoni con la monaca di Monza. Solo pochi versi, che tuttavia sono scolpiti e hanno insieme la concretezza psicologica degli eroi omerici e l'astratta lontananza dei personaggi veterotestamentarii e che superano Odisseo e Abramo, perché parlano e agiscono animanti da quella energia scaturita dall'incontro. Questa è una grande costruzione poetica.
Questa è per grandi, grandissime linee l'analisi della poetica giovannea che fa Lo Bue, tuttavia non sarebbe un libro di Lo Bue, se esso rimanesse chiuso in questa disamina scientifica, di termini canonizzati.
Infatti, a un certo punto inizia la narrazione, perché la poetica - e Lo Bue ce lo ha dimostrato nei precedenti libri - si comprende nei versi non nei termini scientifici, nella lettura del testo.
Il libro quindi racconta gli ultimi tre anni di vita di Gesù, il 28, il 29 e il 30 (è bene ricordare che il vangelo di Giovanni, rispetto ai sinottici, non narra l'annunciazione, la natività di Gesù). Il vangelo di Giovanni, dopo il Prologo, narra l'incontro tra Giovanni Battista e Gesù al fiume Giordano. Gesù è già adulto.
La narrazione è quindi scandita dalle stagioni e dagli incontri. Non entro nel merito della narrazione, poiché non voglio dilungarmi e voglio lasciare ai lettori il piacere di leggere le pagine di questo libro meraviglioso.
Voglio tuttavia soffermarmi su un episodio che ritengo importante nell'economia del vangelo di Giovanni e quindi anche nel libro di Lo Bue.
La morte di Lazzaro, o meglio la resurrezione di Lazzaro, che è un episodio noto del vangelo. Gesù ritarda il suo incontro con Lazzaro, che è malato e nel frattempo muore. Gesù allora si dirige verso il villaggio e resuscita Lazzaro.
Prima del miracolo avviene - attraverso queste parole: «Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Tu lo credi?»; e la risposta di Marta: «Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che doveva venire al mondo» - una prima fase del riconoscimento (l'Άναγνώρισις della poetica aristotelica), ossia il passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza: «riconoscimento è salda visione del destino, evidenza dell'inganno, occhio aperto sull'abisso dei mali, stasi prima della caduta, sapienza finale della propria condizione tragica e umana. E quando accade il riconoscimento, la catastrofe è puro, semplice scioglimento, l'abbandono consapevole alle forze avverse che hanno determinato il mutamento e ora consegnano alla fine».[3] Ciò appare una conferma di quel «terzo schema» chiamato in causa prima. Il Logos stesso opera il suo riconoscimento ed è quindi nello stesso tempo rivelazione di sé.
È necessario sforzarsi di immaginare il lettore o colui che ascoltava il messaggio, la storia di Gesù ai tempi dell'evangelizzazione, quale colpo di teatro riceveva. L'evangelizzazione è un fenomeno storico e la poetica giovannea è certamente uno strumento forte e invincibile in dotazione agli evangelizzatori. Pensate ai popoli pagani, cui veniva raccontato il Logos e l'identità della Persona, quale storia appassionante doveva essere il racconto del vangelo. Chi ascoltava o leggeva per la prima volta, si trovava di fronte alla perfetta narrazione della Verità. Aveva iniziato a sospettare che Gesù fosse il Figlio di Dio, il Messia, tuttavia sono ancora solo segni, ipotesi, fino a quando non avviene il Riconoscimento.
Per chi sa come va a finire la storia è diverso. Non abbiamo il colpo di scena per vari motivi. Chi non conosce la storia, riceve invece un sussulto forte. Non è un caso, che dopo l'episodio della resurrezione di Lazzaro, inizi la Passione, che è il momento della catastrofe (πάθος). Vi saranno l'arresto, le percosse, l'incoronazione e la crocifissione. Le sofferenze prima del riconoscimento definitivo del Logos che in questo caso non dà luogo alla catarsi come vuole l'impianto aristotelico della tragedia, ma alla Salvezza attraverso l'annuncio del regno di Dio che si rende visibile nel sacrificio e nella resurrezione del Figlio.
A questo punto io mi fermo, perché c'è un limite, detto dell'ineffabile, dell'indicibile che soltanto il poeta può tentare di esplorare, rimanendo in equilibrio sul confine che è quello della Parola e del Sacro, per questo voglio chiudere invitandovi alla lettura de I Giorni della Parola.


Piero Canale




[1] Aristotele, Poetica, 1455b 24-28, trad. M. Valgimigli, Roma-Bari, Laterza, 1964, pp. 66-8.
[2] Gv 1, 1-5, 14.
[3] Salvatore Lo Bue, La Musa Drogata. Saggio sulle origini della poetica, Milano, Franco Angeli, 1999, p. 136.

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